L’EPOCA DEL «SIGNORINO SODDISFATTO»

Invasione verticale dei barbari

D’Amico:

La vera spiegazione della crisi della famiglia e del matrimonio, della crisi della Chiesa e della vita religiosa, della mancanza, infine, di vocazioni.

Vitis Vera – mar 09, 2025

Il testo che presentiamo è tratto dall’XI capitolo di una delle opere più grandi del Novecento, La ribellione delle masse del filosofo spagnolo Ortega y Gasset. Si tratta di un volume la cui prima edizione fu pubblicata nel 1930 e che unisce una profondità interpretativa unica, a una chiarezza e semplicità stilistiche che hanno pochi eguali. In altre parole siamo di fronte a ciò che può essere definito un “classico”, un’opera cioè non genericamente appartenente al passato, ma perenne, sempre attuale, in grado di ammaestrare ogni uomo in ogni epoca.

Qui Ortega intuisce una fatale mutazione antropologica che la modernità ha prodotto con la sua sovrabbondanza di mezzi e di beni: la persona cresce dalla prima infanzia in un mondo incantato e fittizio che gli mette a disposizione tutto, senza richiedere da lui alcun sacrificio; la vita, che nella storia, per millenni, è stata sempre un cimento arduo e spietato contro le più dure necessità, le più avverse condizioni pratiche, è diventata un’apertura illimitata a sempre nuove possibilità, che, una volta vissute, risorgono con volto ancora più seducente, sussurrando la promessa di una felicità più grande e irresistibile.

Il soggetto è così strappato incessantemente da se stesso, da ciò che effettivamente è, dalla sua luminosa finitudine, dai suoi doveri, dal suo presente, dalla realtà, ed è oniricamente proiettato sullo sfondo di un futuro vago ed incerto: la vera vita è sempre altrove, nel possibile verso il quale posso slanciarmi sempre di nuovo, non sentendomi mai impegnato in nulla di irrevocabile, potendo abbandonare liberamente ogni condizione esistenziale data. Nella modernità, regno di possibilità infinite, nessuno ha, né vuole avere, un destino suo proprio.

Le possibilità, crescendo e moltiplicandosi, svuotano la vita di ogni peso e autenticità e la fanno lentamente sprofondare nell’abisso dell’insignificanza, prima ancora che nel peccato. Per parafrasare La malattia mortale di Kierkagaard, il soggetto dispera per eccesso di possibilità; si perde nel possibile, perché gli manca l’elemento della necessità; dal punto di vista psichiatrico precipita nello stato che Biswanger chiamava di esaltazione fissata: uno slancio incessante e maniacale nell’universo onirico del possibile che non si traduce mai in nulla di concreto, che ha basi fragilissime nella realtà.

Nel linguaggio di Ortega y Gasset quest’uomo non può che vivere una “vita volgare”, che è la vita di chi percepisce di avere solo diritti e si accetta per come è, in un tronfio compiacimento di sé, non accettando di sottomettersi ad alcuna norma o ideale superiore, divenendo quindi incapace di ogni sacrificio. La “vita nobile” è esattamente l’opposto: è la vita di chi sente di avere solo doveri e non sa vivere se non alla luce di principi e valori superiori, che trascendono la sua persona, e per i quali anela al sacrificio di sé.

L’età della tecnica, la modernità giunta al suo stadio terminale di dissoluzione, ha come essenza di impedire ogni nobiltà, anzi di deridere anche solo l’idea che si possa vivere per una causa che trascenda la propria vita. Il sacrificio di sé, reso impensabile, da sigillo della santità e della nobiltà, diviene segno di una vita inautentica, di un’esistenza insensata e abitata dalla follia, degna di essere compianta, non imitata.

Ecco come Ortega descrive questo nuovo uomo deforme e vuoto, che lui chiama il “signorino soddisfatto”:

«Il nuovo fenomeno sociale che qui si analizza è questo: la storia europea sembra per la prima volta affidata alle decisioni dell’uomo volgare in quanto tale. Il che equivale, detto in forma attiva: l’uomo volgare, che in passato si faceva dirigere, ora ha deciso di governare il mondo. Questa decisione di avanzare al primo piano sociale si è prodotta in lui automaticamente, non appena giunse a maturazione il nuovo tipo di uomo che esso rappresenta. Se, analizzando gli effetti della vita pubblica, si studia la struttura psicologica di questo nuovo tipo di uomo-massa, si giunge a queste constatazioni: 1) un’impressione originaria e fondamentale che la vita è facile, sovrabbondante, senza tragiche limitazioni; per cui ogni individuo medio scopre in se stesso una sensazione di dominio e di trionfo che 2) lo induce ad affermarsi così com’è, a riconoscere come buono e completo il suo patrimonio morale e intellettuale. Questo appagamento di sé lo porta a chiudersi a ogni istanza esterna, a non ascoltare, a non porre sulla bilancia del giudizio le proprie opinioni, a non tener in nessun conto gli altri. La sua sensazione intima di dominio lo stimola incessantemente a esercitare un’azione di predominio. Agirà dunque come se soltanto lui e i suoi consimili esistessero al mondo; e pertanto 3) interverrà ovunque, imponendo la sua volgare opinione, senza riguardi, senza complimenti, senza mediazioni, senza riserve, vale a dire secondo una modalità di «azione diretta».

Questo insieme di caratteristiche ci ha fatto pensare a certe forme imperfette dell’essere umano, come il «bimbo viziato» e il primitivo ribelle, ossia il barbaro. (Il normale primitivo, viceversa, è l’uomo più propenso che sia mai esistito ad accogliere le istanze superiori (religione, tabù, tradizione sociale, costumi) (…).

Un tale personaggio, che ormai s’incontra ovunque e ovunque impone la sua intima barbarie, è realmente il bambino viziato della storia umana, l’erede che si comporta esclusivamente come erede. Oggi l’eredità è la civiltà, le comodità, la sicurezza, insomma i vantaggi della civiltà. Come abbiamo visto, soltanto nell’agiatezza vitale che la civiltà ha donato al mondo può sorgere un uomo costituito da un tale insieme di caratteristiche, ispirato da un tale temperamento. È una delle tante deformazioni che il lusso produce nella materia umana. Saremmo tentati di credere illusoriamente che una vita nata in un mondo opulento sarebbe migliore, sarebbe più vita e di qualità superiore rispetto a quella che consiste nel lottare contro la penuria. Ma non è così. E per ragioni assolutamente rigorose e fondamentali che qui non è il caso di enunciare.

Basterà qui ricordare il fatto sempre ripetuto che costituisce la tragedia di tutta l’aristocrazia ereditaria. L’aristocratico eredita, ossia trova conferite alla sua persona, condizioni di vita che non ha creato, e che per questo non si producono organicamente unite alla sua esistenza personale e particolare. Si trova fin dalla nascita insediato, immediatamente e senza sapere come, nel mezzo della sua ricchezza e delle sue prerogative. Egli non ha, intrinsecamente, nulla a che vedere con esse, perché non derivano da lui. Sono la gigantesca coperta di un’altra persona, di un altro essere vivente, il suo antenato. E deve vivere come erede, ossia deve usare la coperta di una vita diversa dalla sua.

E allora? Che vita s’accinge a vivere l’«aristocratico» ereditario, la sua o quella del primo avo? Né l’una, né l’altra. È condannato a rappresentare l’altro, e dunque a non essere né l’altro, né se stesso. La sua vita perde, inesorabilmente, di autenticità, e si trasforma in pura rappresentazione o in finzione di un’altra vita. La sovrabbondanza di mezzi che è obbligato a maneggiare non gli permette di vivere il suo personale destino, atrofizza la sua esistenza. Ogni vita è lotta, è sforzo per essere sé stessa. Le difficoltà in cui m’imbatto per realizzare la mia vita sono precisamente quelle che suscitano, che mettono in movimento le mie attività, le mie capacità. Se il mio corpo non mi pesasse, io non potrei camminare. Se l’atmosfera non mi opprimesse, io sentirei il mio corpo come una cosa vaga, spugnosa, fantomatica.

Così l’«aristocratico» ereditario progressivamente perde tutta la sua personalità, per mancanza d’uso e di sforzo vitale. Il risultato è quella specifica insipienza delle vecchie nobiltà che non somiglia a nulla e che, a rigore, nessuno ha descritto ancora nel suo interno e tragico meccanismo – interno e tragico meccanismo che conduce ogni aristocrazia ereditaria alla sua irrimediabile degenerazione.

E questo sia detto soltanto per contrastare la nostra ingenua tendenza a credere che la sovrabbondanza dei mezzi favorisca la vita. È l’esatto contrario. Un mondo esuberante di possibilità produce, automaticamente, gravi deformazioni e tipi difettosi di esistenza umana – che si possono riunire nella classe generale di «uomo-erede», di cui l’aristocratico non è che un caso particolare, un altro è il bimbo viziato, e un altro ancora, molto più vasto e radicale, è l’uomo-massa del nostro tempo (…).

(Sarebbe istruttivo approfondire l’allusione all’aristocratico, mostrando come molti dei suoi tratti caratteristici, in tutti i popoli e in tutti i tempi, si manifestino, in maniera germinale, nell’uomo-massa. Ad esempio: la propensione a fare dei giochi e degli sport l’occupazione centrale della vita; la cura del proprio corpo -regime igienico e attenzione all’eleganza nel vestire; mancanza di romanticismo nelle relazioni con la donna; divertirsi con l’intellettuale, però, in fondo, disistimarlo e farlo sferzare dai lacchè e dagli sgherri; preferire una vita sottoposta a un’autorità assoluta anziché un regime di discussione, e altro ancora).

Insisto, quindi, con dichiarata monotonia, a far notare che quest’uomo pieno di tendenze incivili, che questo nuovissimo barbaro è un prodotto automatico della civiltà moderna, soprattutto nella forma che essa ha assunto nel secolo XIX. Non è giunto da fuori nel mondo civilizzato, come i «grandi barbari bianchi» del secolo V; e neppure è nato in esso per generazione spontanea e misteriosa come, secondo Aristotele, i girini nello stagno, ma è invece un frutto naturale. Bisogna formulare questa legge che la paleontologia e la biogeografia confermano: la vita umana è sorta ed è progredita solo quando i mezzi a sua disposizione erano proporzionati ai problemi che si poneva. Questa è la verità, sia nell’ordine spirituale che in quello fisico.

Così, per riferirmi a una dimensione molto concreta della vita fisica, ricorderò che la specie umana è germinata in zone del pianeta dove la stagione calda era compensata da una stagione di freddo intenso. Nei tropici l’animale-uomo degenera e, viceversa, le razze inferiori — ad esempio i pigmei — sono state spinte verso i tropici da razze nate dopo di esse e superiori nella scala dell’evoluzione. Ebbene: la civiltà del secolo XIX è tale da permettere all’uomo medio di stabilirsi in un mondo sovrabbondante, di cui percepisce soltanto l’esuberanza dei mezzi, ma non le limitazioni. Si trova a disposizione strumenti prodigiosi, medicinali benefici, Stati previdenti, diritti favorevoli. E al tempo stesso ignora quanto sia stato difficile inventare quelle medicine e quegli strumenti e assicurare per l’avvenire la loro produzione; non si rende conto di quanto sia instabile l’organizzazione dello Stato, ed è un miracolo se sente in sé qualche dovere. Questo squilibrio lo falsifica, lo vizia alla radice del suo essere, facendogli smarrire il contatto con la sostanza stessa della vita, che è un assoluto pericolo, una problematicità fondamentale. La forma più contraddittoria della vita nella sfera umana è quella del «signorino soddisfatto». Per questo, quando diventa una figura prevalente, è necessario lanciare l’allarme e proclamare che la vita umana è minacciata di degenerazione, ossia di relativa morte. Secondo ciò, il livello vitale dell’Europa odierna è superiore a tutti quelli del passato; ma se si guarda all’avvenire nasce il timore che non conserverà la sua altezza, né potrà produrre un nuovo livello ancora più elevato, ma, al contrario, che regredirà e ricadrà a un livello inferiore. Tutto ciò a mio avviso dimostra con sufficiente chiarezza l’eccezionale anomalia rappresentata dal «signorino soddisfatto», un uomo affiorato alla vita per fare tutto quel che più gli aggrada. È un’illusione tipica del «figlio di famiglia». E sappiamo perché: nel cerchio familiare, tutto, anche i peggiori delitti, possono rimanere, in definitiva, impuniti. L’ambito familiare è relativamente artificiale, e tollera al suo interno molti atti che nella società, in pubblico, provocherebbero automaticamente conseguenze disastrose e ineludibili per il loro autore. Però il «signorino» è quello che crede di potersi comportare ovunque come in casa propria, quello che crede che nulla sia fatale, irrimediabile, irrevocabile. Per questo ritiene di poter fare quello che più gli aggrada? Equivoco grande! Non dico che non si debba fare quel che a uno piace; ma dico che ciascuno deve fare quel che deve fare, quel che deve essere. Quello che accade è di non voler fare ciò che bisogna fare; ma questo non ci lascia liberi di fare un’altra cosa che sia gradita. Possediamo soltanto una libertà negativa di arbitrio: la non-volontà. Possiamo disertare il nostro più autentico destino, ma così cadiamo prigionieri nei piani inferiori del nostro destino».

(Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Edizioni SE, Milano, (1930) 2001, pp. 123-128)

Il quadro evocato da Gasset spiega in larga misura la crisi profonda in cui versa il mondo occidentale, e si tenga conto che lui scrive di ciò che ha potuto osservare nel corso degli anni Venti del Novecento, un secolo fa. Oggi tutte le sue osservazioni non solo si rivelano perfettamente corrette, ma il quadro si è aggravato in modo estremo. Alla figura del “signorino soddisfatto” possiamo ricondurre molte, se non tutte, le crisi che stanno scuotendo fin dalle fondamenta il nostro mondo. L’uomo viziato, drogato dalle infinite possibilità che la modernità gli offre in ogni campo spiega innanzitutto la crisi del matrimonio: perché infatti impegnarsi in un rapporto stabile e irrevocabile, promettendo una fedeltà assoluta al coniuge e rinunciando così alle infinite possibilità affettive e sentimentali che la vita potrebbe riservarmi? L’uomo moderno è ormai incapace di de-cidersi, di trasformare l’apparente contingenza di una scelta, in necessità, in destino; è, in un certo senso, incapace di fedeltà e il matrimonio, con le sue aspre esigenze, con l’ascesi che gli è inevitabilmente connessa, gli fa orrore.

Per lo stesso motivo l’uomo contemporaneo è nemico della natalità, è incapace di aprirsi alla vita con generosità, perché nulla come la nascita di un figlio incatena alla necessità, limita una libertà che si pensa come vera solo se sempre disimpegnata, leggera, in grado di abbandonare una situazione, per immergersi in un’altra più eccitante, o, semplicemente, nuova.

I figli “invecchiano”: la loro crescita scandisce inesorabilmente il tempo che passa; essi incatenano al presente e alla realtà come nessun’altra forza. Si può dire che l’avere dei figli rivela la serietà del vivere, il profondo dell’esistenza come nessun’altra esperienza: introducono inesorabilmente -molto più del semplice rapporto con il coniuge- nella dimensione del sacrificio e del dovere.

Infine l’uomo massa, l’uomo volgare, l’uomo soddisfatto di sé e assetato solo di sempre nuove possibilità, esperienze e piaceri, adolescente eterno che non conosce la tragicità del vivere, che non conosce il dramma sotteso a ogni vero decidere, è anche uomo intimamente irreligioso (al più pratica una religiosità superficiale e sentimentale, vuota e consolatoria). Nulla gli ripugna più dell’assolutezza con cui la fede cristiana intima di credere, con cui la morale limita l’effervescenza di una volontà mobile e spettrale, ma che si pensa come divina e onnipotente. Ancor più incomprensibile agli occhi dell’uomo volgare, dell’uomo massa è la vocazione religiosa. Il “signorino soddisfatto” appartiene al mondo e il mondo intero si illude che gli appartenga, almeno potenzialmente. Nulla è più opposto a questo sentire dell’entrare in religione, del farsi sacerdote: la castità, la povertà, l’obbedienza sono il rovesciamento della visione del mondo caratteristica del mondo moderno, soprattutto dopo la rivoluzione gnosticheggiante del Sessantotto. Nulla come la chiamata alla vita religiosa veicola l’idea della sottomissione alla più ferrea necessità, della rinuncia più profonda a un illimitato potere di disporre di sé, del proprio tempo, del proprio futuro.

Si comprende qui il lamento profetico di Carl Schmitt, il grande filosofo del diritto tedesco, quando con spavento immagina il giorno in cui la Chiesa cattolica avrebbe smesso di reclutare la maggior parte del suo clero fra i contadini europei (svolta che si è prodotta fra gli anni ’40 e ’60 del Novecento).

Il mondo contadino era già in se stesso una palestra di vita povera, umile, nascosta, segnata dalla fatica, dal sacrificio, dalla più stringente necessità; era un mondo dove l’infanzia era brevissima e quasi sconosciuta: il bambino era visto come un piccolo adulto che dai cinque o sei anni aiutava il padre nei lavori agricoli. La campagna era un mondo che educava quasi brutalmente al contatto con la realtà, anti-sentimentale, concreto, vero, sicura palestra dell’abitudine al dovere e al lavoro più duro e continuo. Il mondo rurale era in sé pervaso di una innata e quasi istintiva religiosità e da esso sorgevano numerose vocazioni al sacerdozio e, nel corso dei secoli, anche innumerevoli grandi santi: si pensi anche solo a san Vincenzo de’ Paoli, al santo Curato d’Ars, a san Pio X, tutti e tre provenienti dal mondo contadino.

Certo a Dio nulla è impossibile ed è evidente che grandi vocazioni e grandi santi possono sorgere anche a partire da famiglie borghesi e urbanizzate: ma quando ciò accade è quasi sempre perché hanno avuto la fortuna di crescere in famiglie che li hanno educati contro e oltre i valori della società massificata, evitando di farne dei “signorini soddisfatti”, ovvero di viziarli.

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9 Marzo 2025