La democrazia organica nel pensiero conservatore/rivoluzionario russo ed europeo

 

di Paolo Borgognone

 

Premessa. L’eurasiatismo come teoria filosofica e geopolitica conservatrice

Nell’epoca della mondializzazione e della disarticolazione su base individualistica e consumistica delle identità collettive, la democrazia organica è la più innovativa, interessante e radicalmente alternativa allo stato di cose presenti, forma di organizzazione del consenso e della società in quanto, come scrive Gennaro Sangiuliano citando, nel suo libro Putin. Vita di uno zar (Mondadori, Milano, 2015), il politologo tradizionalista russo Aleksandr Dugin, essa «deve essere intesa “come comunità metafisica e sovra-temporale di cui non fanno parte solo i viventi, gli antenati e i non ancora nati”». Sangiuliano afferma di seguito che «la contrapposizione fra democrazia rappresentativa e democrazia organica è un tema di vaste dimensioni». E’ il tema che tratteremo nel presente saggio. Innanzitutto, la contrapposizione tra democrazia rappresentativa, liberale, e democrazia organica, comunitaria, è il rovesciamento, nell’agone delle scienze politiche, dell’eterno confronto e conflitto tra il “Mare” e la “Terra”, tra il “femminile” e il “maschile”, tra la società “aperta” (individualista, cosmopolitica, tecno-mercantile e proiettata in una dimensione a-temporale di eterno presente) e quella tradizionale (collettivista, solidaristica, patriottica e dedita al culto del suolo, della Terra irrorata dal sangue sacro degli antenati e pertanto proiettata in una dimensione sovra-temporale di memoria storica come elemento imprescindibile nell’articolazione di un orizzonte destinalistico comunitario per il futuro), tra il “mondo dei Morti” (l’Oltreatlantide) e quello dei “Vivi” (l’Eurasia). Scendendo nel dettaglio del ragionamento più propriamente geopolitico, Sangiuliano aggiunge che «l’Eurasia è la potenza della terra, quella che secondo le categorie di Carl Schmitt si contrappone alla potenza del mare. L’autore del Tramonto dell’Occidente, Oswald Spengler, scrive che la Russia è un miscuglio di Kultur e Zivilisation, di Abendland e di Morgenland, di Occidente e Oriente, di Ponente e Levante». L’Eurasia, scrive Alain de Benoist in una importante pubblicazione realizzata a quattro mani con Aleksandr Dugin, «corrisponde a quella entità continentale che i geopolitici, da Mackinder a Spykman, hanno continuamente opposto alla potenza talassocratica o oceanica oggi rappresentata dall’“isola mondiale” degli Stati Uniti d’America. L’Eurasia è la “potenza della Terra” che da sempre è insorta contro la “potenza del Mare” (Carl Schmitt). I fautori dell’eurasiatismo respingono la visione (e l’eredità) “occidentalista” della Russia». L’eurasiatismo è dunque una filosofia che interpreta la geopolitica secondo un paradigma teorico-concettuale conservatore e rivoluzionario al contempo.

La democrazia organica di Aleksandr Dugin, filosofo neoeurasiatista

In Russia, il filosofo e politologo Aleksandr Gel’evic Dugin è il principale sostenitore della democrazia organica quale alternativa radicale alla postdemocrazia (società liberale tecno-mercantile) occidentale. Per comprendere a fondo le motivazioni alla radice della costituzione, in Russia, di un’opposizione radicale (articolatasi, a partire dal 1992-’94, attorno a movimenti quali il Partito Nazional-Bolscevico, il Fronte Nazional-Bolscevico e, successivamente, il Movimento Eurasia) alla società occidentale tecno-liberale e neoborghese, è necessario riportare alla mente le condizioni in cui il Paese versava all’indomani dello smantellamento dell’Unione Sovietica e al successivo processo di colonizzazione posto in essere, ai suoi danni, dall’Occidente e dai propri fiduciari, politici e imprenditoriali, in loco. Scrive infatti, nella prefazione al sopraccitato libro di Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica (Controcorrente, Napoli, 2014), l’editore e giornalista Pietro Golia:

Dall’implosione del 1991 dell’Unione Sovietica nasce la Federazione Russa […]. In quegli anni, l’America di Clinton era convinta di poter ridurre la Russia a terra di conquista del capitalismo d’avventura e finanziario. La finanza corsara di Wall Street fornì le risorse ad avventurieri e mafiosi, pronti ad impadronirsi di tutte le ricchezze del Paese. Avventurieri e criminali, con la presidenza Eltsin, si trasformarono in uomini d’affari, industriali, petrolieri. Li chiamarono oligarchi, mafiosi, dotati di milizie personali e di clientele politiche. Eltsin fu espressione di quel Paese e favorì con una presunta terapia choc una conversione incontrollata di tutto il sistema produttivo da statale in privato.

Erano, quelli, anche gli anni dell’americanizzazione culturale di buona parte dei ceti medi urbani postsovietici, attraverso l’arma politico-mediatica della Mc World Society d’importazione statunitense. Aleksandr Dugin non esita a definire «anni bui» quelli caratterizzati dalla demolizione dell’Unione Sovietica come Stato unitario ed entità di diritto internazionale riconosciuta. Dugin afferma infatti che alla distruzione dell’Urss non seguì la conversione del sovietismo in eurasiatismo bensì il trionfo dell’atlantismo e del liberalismo occidentale sulle macerie dello Stato ideocratico marxista-leninista. Dugin, nato a Mosca nel 1962, figlio di un generale dei servizi segreti militari sovietici (GRU) fu, dopo essere stato espulso dall’Accademia dell’aeronautica militare a causa dei rapporti che intratteneva con circoli politico-filosofici conservatori e tradizionalisti, un dissidente di destra (evoliano e guénoniano) impegnato nel tentativo di radunare attorno a una seria proposta politica eurasiatista e nazional-bolscevica, coloro i quali, in Unione Sovietica, si ponevano in antitesi, da una prospettiva “rivoluzionario-conservatrice”, ai processi di smantellamento in chiave cosmopolitica e atlantista dello Stato unitario. Dugin è inoltre un appartenente all’ala moderata e dialogante della minoranza cristiano-ortodossa detta dei “Vecchi Credenti”, ossia gli antichi cristiani ortodossi di rito russo, e tale militanza spirituale e di fede è paradigmatica della sua vocazione filosofica al tradizionalismo. Nel momento in cui parla di «reale polo conservatore», Dugin intende una coalizione capace di rappresentare al meglio la «struttura nazionale russa» (l’inconscio collettivo dei popoli d’Eurasia), culturalmente tradizionalista, politicamente nazional-patriottica ed economicamente socialista, ossia specularmente in opposizione all’antisocietà cosmopolitica, liberale e liberista dell’individuo astratto americanocentrico caratteristico dell’Occidente a regime crematistico-oligarchico sistemico.

Scrive infatti Dugin, relativamente alla propria esperienza politica di dissidente di destra negli anni Ottanta, nel libro Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica:

[…] quando il sistema sovietico è crollato, non era disponibile alcun pensiero nazionale chiaramente formulato. Il vuoto è dunque stato riempito dai «nuovi occidentalisti» che, adottando la democrazia liberale e i principi della società mercantile, hanno subito cominciato a copiare l’Occidente […]. Ma è anche negli anni Ottanta, all’inizio della perestrojka, che il nostro gruppo ha ripreso il compito avviato dai precursori dell’eurasiatismo, sforzandosi di dare di nuovo una forma alle intuizioni proprie della struttura russa per farne un’alternativa all’atlantismo e al liberalismo. Questa iniziativa ha trovato appoggi in certi ambienti militari, nei servizi segreti e persino nell’apparato del partito comunista  (dove esisteva allora un’«ala conservatrice» rappresentata da personaggi come Igor Ligacev), ma non si andava molto al di là di reazioni emozionali. La fine dell’Urss è intervenuta nel momento in cui l’evoluzione del sovietismo verso l’eurasiatismo era ancora nella sua fase preliminare. L’«ala occidentalista», legata al mondo occidentale, beneficiava al contrario dell’appoggio di innumerevoli fondazioni e organizzazioni non governative create dalla Cia o associate a organizzazioni americane o europee atlantiste.

Nel 1990 Aleksandr Dugin, traduttore in lingua russa delle opere di Julius Evola e Rene Guénon, si avvicinò al movimento nazional-patriottico Pamjat’ (Memoria) da cui però prese le distanze dopo aver constatato la deriva sciovinistica dell’organizzazione. Nel 1993, Dugin collaborò alla stesura del «nuovo programma del partito comunista russo (quello di Zjuganov) in uno spirito eurasiatista». Dugin e Zjuganov iniziarono a collaborare con il giornale Den’ (oggi denominato Zavtra) diretto da Aleksandr Prokhanov ed è lo stesso ideologo del neoeurasiatismo a delineare, in Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, i risultati scaturiti dal dialogo politico e filosofico che, all’inizio degli anni Novanta, intrattenne con il presidente del Partito comunista della Federazione russa:

[…] nelle nostre discussioni, pubblicate dal giornale Den’, Zjuganov sosteneva allora quasi senza riserve delle tesi conformi […] a quelle dell’eurasiatismo e della rivoluzione conservatrice. Poco dopo, il programma del partito comunista russo doveva formulare giudizi molto positivi sulla Chiesa cristiana ortodossa, sulla Tradizione, sulla geopolitica eurasiatista, ecc.

Il colpo di Stato attuato da Eltsin e dai Chicago Boys con il bombardamento del Soviet Supremo della Federazione russa il 4 ottobre 1993 mise in estrema difficoltà l’eterogeneo fronte nazionale patriottico e di salute pubblica che si opponeva alle “riforme” occidentalizzanti dei cosiddetti “democratici” eltsiniani. Dugin, nel summenzionato libro, ripercorre quella drammatica esperienza politica, giungendo ad affermare, in sintesi, che la creazione, nel 1994, insieme a Eduard Limonov, del Partito Nazional-Bolscevico, fu «un gesto di disperazione» dettato sostanzialmente dall’impossibilità di costruire, sulle macerie del Fronte di salvezza nazionale messo al bando da Eltsin l’anno precedente e dinnanzi all’adeguamento conformistico dei partiti di opposizione sistemica al regime (comunisti di Zjuganov e nazional-populisti di Zhirinovskij), una credibile e incisiva forza di opposizione capace di porsi in un’ottica radicalmente antagonistica rispetto ai “democratici” di Eltsin, Gajdar, Nemtsov, ecc. Scrive infatti Dugin:

Prokhanov, Zjuganov e altri ideologi «patriottici» erano molto attivi e sembravano pronti a organizzare un vero risveglio intellettuale e spirituale. Ma tutto si è bloccato dopo il bombardamento del parlamento da parte di Boris Eltsin e delle sue truppe. Le grandi manifestazioni di oppositori all’atlantismo e al liberalismo, che avevano raccolto più di mezzo milione di persone, si sono bruscamente arrestate. Ogni attività politica, culturale e ideologica nel campo eurasiatista si è ugualmente interrotta. Sì, furono davvero anni bui. La creazione con Limonov del Partito Nazional-Bolscevico è stato piuttosto un gesto di disperazione.

La fine dell’era Eltsin e la successiva ascesa politica di Vladimir Putin determinarono un cambio di paradigma interno all’opinione pubblica russa e agevolarono il ritorno di una sensibilità patriottica nazionale che sembrava essersi in qualche modo smarrita tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del XX secolo. In questo contesto storico e politico matura e prende corpo, nei circoli e movimenti eurasiatisti (dapprima il Fronte Nazionale Bolscevico, poi il Movimento Eurasia e finanche, per molti aspetti, a partire dal 2003, il partito Rodina-Unione Nazionale Patriottica) facenti riferimento ad Aleksandr Dugin, l’idea di «democrazia organica» quale alternativa radicale alla società liberale di massa promossa dai processi di globalizzazione americanocentrica. Dugin è infatti estremamente critico nei confronti dell’ideologia mondialista, neoliberale, e in Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica si prodiga in un’analisi assai interessante delle dinamiche di omogeneizzazione conformistica made in Usa su scala globale:

Il globalismo che vediamo instaurarsi oggi non ha […] niente di un concerto dei popoli e dei tipi storico-culturali, ma si definisce piuttosto come una omogeneizzazione artificialmente calcolata sul modello americano […]. Gli eurasiatisti di oggi si riferiscono a un’idea che è esattamente il contrario di quella che sottende il globalismo. Essi sostengono la pluralità dei valori e la libertà dei popoli di scegliere e forgiare il proprio destino indipendentemente da chicchessia.

L’ideale di «democrazia organica» teorizzato da Dugin, naturalmente, si pone in aperto antagonismo non solo con il liberalismo “classico” ma anche con l’“altermondialismo” libertario e sostanzialmente ultracapitalistico in quanto fondato sul postulato individualistico della liberalizzazione integrale dei costumi postmoderni, di anarchici, squatters e sostenitori della vulgata neocosmopolitica di Toni Negri. Il pensiero eurasiatista è infatti ispirato ai principi della Tradizione e, ponendosi in continuità con la cultura politica e filosofica degli slavofili del XIX secolo, rifiuta categoricamente l’universalismo occidentalista dei sostenitori della “globalizzazione altra” (ossia, una globalizzazione dei diritti di libertà individuali al consumo e al desiderio capitalistico) in stile Toni Negri. Scrive infatti Dugin:

[…] l’alternativa eurasiatista alla globalizzazione va molto più lontano, ed ha anche molta più profondità, delle proteste dei post-gauchisti riciclatisi come «altermondialisti», si tratti di Hardt e Negri, con la loro critica dell’«Impero», di Immanuel Wallerstein o dell’internazionale antimondialista di São Paulo. Gli altermondialisti criticano giustamente alcune delle malefatte e dei difetti più evidenti della mondializzazione ma continuano comunque ad aderire all’universalismo occidentale, che si accontentano di teorizzare in senso contrario. Nell’essenziale, restano degli occidentali, adepti di un pensiero unico verniciato soltanto con un po’ di spiritualismo o di ecologismo.

Così come rifiuta il liberalismo, declinato in ogni sua accezione, l’eurasiatismo politico rigetta, per dichiarazione stessa di Dugin, lo sciovinismo, il razzismo e la xenofobia, in quanto l’ideale di impero geopolitico bicontinentale eurasiatico sottolinea «positivamente la mescolanza di razze ed etnie nella formazione e nello sviluppo dell’identità russa e soprattutto grande-russa». L’eurasiatismo è l’ideologia del superamento dello Stato-Nazione giacobino in luogo della categoria geopolitica e spirituale di Impero tradizionale “neoghibellino”, ossia di katechon, inteso quale baluardo tradizionale al dispiegarsi travolgente dei processi di omogeneizzazione americanocentrica su scala globale. L’eurasiatismo auspica infatti l’alleanza geopolitica tra l’unione imperiale dei popoli d’Eurasia e un’Europa ritrovata alla propria identità tradizionale, appunto “ghibellina” e a sua volta inscindibilmente vincolata alla categoria di Impero. In questo senso, l’ideale di «democrazia organica» teorizzato da Dugin si va articolando come una vera e propria “Quarta Teoria Politica” (né liberale, né comunista, né fascista), un’evoluzione radicale, originaria e profondamente patriottica e comunitaria della categoria di «democrazia sovrana» posta in essere da Vladimir Putin e dal proprio entourage. La «democrazia organica» trascende la consolidata dicotomia novecentesca sinistra/destra su cui si reggono le fin troppo vezzeggiate “democrazie liberali occidentali” ed è a sua volta perfettamente compatibile con una società tradizionale centrata sul criterio della «partecipazione di un popolo al suo destino». La «democrazia organica», profondamente comunitaria e anti-individualistica, è infatti fondata sull’idea dell’individuo quale parte di un tutto e sul primato del popolo, della sovranità e della «partecipazione reale del popolo» ai destini della patria comunitaria e “imperiale”. Scrive infatti Dugin, a coronamento del proprio percorso di ricerca politico-filosofica tendente all’elaborazione di una “Quarta Teoria Politica”, in Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica:

Il popolo è un’entità organica che non si può decomporre e ricomporre come si fa con i pezzi di un meccanismo. In una democrazia organica, l’essenziale è intendere, comprendere e mettere in opera la volontà storica profonda di un popolo considerato come un tutto. Questo può formalmente coincidere con una gerarchia, ma questa gerarchia deve a sua volta avere un carattere organico.

Dal punto di vista squisitamente politico, Dugin è un sostenitore di Vladimir Putin ma non ha mai nascosto le proprie simpatie nei confronti del programma del Partito comunista della Federazione russa (KPRF), soggetto politico in cui ravvisa «una sinistra economica che condivide molti dei suoi valori con la destra politica». Per Dugin, infatti, «la sinistra economica designa le famiglie socialiste, dirigiste e solidariste, che occupano così tutto il campo delle idee economiche non-liberali o antiliberali» e «la destra politica […] si riferisce al conservatorismo dei valori morali e al tradizionalismo». In questo senso, nel quadro di riferimento di un capitalismo contemporaneo fondato sul primato della destra economica (la destra del denaro, dell’acquisizione, dell’egoismo) e della sinistra politica (la sinistra della liberalizzazione integrale dei costumi e dei desideri illimitati, una sinistra riassumibile nella definizione di «femminismo laico e postmoderno»), la «democrazia organica» teorizzata da Dugin e dagli eurasiatisti può e deve essere considerata come il frutto dell’unione tra quella che Alain Soral definisce «la sinistra del lavoro e la destra dei valori», ossia, in particolare nel caso russo, tra i fondamenti costituenti l’ideale rivoluzionario dei “rossi” e la tradizione imperiale e patriottica dei “bianchi”, in chiave antiglobalista, anticosmopolitica e funzionale all’edificazione di un democrazia radicalmente identitaria.

Il nazional-bolscevismo, teoria politica propedeutica alla nascita di un movimento aniglobalista su scala eurasiatica

In questo senso, il «nazional-bolscevismo», o teoria rivoluzionario/conservatrice, è l’ideologia di riferimento per tutti coloro i quali intendano porsi, in una prospettiva di aperta ostilità al liberalismo e di ridefinizione su basi non messianiche e non feuerbachiane del marxismo, in aperto contrasto con la open society popperiana e postmoderna. Aleksandr Dugin delinea i caratteri strutturali del nazional-bolscevismo, filosofia politica propria della struttura russa, del carattere nazionale dei popoli d’Eurasia (un inconscio collettivo metafisico culturalmente tradizionalista, politicamente popolar-conservatore ed economicamente socialista), nel libro Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia (prefazione di Andrea Marcigliano, Pagine I Libri de Il Borghese, Roma, 2015). In questo volume, Dugin afferma infatti che «il nazional-bolscevismo è un tipo di ideologia che poggia sulla completa e radicale negazione dell’individuo e del suo ruolo centrale; e nella quale l’Assoluto – nel cui nome l’individuo è negato – assume il senso più ampio e generale». E’ particolarmente indicativa, e assai originale nella sua essenza radicalmente e integralmente condivisibile, a meno a pere di chi scrive, la definizione coniata da Dugin per caratterizzare il nazional-bolscevismo: «Il nazional-bolscevismo è la super-ideologia comune a tutti i nemici della società aperta». In questo senso, è perfettamente comprensibile ravvisare, in Russia, strenui avversari della open society e del liberalismo occidentali sia tra i comunisti «sostenitori dello Stato», in stile Gennadij Zjuganov, sia tra i patrioti “bianchi” fautori del cristianesimo ortodosso e della monarchia intesa come elemento unificante (per citare Vincenzo Nuzzo e il suo Elogio della monarchia imperiale, Controcorrente, 2010) il «corpo solidale della nazione». Scrive a riguardo, in Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia, Aleksandr Dugin:

Il termine «nazional-bolscevismo» può indicare cose molto diverse fra loro […]. Nel contesto russo, «nazional-bolscevichi» fu la denominazione abituale di quei comunisti orientati alla conservazione dello Stato e – coscientemente o meno – continuatori della linea geopolitica della missione storica Grande-Russa. Ma i nazional-bolscevichi russi si ritrovarono sia tra i Bianchi (Ustrjalov, smemo-vekhovtsij, Eurasisti di sinistra) sia fra i Rossi (Lenin, Stalin, Radek, Lezhnev, ecc.).

Il nemico principale dei nazional-bolscevichi è, come detto, l’individualismo liberale, un’ideologia “centrista” che, afferma Dugin, «ha saputo unire la monarchia protestante dell’Inghilterra e il parlamentarismo democratico del Nordamerica», ossia gli equivalenti, nell’Età Moderna, degli attuali schematismi dicotomici liberalconservatori di centrodestra/liberaldemocratici di centrosinistra. In questo senso, il nazional-bolscevismo è, sempre per citare Dugin, il tentativo di dar vita «a una coalizione delle varie ideologie ostili alla “società aperta”» tecno-mercantile e neoborghese. Bersaglio della critica dei nazional-bolscevichi è infatti, secondo Dugin, «l’individualismo, di “destra” come di “sinistra”». Aleksandr Dugin afferma infatti che l’individualismo «a destra si esprimeva nell’economia, nella teoria del “libero mercato”; a sinistra nella “teoria del liberalismo politico”: la “società legalitaria, i “diritti umani” e via dicendo». Nel contesto culturale fino a qui delineato, appare pertanto ovvia la radicale ridefinizione che gli eurasiatisti tracciano della consolidata dicotomia eurocentrica sinistra/destra, una obsoleta ma mediaticamente attualizzata oltre ogni limite, dicotomia centrata sull’alternanza unica, ossia sull’alternanza senza alternativa, tra coalizioni di centrodestra e centrosinistra a egemonia interna liberale sistemica (conservatori liberali e alleati minori vs socialdemocratici liberali e alleati minori di sinistra “radicale”). Il nazional-bolscevismo, ovvero la cultura politica alle radici della «democrazia organica», oppone alla summenzionata dicotomia sinistra/destra un modello di contrapposizione dialettica basato sulla dicotomia eurasiatisti (di destra e di sinistra) vs liberal-mondialisti (di destra e di sinistra). I nazional-bolscevichi propugnano infatti l’alleanza tra una destra sociale e una sinistra identitaria (entrambe rappresentanti di una cultura politica ostile alla open society liberale e popperiana), in grado di contrapporsi al “centro liberale” e cosiddetto “moderato” di ispirazione neoborghese (un “centro” politico oggi annoverante anche la sinistra radical-chic ed “eurocomunista”, culturalmente addomesticata al versante sistemico della società liberale tanto che i suoi esponenti perseverano nel definire «una bestemmia» qualsivoglia innovazione apportata da filosofi e pensatori anticonformisti, quali Dugin e de Benoist, agli standardizzati modelli dicotomici e ormai falsamente oppositivi, di taglio novecentesco ed eurocentrico). Scrive infatti Aleksandr Dugin, in Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia, parlando della coalizione di sintesi nazional-bolscevica tra una destra e una sinistra ostili a qualsivoglia soggettivismo, tanto materialistico quanto idealistico:

[…] i nazional-bolscevichi segnano una nuova linea di confine in politica. Destra e sinistra sono ora entrambe divise in due settori. L’estrema sinistra – comunisti, bolscevichi, “hegeliani di sinistra” – vengono a combinarsi nella sintesi nazional-bolscevica con estremisti nazionalisti, étatisti, sostenitori dell’idea del «Nuovo Medioevo» – in breve, con tutti gli «hegeliani di destra». I nemici della società aperta fanno ritorno al loro terreno metafisico comune.

I tempi attuali, gli “Ultimi Giorni” della paranoica tirannide capitalistica finanziarizzata e globalizzata a egemonia culturale cosmopolitica e neolibertaria, rappresentano l’apologia del liberalismo come «autogoverno dei ceti ricchi» e la negazione più integrale ed evidente delle categorie di popolo (sostituita dall’indistinta mucillagine moltitudinaria globalizzata), di sovranità nazionale e di democrazia. La democrazia è infatti sinonimo di sovranità popolare, di potere popolare, mentre l’odierno totalitarismo liberale si fonda sul disimpegno consumistico di massa e sulla metamorfosi del processo democratico in political drama televisivo. Il nazional-bolscevismo può pertanto (sulla scorta della brillante intuizione di alcuni circoli culturali «nazionalcomunisti» e anticonformisti italiani, segnatamente radunatisi attorno alla rivista Orion alla fine degli anni Ottanta del XX secolo), alla luce delle considerazioni summenzionate, essere descritto come il fondamento filosofico alla radice della costruzione, su scala eurasiatica, di un movimento antiglobalista di opposizione allo “stato di cose presenti” (neoliberale e cosmopolitico).

La democrazia organica nel pensiero di Alain de Benoist

Del sopradescritto “stato di cose presenti” si è accorto perfettamente l’insigne filosofo, politologo e sociologo francese Alain de Benoist, di cui le edizioni Pagine I libri de Il Borghese hanno recentemente pubblicato, a cura del professor Giovanni Sessa (autore di un saggio introduttivo di indubbio pregio, intitolato appunto «La democrazia organica di Alain de Benoist. Una risposta alla crisi»), il volume Democrazia, il problema (edito in Italia, per la prima volta, nel 1985). In questo libro, de Benoist afferma che la democrazia «in ciò che ha di più fondamentale, si oppone […] direttamente alla legittimazione liberale dell’apatia politica, nella quale non ci si può impedire di vedere una negazione della sovranità popolare». Alain de Benoist si produce inoltre in un’affermazione che dovrebbe costituire la base per il ripensamento di ogni chiacchiericcio retorico in merito all’idolatria borghese nei confronti dell’ormai integralmente svuotato di contenuti partecipativi “procedurismo” demo-liberale contemporaneo, nel momento in cui scrive:

Una vera democrazia non è tanto il regime dove tutti possono votare quanto quello in cui ciascuno può secondo le sue forze beneficiare di uguali possibilità di accedere al potere […]. La partecipazione politica non può dunque essere ridotta al solo potere elettorale. Bisogna che il popolo possa decidere ovunque può, e che, ogni volta che non può, possa acconsentire o rifiutare il suo consenso.

A questo punto, de Benoist, al cuore del volume Democrazia, il problema, fissa la propria definizione teorica di «democrazia organica», ossia il processo di organizzazione della società centrato sul primato della comunità storica di popolo come destino e sulla ricollocazione della definizione stessa di popolo (e di libertà) nel solco della tradizione greca classica. Alain de Benoist rifiuta l’idea di libertà come idea di «“libertà” dei liberali», ossia di autogoverno dei ceti ricchi, e caratterizza la nozione di «democrazia organica» nel novero della categoria di «cittadinanza, che sancisce l’appartenenza a un popolo – vale a dire a una cultura, a una storia e a un destino – e all’unità politica nella quale questo si dà forma». La «democrazia organica» è pertanto incompatibile con le odierne perorazioni liberali a favore di «pretesi diritti inalienabili dell’individuo-senza-appartenenze» (il cosmopolita vezzeggiato nella retorica dei due poli solo apparentemente opposti della società, ossia i campus universitari liberal statunitensi e centri sociali “okkupati”) e volge il suo dispiegarsi in una direzione completamente opposta, ossia «con riferimento al popolo concepito come un organismo collettivo e come l’attore privilegiato di ogni destino storico». Alain de Benoist, in Democrazia, il problema, afferma senza reticenze che la «democrazia organica» è «fondata sulla sovranità nazionale e popolare», sulla «fratellanza» tra appartenenti a una determinata comunità storica popolare di destino e sull’emancipazione dei popoli dal dominio coloniale del cosmopolitismo culturale odierno.

Conclusioni

E’ assolutamente comprensibile che l’ideale di «democrazia organica» teorizzato, analizzato e divulgato da Alain de Benoist e Aleksandr Dugin susciti l’irritazione dei settari e conformisti ambienti culturali radical-chic e sinistrorsi italioti. Non è un caso dunque che il quotidiano il manifesto continui a stigmatizzare Dugin alla stregua di un intellettuale «dell’estrema destra russa» e indichi, assai banalmente, nella «democrazia organica» una mera «uscita a destra» dalla crisi generata dal cupo e inesorabile declino dell’ipermodernità accelerata ma senza futuro (una postmodernità, inoltre, totalmente noncurante del passato, che strumentalizza a uso e consumo di fattori di legittimazione e apologia politica dell’esistente secondo la logica della «democrazia del talk show»). Secondo il manifesto, l’eurasiatismo, ossia la sintesi politica di riferimento per la concretizzazione della «democrazia organica», non è che la «cultura più radicalmente anti-illuminista che si sia espressa negli ultimi decenni e che sembra aver fatto della Russia odierna il proprio principale laboratorio sociale». In realtà, la crisi dell’ipermodernità più sopra menzionata è anche il prodotto della crisi dell’illuminismo come filosofia del progresso, una crisi da cui si può uscire soltanto, come insegna de Benoist, andando Oltre il moderno, ovvero opponendo ai consolidati stereotipi dicotomici novecenteschi nuove sintesi che, in Russia così come in Serbia, all’inizio degli anni Novanta del XX secolo hanno sperimentato il proprio divenir vero attraverso la messa in discussione del colonialismo dei valori liberaldemocratici e open frontiers occidentali. L’eurasiatismo è la filosofia politica di tutti coloro i quali, in Russia, si oppongono a «una specie di “perestrojka” preventiva, lanciata dalle oligarchie stufe di non poter viaggiare in Europa» (A. Zafesova, Il Foglio, 4 maggio 2016) e propugnano il ritorno al potere delle istanze più propriamente conservatrici e solidaristiche (conservatrici/rivoluzionarie) caratteristiche delle classi popolari autoctone. La «democrazia organica» è l’involucro politico privilegiato per le aspirazioni dei popoli d’Europa e d’Eurasia a veder tramontare, per sempre, l’ideologia borghese e i suoi apparati di riproduzione culturale (clero universitario liberal e cosmopolitico), politica (sistema dell’alternanza unica tra liberali di centrodestra e centrosinistra, o “plebiscito dei mercati”), mediatica (mainstream media) ed economica (capitalismo finanziarizzato di multinazionali apatridi).