L’ILLUSIONE  DELL’ECONOMIA  QUALITATIVA

 

(Andrea Cavalleri)

 

Parto da una citazione:

[L’economia del benessere]…è stata messa in uno spazio arbitrariamente ristretto, separato dal resto dell’economia. Il contatto col mondo esterno avviene prevalentemente sotto forma di rapporto unidirezionale per il quale le scoperte dell’economia predittiva possono influenzare l’analisi dell’economia del benessere, ma le idee dell’economia del benessere non possono influenzare l’economia predittiva, poiché si ritiene che l’azione umana effettiva sia basata solo sull’interesse personale, senza che rilevino in alcun modo le considerazioni di natura etica o i giudizi circa il benessere economico complessivo.

 

L’autore di queste righe è Amartya Sen, professore di filosofia e di economia ad Harvard e premio Nobel per l’economia 1998, uno che conosce l’ambiente accademico e sa di cosa parla.

Perciò vale la pena analizzarle e sviscerarne tutto il significato.

 

La premessa è una scissione, quasi schizofrenica, tra l’economia del benessere e l’economia predittiva. Come descrivere questi due approcci alla materia?

 

Economia del benessere è senza dubbio uno studio che voglia rispondere alla domanda “cosa fare” per raggiungere uno stato di benessere.

I problemi con cui si misura sono: una definizione del benessere, chi debbano esserne i beneficiari, e in quali termini distribuirlo senza ledere la libertà e i diritti delle persone.

Non so quale dei lettori abbia mai udito, letto, o sentito parlare di una discussione su questi temi, eccezion fatta per la predicazione dogmatica marxista, che di certo non si può definire discussione.

L’impressione è che da un secolo circa non se ne parli più, come se il problema fosse concluso, se non bene, almeno nel meno peggiore dei modi.

 

Economia predittiva è il nome perfettamente appropriato che Sen attribuisce all’ambizione dello studio scientifico dell’economia: “Noi indaghiamo sulle leggi generali della materia e scopriamo funzioni e correlazioni”, dicono gli economisti moderni, “poi i politici e gli operatori del mercato useranno come meglio credono le nostre scoperte”.

Per le teorie fisiche la capacità di predire gli eventi futuri a partire da certe condizioni iniziali è una prova della verità delle leggi scoperte e, allo stesso modo, gli economisti speculativi fanno della pura conoscenza il loro fine, aspirando a formulare teorie e leggi dotate di capacità di previsione.

 

Spero che non sfuggano le gravi incongruenze di questo approccio e il rovesciamento di valori e finalità che viene operato da questa scissione unidirezionale.

Sarebbe molto facile fare della pesante ironia sui “grandi successi” previsionali degli economisti, per dire che, se quella è l’ambizione, il 90% degli economisti rappresenta braccia rubate all’agricoltura.

Ma non è questo il punto, perché occorre prima valutare se la stessa intenzione sia ragionevole o meno.

 

La prima domanda che si deve porre è: “Ha senso un’economia che non si occupi del benessere?”

Ogni disciplina si misura con delle categorie che ne orientano le finalità e ne definiscono il campo di indagine: la filosofia si occuperà di vero e falso, l’etica di giusto e ingiusto, l’arte di bello e brutto, la politica di amico e nemico… e di cosa dovrebbe occuparsi l’economia se non di benessere e povertà?

 

Una seconda falla di questo approccio si intravede nel finale del periodo di Amartya Sen: la materia inanimata si muove e reagisce in modo perfettamente deterministico, secondo processi ineluttabili derivati meccanicamente dalla propria natura; le persone umane, al contrario, sono dotate di libera volontà; come formulare dunque delle leggi universali che descrivano il comportamento umano?

L’assunzione semplificatoria degli economisti è stata quella che l’azione umana effettiva sia basata solo sull’interesse personale, una scelta che sembra fatta più per giustificare la stesura di formule matematiche, che non per rispecchiare la realtà.

E che si tratti di una riduzione semplicistica lo si evince da un semplice giretto nel corridoio di un’università: accanto all’aula di macroeconomia, dove agli studenti si spiega che l’uomo è una specie di calcolatore automatico della convenienza monetaria, sta l’aula di marketing, dove si illustra tutta la potenza della concorrenza non basata sul prezzo.

 

Sempre di semplificazione (o forse meglio chiamarla faciloneria) si tratta, quando gli economisti aggiungono che l’interesse personale viene perseguito senza che rilevino in alcun modo le considerazioni di natura etica: perché sia l’esperienza storico-imprenditoriale sia esperimenti condotti ad hoc hanno dimostrato che un gruppo di lavoratori convinto di essere trattato in modo equo (indipendentemente dal fatto che la cosa sia vera) ha un rendimento molto maggiore di un gruppo di lavoratori demotivato dalla convinzione di essere trattato ingiustamente.

 

E di trascuratezza si deve parlare, quando si afferma che l’interesse personale è un criterio unico che rende insignificanti i giudizi circa il benessere economico complessivo.

Un ragionamento politicamente scorretto, ma lucidissimo, che contraddice questa affermazione, lo fa l’ignoto autore degli antiquati “Protocolli dei Savi di Sion”. Costui, chiunque fosse, non dovrebbe essere stato un insigne economista, eppure, in base al puro buon senso affermava: il metodo più adatto di soddisfare le spese governative sarà la tassazione progressiva della proprietàI ricchi dovranno comprendere che hanno il dovere di dare una parte della loro soverchia ricchezza al governo, perché questo garantisce loro il possesso sicuro del rimanente… Insomma i giudizi sul benessere economico complessivo contano, perché è da essi che dipende se il cittadino (quanto si voglia ricco) debba vivere in una sorta di “1997 fuga da New York”, oppure in un ambiente umano accogliente e piacevole.

 

Fin qui ho messo in evidenza come le fondamenta dell’economia predittiva siano fragili e pericolanti, ma vi è un terzo punto che ne mette in discussione l’impianto generale.

 

Si dice che l’economia del libero mercato promuova la massima efficienza nell’incontro tra la domanda e l’offerta; il giudizio sui risultati viene affidato al criterio di ottimalità paretiana, che afferma che uno stato sociale è (paretianamente) “ottimo” quando non ne esiste un altro che sarebbe accettato all’unanimità.

 

In pratica la teoria propone un metodo (che consiste nel lasciar fare la gente alla ricerca della propria convenienza) e una valutazione dell’efficacia del metodo secondo quanto la gente stessa “esprime”.

Il problema è che il criterio di Pareto, riguardo al benessere (e anche come test di opinione pubblica in generale), è un indicatore meschino che dice poco-nulla: Uno stato può essere ottimo in senso paretiano con alcune persone in estrema miseria e altri che nuotano nel lusso, fintantoché i poveri non possono essere stati fatti star meglio senza diminuire il lusso dei ricchi. (ancora Amartya Sen)

Ed è evidentemente così, perché basta che un solo ricco si opponga a dare del suo per i poveri, che non si realizzerà l’unanimità richiesta per passare al nuovo stato sociale.

 

Quindi, visto che il criterio soggettivo abitualmente utilizzato non è in grado di dare risposte sensate, occorre un’analisi oggettiva, per valutare se e quanto abbiano senso le leggi dell’economia predittiva.

Tali leggi si piccano di essere di natura qualitativa, cioè riferite a qualunque tipo di merce e per qualunque quantità e scambiate da qualunque gruppo di persone.

E qui veniamo all’efficienza e all’equilibrio del mercato.

 

Cominciamo con le tipologie di merce.

Gli imprenditori producono in base agli ordini (l’offerta risponde alla domanda); naturalmente sono più numerosi quelli che tentano di vendere i prodotti a maggior valore aggiunto (quelli su cui si guadagna di più); in tal caso la concorrenza tende ad abbassare i prezzi scoraggiando la pletoricità del settore.

Viceversa la rinuncia imprenditoriale ai settori meno lucrosi lascerà i superstiti in una condizione di semi-monopolio e quindi nella possibilità di alzare i prezzi.

 

Questo se le cose vanno bene.

Purtroppo basta poco affinché i movimenti di mercato siano più duri e procedano per stati di choc: fallimenti per gli eccessi di imprenditoria e penuria di merci per i settori trascurati.

Un prezzo per l’auto equilibrio non indifferente.

 

Ma esiste un macrofenomeno a livello mondiale che ha separato in due categorie fondamentali le tipologie merceologiche, con implicazioni gravi.

Si potrebbe pensare che le merci più prodotte e corteggiate dagli imprenditori siano quelle atte a soddisfare i bisogni primari: alimentari, abitativi, trasporti, abbigliamento, istruzione e salute.

Il ragionamento è: dato che nessuno può fare a meno di queste cose, i clienti non mancheranno mai.

 

Invece la merce più corteggiata è un’altra: il denaro.

Quali caratteristiche ha questa merce per essere reputata il fulcro di tutto il sistema economico?

In sé il denaro non soddisfa nessun bisogno, ma è mezzo di scambio grazie a cui è possibile procurarsi qualunque merce.

È grazie al denaro se esiste un sistema di divisione del lavoro che assicura la prosperità.

E, in un certo senso, il fine di ogni azione microeconomica è proprio quello di procurarsi del denaro (produco merci per venderle in cambio di soldi, svolgo servizi per essere pagato etc).

 

Non che il denaro in sé produca merci o servizi (Pinocchio provò a piantare i tre zecchini d’oro, ma l’esperimento ebbe esito negativo e non crebbe alcun albero), ma, e questo è il punto, l’assenza di denaro può paralizzare la produzione e fornitura di merci e servizi.

Quindi la moneta, che senza il lavoro non produce assolutamente nulla, ha però l’immenso potere (ricattatorio) di impedire il lavoro quando scompare dal mercato.

Questo potere ha talmente soggiogato le menti degli uomini, che essi credono non di aver bisogno di beni e servizi, ma di aver bisogno di denaro.

 

In preda a queste suggestioni, si è costituito un circuito alternativo al vecchio modello: se una volta l’economia utilizzava la successione “denaro – produzione di merci – vendita per denaro” adesso la maggior parte dei movimenti di mercato si è spostata sull’asse “denaro – promessa di denaro – denaro”.

E che merce è mai la “promessa di denaro”?

Sostanzialmente un’illusione, che si esplica nel gioco d’azzardo, perché i cosiddetti servizi finanziari, consistono essenzialmente nel vendere l’illusione di arricchirsi.

Gioco d’azzardo che può essere minuto, quindi scommesse sportive, videopoker, roulette e simili, o può essere grosso, cioè azioni, quote di fondi, derivati e titoli speculativi vari.

Tra l’altro la promessa di denaro, prescindendo dal modo in cui il denaro si ottenga, penalizza l’investimento strategico, emarginato dal gioco d’azzardo, che è modo più rapido e remunerativo per ottenere tanti soldi, (soprattutto nel gioco d’azzardo grosso, dove il banco è truccato).

 

La dialettica tra domanda e offerta (cioè tra soldi e merci) riguarda il trasferimento di proprietà, con una commutazione continua di proprietà virtuali (soldi) in proprietà reali (merci) e viceversa.

Ma l’incremento di proprietà a cui aspirano i singoli non coincide con un aumento della ricchezza totale, anzi un singolo può arricchire anche con un calo della ricchezza totale, perché la proprietà virtuale esprime solo la percentuale di possesso sul monte-ricchezza totale e non dice nulla sull’entità di questo stock (la somma di tutti i beni e servizi).

In altre parole i soldi nel circuito reale, cioè spesi, possono fungere da stimolo alla creazione di nuove merci accrescendo il loro totale, mentre i soldi in stato virtuale (accumulati o congelati nel circuito finanziario) rappresentano solo la proprietà di una fetta virtuale della torta esistente.

 

Allora non può sfuggire che col nuovo ciclo finanziarizzato, limitato alle proprietà virtuali, comincia a porsi il problema di chi debba occuparsi della produzione di merci reali.

Finora vale il principio che “tanto qualcuno le fa”, ma poiché la produzione è remunerata il meno possibile, con la scusa che “altrimenti c’è l’inflazione e siamo tutti morti”, quel qualcuno che fa le merci deve essere in qualche modo costretto a praticare i lavori meno ambiti.

Quindi la diffusione della disoccupazione e della povertà sono essenziali per garantire ai possidenti finanziari che ci sia qualcosa da comprare col loro denaro.

 

Procedendo col sistema ricattatorio e sperequativo dell’economia finanziarizzata, il serio rischio è quello di demotivare i lavoratori al punto da causare penuria di beni.

Penuria di beni che scatenerebbe un’asta per assicurarsene la disponibilità, stimolando al contempo tutta la forza prociclica del mercato.

Inutile dire che allora si vedrebbe davvero l’inflazione, non quella modesta e graduale paventata dai capitalisti per avidità e pigrizia, ma quella improvvisa e distruttiva che polverizzerebbe il castello di carte dei titoli finanziari, e ridurrebbe a poca cosa persino il contante.

 

Con questi ragionamenti credo di aver mostrato che non tutte le tipologie di merci sono indifferenti ai fini del benessere, anche se lo sono ai fini del funzionamento del mercato.

 

Ma veniamo al secondo punto, la quantità di merci, il grande assente dell’economia predittiva.

In termini operativi è assai diverso produrre in piccole o grosse quantità.

Per le piccole quantità non servono neppure impianti potenti, che sono inutilmente complessi da usare e che sprecano troppo materiale per gli avviamenti.

Al contrario le grosse produzioni una volta impostate sono più facili da gestire e costano meno, ma necessitano un grosso investimento iniziale e una robusta capacità previsionale (per non rischiare di lasciarle inutilizzate).

Quindi all’atto pratico la quantità non è proprio indifferente.

 

Ma, parlando in termini più generali, il termine “quantità”, il poco o il molto, è un termine relativo, che si riferisce a un certo scopo.

Cento chili di ferro sono tantissimi se devo costruire una forchetta e pochissimi se devo costruire una nave.

E a cosa si riferiscono le quantità di mercato?

Il mercato parla di equilibrio tra domanda e offerta, cioè tra soldi che si spendono e merci che vengono fornite.

Ma questo è un equilibrio scontato, praticamente tautologico.

 

Che su una popolazione di cento milioni i soldi li abbiano tutti e tutti mangino, o che li abbia un solo milione di persone e novantanove muoiano di fame, non cambia assolutamente nulla nell’equilibrio tra la domanda e l’offerta, che verrà comunque raggiunto.

In realtà l’economia qualitativa rifugge dal parlare della quantità, non perché sia un problema parlare della quantità in sé, ma perché dovrebbe riferire questa quantità a uno scopo: la soddisfazione dei bisogni di… alcuni fortunati? la maggioranza? tutte le persone?

La realtà è che il parametro della quantità è stato espulso dall’economia, proprio per evitare di affrontare tali spinose questioni.

 

Alla fine quella che viene censurata è la quantità di persone che beneficiano del mercato, che è il vero metro del benessere, perché la vita delle persone è l’unico valore non relativo presente su questa terra.

E poiché l’economia predittiva non si preoccupa che tutte le persone abbiano il necessario, neppure prevede teoricamente l’incentivo a produrre i beni necessari per tutti.

 

Simultaneamente viene accantonato ogni discorso sulla distribuzione del reddito (che è il fattore determinante per sostenere la domanda aggregata), salvo questionare e cavillare sui meriti dei redditi più alti che non devono essere penalizzati (!) da redistribuzioni assistenzialistiche.

Insomma prima si costringe una massa di persone nella disoccupazione forzata e poi, in nome della morale, si vieta di aiutarli, con lo scopo sotteso, ma a volte persino dichiarato, di indurli ad accettare lavori super-sottopagati.

Che questo possa essere un desiderio dei parassiti capitalisti è comprensibile, ma che debba essere una necessità tecnica dell’economia è una risibile sciocchezza.

 

Infine le leggi economiche neppure si adattano a qualunque gruppo di persone.

Perché quando le persone litigano ecco che sorgono dazi, embarghi, sanzioni e  ritorsioni che alterano la situazione e rendono impossibili le previsioni.

 

Quindi, per una ragione o per l’altra, l’economia predittiva enuncia leggi che non hanno lo stesso significato per tutti e in qualunque situazione, e quindi possono avere qualche significato in riferimento alle medie statistiche, ma non alle persone concrete.

Se l’atteggiamento degli economisti predittivi è quello di dire: “Noi indaghiamo sulle leggi generali della materia e scopriamo funzioni e correlazioni, poi i politici e gli operatori del mercato useranno come meglio credono le nostre scoperte”, allora il loro intento è fallimentare, perché le loro leggi sono sostanzialmente inutilizzabili per ciò che conta davvero, cioè per la vita delle persone.

 

Come si può applicare al benessere un’economia che non sa prevedere (né incentivare) la produzione della giusta quantità di merci che servono per soddisfare i bisogni primari della popolazione?

Che fallisce nel prevedere (e incentivare) la distribuzione dei beni indispensabili?

Che non è in grado di prevedere (né predisporre e neppure incentivare) gli investimenti strategici?

Che non sa prevedere (e incentivare) la crescita della ricchezza reale totale.

Che registra l’equilibrio tautologico del mercato indipendentemente dal fatto che esista un benessere diffuso oppure che regni la miseria nera nella maggioranza della popolazione?

 

Un obiettivo finale sensato sarebbe dunque quello di rovesciare a centoottanta gradi l’atteggiamento degli economisti illustrato da Amartya Sen e concludere che l’economia del benessere è l’unico fine a cui devono essere orientati tutti gli studi, e che le nozioni che provengono da questo settore possono e debbono influenzare lo studio astratto, senza che possa accadere viceversa.

Il benessere reale rappresenterebbe così il vincolo non oltrepassabile dell’azione economica, allo stesso modo in cui la vita del paziente rappresenta il limite dell’azione medica (la cura che uccide il malato non serve a niente).

 

La finalità reale dello studio economico è l’unica via d’uscita a una disciplina malata di autoreferenzialità, l’economia qualitativa, che nel moderno mercato finanziarizzato votato al gioco d’azzardo che vende illusioni, è diventata quell’illusione che studia le illusioni.