Non avrai nulla e sarai felice?

di Roberto Pecchioli

You’ll own nothing and you’ll be happy. Non possiederai nulla e sarai felice. In inglese il verbo to own indica l’atto di possedere, essere proprietari. E’ la frase simbolo dell’Agenda 2030, del Grande Reset pensato, voluto e realizzato a tappe forzate dall’oligarchia globalista. Klaus Schwab e i suoi compari del Forum Economico Mondiale non usano le parole a caso. Loro, l’iperclasse, resteranno padroni (owners). Di tutto, proprio di tutto; oligarchia estrattiva, nel senso che estrae, ossia ruba, espropria ciò che è nostro, se ne impadronisce e lascia le briciole. Anzi, neppure quelle. A loro la padronanza, il dominio, a noi una fugace, finta felicità fatta di sensazioni e il tuffo nel virtuale. Il Metaverso come oppio dei popoli. Il reale è tutto loro.

Il tecnocapitalismo transumano è una forma sofisticata di comunismo oligarchico. In alto i padroni universali, detentori delle nostre vite, presto dei nostri pensieri, dai quali deve essere scacciata l’idea di proprietà, di possesso. Di cose, beni, ma anche di identità, volontà, orgoglio, autonomia, pensiero, in definitiva libertà. In basso, a una distanza enorme – una differenza non solo di mezzi- noi, la plebe fungibile, i “deplorevoli” di Hillary Clinton, da sfoltire con apposite campagne (abortismo, omosessualità, eutanasia, epidemie) e assoggettare a un dominio più pervasivo di ogni altra dittatura.

Non possiederai nulla e – dicono- sarai felice. Una vita a nolo, derubati dell’avere, espropriati dell’essere. Non avremo nulla e non saremo nulla, capi di bestiame con codice a barre e microchip contenente tutta la nostra vita, a disposizione di lorsignori, padroni e controllori. Se tutto è proprietà altrui, noi siamo schiavi; non persone e neppure individui, solo cose, gregge a disposizione del pastore. Distopia, pessimismo cosmico, complottismo? No, osservazione della realtà senza le lenti rosa della propaganda e i paraocchi della narrativa confezionata dall’alto, creduta per ripetizione, soprattutto perché ci hanno estirpato il pensiero critico, la capacità e la volontà di giudizio. Il più drammatico degli espropri.

Un esempio concreto è la direttiva dell’Unione Europea detta EPBD (Directive on the Energy Performance of Buildings) ossia Direttiva sul rendimento energetico nell’edilizia, che la propaganda (pardon, la corretta informazione ufficiale) definisce “il principale strumento legislativo per promuovere il rendimento energetico degli edifici e favorire il rinnovamento all’interno dell’UE.”

L’UE è la più ubbidiente delle istituzioni di servizio del Dominio. In alto, per mettere a nostro carico le immense ristrutturazioni di cui hanno bisogno per mascherare e superare la crisi sistemica del tecnocapitalismo, hanno inventato e rapidamente imposto la “transizione energetica”, designando il nuovo nemico: l’umanità intera e le sue attività, che producono anidride carbonica in eccesso. Di qui la guerra neocapitalista al combustibili fossili, dichiarata a partire dai gestori dei giganteschi fondi di investimento. Uno è Black Rock, rapidamente imitato da altri colossi finanziari, il grumo di ricchezza e potere il cui pseudonimo è “mercato”. Il dominus della Rocca Nera, Larry Fink, con una semplice lettera agli investitori, ha avviato gigantesche dismissioni finanziarie nel settore energetico fossile che hanno innescato i drammatici aumenti del prezzo dell’energia di cui subiamo le conseguenze. Padroni di tutto, hanno buon gioco a far credere a masse cretinizzate che la colpa è di Putin, il Satana di turno.

Secondo il commissario europeo per l’energia, Kadri Simson, gli edifici sono il più grande consumatore di energia; utilizzano il quaranta per cento delle risorse e producono il trentasei per cento delle emissioni di gas serra. “La maggior parte degli edifici non è efficiente dal punto di vista energetico ed è ancora alimentata da combustibili fossili.” Orrore.  “Dobbiamo fare qualcosa con urgenza, poiché oltre l’ottantacinque per cento degli edifici di oggi sarà ancora in piedi nel 2050, quando l’Europa dovrà essere climaticamente neutra”. Chissà che la soluzione più rapida non sia qualche bombardamento umanitario. Gli angloamericani hanno una considerevole esperienza, in proposito.

Comunque, detto fatto: la direttiva vincolerà gli Stati membri e le nostre case perderanno gran parte del loro valore. La bozza della nuova EPBD prevede infatti che, a partire dal 2027, sia vietata la vendita e l’affitto degli immobili di classe energetica inferiore alla E, circa il novanta per cento. Un colpo mortale alla proprietà del bene più importante di tutti, la casa in cui viviamo. Tutto a norma di legge. Carl Schimtt chiarì qual è il concetto di legalità per i dominanti: “La legalità diventa l’arma avvelenata con la quale si colpisce alle spalle l’avversario. In un romanzo di Bertolt Brecht alla fine il capo dei gangster comanda ai suoi seguaci: il lavoro deve essere legale. La legalità finisce come parola d’ordine di un gangster”. O di una banda di nemici di tutti noi, la trascurabile maggioranza.

La direttiva imporrà di alzare l’asticella alla classe energetica più elevata per escludere dal mercato gli immobili non conformi. Esproprio tra gli applausi della Montagna Incantata di Davos, di Klaus Schwab, dei miliardari “filantropi”, tutti soci, membri o dirigenti del Forum Economico Mondiale, come lo stesso Larry Fink. Schwab, gran ciambellano di un’associazione privata, definito dalla pagina italiana di Wikipedia “filantropo tedesco”, (se la cantano e se la suonano) è invitato alle riunioni di Stato, dal cui pulpito impartisce disposizioni ai governi in nome della Cupola.

Naturalmente, è per il nostro bene, il gregge che non possiede nulla, felice per obbligo. Viva viva il direttore nostro grande educatore, cantava Alberto Sordi nel film Il maestro di Vigevano. Poco è cambiato e la piacente signora Simson, esponente politica estone di secondo piano, può dire senza vergogna che “migliorare le nostre case è una risposta efficace agli alti prezzi dell’energia: gli edifici con le prestazioni peggiori consumano molte volte più energia di quelli nuovi o adeguatamente ristrutturati. E spesso sono i più vulnerabili coloro che vivono nelle case meno efficienti e quindi faticano a pagare le bollette. La ristrutturazione riduce sia l’impronta energetica degli edifici che i costi per le famiglie, stimolando l’attività economica e la creazione di posti di lavoro”. Ci espropriano per le magnifiche sorti e progressive del gregge europeo.

L’abolizione della proprietà privata diffusa e popolare è il cardine del Grande Reset; per questo hanno inventato lo slogan “non avrai nulla e sarai felice”. Ma come è possibile che un programma di questo tipo possa funzionare, attecchire nell’immaginario collettivo? Non si tratta soltanto della forza coattiva del potere. C’è di più, e attiene a un lungo processo promosso dall’alto che ci sta cambiando nel profondo, sino a modificare alcuni degli istinti più potenti della specie. Siamo arrivati a preferire il virtuale al reale, l’attimo alla durata, il bagaglio del nomade alla solida realtà del radicamento.

Per questo possiamo credere- e possono farci credere- che saremo felici senza possedere nulla. Erich Fromm, in Essere o avere, ebbe un’intuizione che i padroni universali stanno utilizzando per i loro fini: l’avere si riferisce a cose, l’essere all’esperienza. Byung-Chul Han, il pensatore tedesco coreano esploratore del presente, scopre che viviamo tra “non cose”, ossia abbiamo smesso di vivere il reale. “Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud. “Lo spaesamento dei “nonluoghi” della modernità di cui parla Marc Augé è oltrepassato per mezzo di una perdita ulteriore. Smarrito il contatto con il reale, attratti, abbacinati dalle immagini che ci illudiamo di penetrare, nelle quali ci tuffiamo navigando nel virtuale, perdiamo il senso di ciò che siamo.

Disprezziamo ciò che abbiamo, dimentichiamo ciò che siamo in nome dell’esperienza momentanea e dell’emozione. L’errore di Han è confondere l’” essere” con il salto antropologico che intuisce. Non viviamo nel tempo in cui l’essere prevale sull’avere: i verbi che ci descrivono sono sembrare, apparire, esperire. Esperire, ossia fare esperienza di qualcosa. Oggi, in una notte del mondo in cui reale e virtuale, vero e falso, tendono a confondersi, esperienza e finzione, sogno e labirinto si intrecciano e plasmano un’umanità irriconoscibile.

Il nomade non è interessato alla proprietà, tanto meno alla stabilità; la sua identità mobile è fortissima benché “sui generis”. Egli reca con sé ogni cosa che gli appartiene fintanto che gli è utile: il gregge che lo sostenta, la tenda che lo protegge nel riposo. Ha pochi ricordi, nel senso che noi attribuiamo al termine. La sua meta è il viaggio. Così ci sta trasformando la postmodernità. Viviamo di emozioni, pulsioni, esperienze. La necessità più viva è essere sorpresi: per questo abbiamo bisogno di continue novità. Fintanto che il sistema riuscirà a provvederci di emozioni, saremo alla sua mercé, schiavi alla ricerca di lampi di felicità. Legati, inevitabilmente, alle “non cose”. Accoglieremo con soddisfazione una vita a nolo. Automobile in affitto, case abitate a giorni: il mondo di Uber e Airbnb. Accetteremo rapporti umani strumentali, sempre più veloci per la noia che incombe.

Essenziale resterà la relazione con gli apparati artificiali, specie lo smartphone, porta dell’infinito virtuale, l’unica proprietà che difenderemo gelosamente sino all’uscita del modello successivo, più rapido, più performante, soprattutto più simbolico. I simboli sono “non cose”. Ci leghiamo a d essi, non più agli oggetti della nostra vita. Libri, suppellettili, perfino abiti e gioielli, l’automobile, la casa e la terra, quelli che chiamiamo ricordi e hanno conferito senso e continuità alle nostre vite, sono legami, dunque pesi inattuali, orpelli di cui disfarsi sull’altare delle esperienze.

La libertà a cui aspira l’uomo-cifra è quella del consumo, immediato, costante, illimitato.  L’economia dell’esperienza sostituisce l’economia delle cose. Perciò accettiamo e più ancora accetteremo una vita fatta di puntini, di scoppi di adrenalina, ossia di esperienze, desideri, stimoli sempre nuovi. Un moto perpetuo che finirà per estenuare. Jeremy Rifkin fu il primo a cogliere un salto cruciale: viviamo l’era dell’accesso, il concetto chiave della contemporaneità. Lorsignori ci obbligano alla connessione continua, all’ibridazione con gli apparati, a inseguire ogni mutamento, da abbandonare una volta “esperito”. Il cyberuomo non darà importanza al possesso e alla proprietà: il mondo fondato sull’accesso genera un’umanità del tutto diversa.

La lezione di Rifkin è stata recepita ai livelli più alti, che lavorano attivamente per espropriarci di tutto, a partire dalla nostra mente, per tenerci in pugno attraverso le “non cose”.  Identità significa innanzitutto duratura relazione con persone, cose, luoghi; il possesso è per natura stabile, si fonda sulla persistenza. Nulla di più estraneo alla dromocrazia (dominio della velocità), al “tempo reale”. La nuova identità è fluida, mutevole, a partire dagli istinti sessuali e dalla percezione di sé. Fatica a immaginare qualsiasi cosa sia “per sempre”.

Ancor meno riconosce l’idea di trasmissione, il lascito che riceviamo e consegniamo alle generazioni successive. Tutti concetti legati alla stabilità, alla categoria di creatura stanziale che l’homo sapiens ha cucito su se stesso. L’uomo digitale non vuole storia e fa a meno della memoria. Vacilla l’idea di cultura, che è accumulo, deposito nel tempo e nello spazio di conoscenze e costumi che oltrepassano gli individui. La cultura trae origine nella comunità. Mercificata, commercializzata, munita del cartellino del prezzo, perde valore e distrugge la comunità, sostituita dalla community.

Tutto ciò inquieta, come la scarsa percezione delle modifiche antropologiche in atto, in attesa del salto ontologico, il passaggio al transumano. La finestra di Overton si spalanca nella direzione dell’uomo- il faustiano Homunculus forgiato dalle officine globaliste- che non ha nulla, dopo aver accettato con apparente indifferenza di non essere nulla. Sarà felice per un po’, di una soddisfazione animale e provvisoria, bisognosa di continue scosse.  Poi scoppierà e rivorrà la scintilla divina che si è lasciato estirpare collaborando all’esproprio.

Tornare umani, tornare al reale, rigettare il virtuale, l’illusione fabbricata, la vita a noleggio, il nomadismo interiore e materiale, passerà, temiamo, per esperienze terribili. L’uomo ritroverà la sete di infinito, riprenderà a guardare in alto, a voler essere e voler avere. Ulisse tornerà a Itaca, ma troverà qualcuno ad aspettarlo?