IL LICEO VIRGILIO DI ROMA E L’EREDITA’ DEL SESSANTOTTO. UNA ANNOTAZIONE A MARGINE – di Luigi Copertino

IL LICEO VIRGILIO DI ROMA E L’EREDITA’ DEL SESSANTOTTO. UNA ANNOTAZIONE A MARGINE

Maurizio Blondet, in uno dei suoi sempre pungenti articoli, ha affermato che gli studenti “okkupatori” del liceo Virgilio di Roma sono “figli di papà” (1).

Sara Fabbri, studentessa del Virgilio, sentendosi chiamata in causa, lo ha contestato facendo presente che di ricchi in quella scuola non ce ne sono poi così tanti (2).

Hanno ragione entrambi.

Ha ragione Maurizio Blondet quando dice che gli studenti del Virgilio provengono da uno status sociale borghese (3).

Ha ragione Sara Fabbri quando dice che le famiglie di quegli studenti non se la passano poi così bene.

Il fatto è che si tratta di giovani appartenenti al ceto medio in via di progressiva pauperizzazione. Gli studenti del Virgilio, in altri termini, sono figli di un benessere familiare che, per i più, è ormai alle spalle. Un benessere formatosi a partire dagli anni ’50 grazie al tanto vituperato “statalismo”, le cui radici in Italia affondano negli anni ’30 del XX secolo, e prossimo a scomparire, o per taluni già scomparso, grazie alla rivoluzione neo-liberista iniziata negli anni ’80 da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher nel Regno Unito e che ha poi travolto tutto l’Occidente.

Il problema sta piuttosto nella mentalità di questo ceto medio che, per ovvia eredità storica e genitoriale, è quella ex sessantottina. Con tutti i suoi vizi e le sue virtù.

Augusto Del Noce e Pier Paolo Pasolini, pur così diversi, giudicarono, a suo tempo, il ‘68 come una rivoluzione intra-borghese, ossia la rivolta dei figli del ceto medio contro i loro padri.

Qualcuno, nella discussione nata a seguito dell’articolo di Blondet, lo ha già fatto notare: il ’68 prese le mosse da esigenze sociali autentiche. L’Italia dell’epoca era ancora, per troppi versi, una Italia socialmente ingiusta, nella quale l’accesso agli studi era possibile solo per chi apparteneva ai ceti abbienti, mentre i figli del popolo erano destinati al lavoro nei campi e nelle officine, come all’epoca denunciava don Milani, il priore di Barbiana (4). Sotto questo profilo i contestatori, avevano ampie ragioni.

Sarebbe anche il caso di rammentare che i contestatori sessantottini non erano solo comunisti ma anche “fascisti”. A Valle Giulia, nel 1968, l’università di Lettere fu occupata dagli studenti di sinistra, che leggevano, nelle assemblee durante l’occupazione, brani di Ernesto Che Guevara, Mao Zedong e Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin, ma l’università di Giurisprudenza fu occupata  dagli studenti neo-fascisti, che leggevano brani di Julius Evola, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, José Antonio Primo de Rivera e Corneliu Zelea Codreanu. La vera storia dei fatti di Valle Giulia e della fase inziale del ’68 italiano non è quella edulcorata da Mario Capanna.

Poi, timorosi che sfuggisse loro di mano il controllo della gioventù, intervennero da un lato il Pci, con il richiamo alla lotta antifascista, e dall’altro il Msi, con Giorgio Almirante e le sue squadracce a picchiare gli occupanti compresi i “camerati”. Si aprì, in tal modo, la triste e sanguinaria stagione degli anni di piombo. Pci e Msi riuscirono a dividere e contrapporre una generazione in una strisciante e sanguinosa guerra civile durata vent’anni. A tutto vantaggio del condominio mondiale Usa-Urss, del tempo.

Prevalse, in quegli anni, nell’immaginario giovanile il sinistrismo anarcoide. Accadde pertanto che agli autentici motivi di giustizia sociale, dai quali mosse il ’68, venne sovrapposto tutto il liquame dell’ideologia liberal-anarco-progressista, la quale era portatrice di istanze esattamente contrarie a quelle popolari, a quelle degli operai e dei contadini ancora profondamente impregnati della cultura solidarista che discendeva da due millenni di Cristianità. Istanze di modernizzazione antropologica che miravano a consolidare il potere del capitale, non a contenerlo o a limitarlo. La “rivoluzione” si fece portavoce delle giuste rivendicazioni sociali dei ceti popolari in modo strumentale giacché il suo vero fine era quello di modernizzare l’Italia cattolica, ed antica, non tanto nel sociale e nell’apparato produttivo quanto piuttosto nei costumi e nell’etica. L’obiettivo, cavalcando la protesta sociale, fu quello di secolarizzare l’Italia. Quell’Italia arcaica che invece, per l’irritazione del Pci il quale finì per ostracizzarlo, Pasolini difendeva lamentando, con senso ecologista ante litteram, l’incipiente scomparsa delle lucciole nelle notti estive italiane.

La “rivoluzione”, mentre usava strumentalmente le lotte sociali popolari, propagandava ed inoculava nel tessuto sociale delle comunità nazionali occidentali, insieme alla psicosociologia marxfreudiana d’accatto ed al francofortismo marcusiano (che aveva fatto proprio ma in chiave progressista il reazionarismo modernista di Ernst Jünger, Carl Schmitt e Martin Heidegger), il divorzio, l’aborto, l’individualismo nichilista, il permissivismo morale, la negazione stessa, oltre che di ogni forma di autorità, dei legami sociali necessari a qualsiasi convivenza comunitaria e civile. Si giunse così al mondo liquido, precario, egoistico di oggi e dalla dissoluzione del matrimonio si passò, secondo una logica ferrea ma conseguente, alla dissoluzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Avevano ben visto sia Del Noce che Pasolini: il ’68 è stato funzionale al Potere Economico Mondiale e lo ha ben servito distruggendo gli ultimi residui, all’epoca ancora sussistenti, di Tradizione.

Il Potere Globale delle Multinazionali e della Finanza Apolide non poteva, infatti, affermarsi se non fosse stata messa in discussione la fede in Dio e non fossero stati abbattuti la comunità nazionale, la famiglia, il lavoro garantito. E per raggiungere il suo scopo, il Potere non ha esitato a far aggio su effettive questioni di giustizia sociale, in quegli anni senza dubbio esistenti, inalberando la bandiera della liberazione delle masse ma solo per portarle prima a pascolare nel Supermarket globalizzato e poi – quando il Potere scoprì che si poteva fare denaro dal denaro speculando in borsa e senza investimenti produttivi – a vivacchiare di mezzi lavoretti nella precarietà e nel solipsismo sia sociale sia esistenziale.

Luigi Copertino

 

NOTE

1) Cfr. Maurizio Blondet “Scoperta: c’è la Mafia anche al liceo Virgilio di Roma. Peggio di quella degli Spada”, 21.11.2017, su questo stesso sito Blondet&Friends.

2) Si vedano i post della Sara Fabbri in calce all’articolo citato di Blondet nonché la accesa discussione che ne è nata.

3) Anche se, errando, Blondet circoscrive la provenienza degli studenti del Virgilio alla sola “borghesia di Stato”. In realtà si tratta anche di figli di partite Iva, di liberi professionisti e di imprenditori. E’ notoria l’avversione, a torto o a ragione, di Blondet verso il pubblico impiego.

4) Qui ci interessa, sotto un profilo squisitamente storico, soltanto la sua denuncia, che era giusta, e pertanto vogliamo astrarre, nello specifico di questo nostro contributo, dal fatto che il denunciante rischiava di essere facile preda di fregole millenariste e, come tale, destinato a patente delusione, se solo fosse vissuto abbastanza per vedere l’esito della contestazione, anche ecclesiale, che imperversava ai suoi tempi. Don Milani avrebbe dovuto tener in maggior conto l’eterogenesi dei fini sempre presente ed operante nelle vicende di una umanità ontologicamente segnata da insufficienza ed imperfezione che solo l’infinita Misericordia di Dio può colmare e non l’uomo da sé stesso. Eppure in seminario avrebbe dovuto impararlo.