La Chiesa resta in crisi finché non torna al Vetus Ordo

Matteo D’Amico

LA SANTA MESSA DI SEMPRE: LE RAGIONI DI UNA SCELTA

Come ho scoperto la Messa di San Pio V

Vent’anni fa, nel marzo del Duemila, ho assistito per la prima volta da adulto alla Santa Messa di sempre. Era domenica e a metà mattina si svolgeva la
funzione liturgica in un piccolo centro di Messa della Fraternità San Pio X a Seregno, vicino a Milano.
Ovviamente era stata la Messa della mia primissima infanzia, essendo io nato nel 1964, ma non ne
avevo nessun ricordo cosciente: per me si trattava di una scoperta assoluta. Si tenga anche conto che in
quel momento ignoravo completamente il tema della crisi della Chiesa, i problemi legati al Vaticano II, la
questione liturgica e che, tantomeno, conoscevo la Fraternità San Pio X. Semplicemente un sacerdote di
mezza età conosciuto a una conferenza, che curiosamente indossava la talare, mi aveva invitato alla
Messa senza dirmi null’altro ed io ero andato.
Non penso di aver mai visto un luogo che esteriormente ricordasse meno una chiesa o, in generale, un
edificio religioso: una modesta via secondaria e periferica, un piccolo cortile asfaltato, una specie di
deposito un po’ buio e ben poco elegante visto dall’esterno. Da una porticina in ferro e vetro, come si
trovavano una volta all’ingresso di uffici o piccoli laboratori, si accedeva a un corridoio molto stretto di
pochi metri e da questo si arrivava alla sala per la Messa. Si trattava di uno stanzone rettangolare, dal
soffitto abbastanza basso, male illuminato da un paio di finestre: l’aspetto era quello di un vecchio
magazzino e non vi era nulla in esso che potesse essere definito bello od elegante. Insomma, un luogo
improbabile, sicuramente non costruito pensando di celebrarvi il Santo Sacrificio della Messa. Mi sedetti
su un banco in fondo allo stanzone e aspettai. A un tratto vidi entrare dal fondo della sala il sacerdote
accompagnato da alcuni chierichetti; avanzavano con una misteriosa solennità, indifferenti all’umiltà
del luogo, lentamente, in silenzio, composti. Percepii, senza mediazioni concettuali, ciò che si è soliti
chiamare la ieraticità. La modestia del luogo di colpo scomparve e l’azione sacra, il mistero terribile e
austero che era iniziato, prese il sopravvento su ogni altro elemento. Compresi lì, per la prima volta,
anche se solo in modo immediato e intuitivo, che durante la Santa Messa spazio e tempo dileguano e i
loro confini ordinari sono infranti, per lasciare che l’Eterno irrompa verticalmente, dall’alto, nella nostra
vita e ne sospenda il senso già dato e più superficiale. La bellezza accecante del rito antico e del canto
gregoriano, l’altare, vera sorgente di luce e fondamento di ogni prospettiva, la possibilità di pregare
adorando e di adorare pregando… Tutto diventava possibile e semplice. Questa fu la prima Messa in rito
tradizionale alla quale assistei: non avevo con me il Messale e non conoscevo le rubriche, eppure mi
parve cosa semplice e dolcissima partecipare al rito, tanto che, tornato a casa, descrissi quanto avevo
visto e vissuto a mia moglie e le dissi: “Se questo era il rito di sempre della Chiesa, è inconcepibile che lo
abbiano soppresso per sostituirlo con la nuova Messa di Paolo VI! E’ come buttare via un tesoro di
gemme preziosissime, per sostituirlo con pietre senza valore”.
Non ho più potuto dimenticare questo primo contatto con la Messa in rito antico, e nei momenti di dubbio
o di sconforto mi capita di tornare a ricordarla, perché fin dal primo istante compresi che la sua bellezza
non era altro che il baluginare della Verità oltre l’opacità del finito; che il suo splendore era il timido,
discreto e purissimo rendersi visibile di Dio stesso, oltre il buio insondabile della materia.
I brevi appunti che seguono non vogliono rappresentare ne’ un approfondimento dottrinale sulla Santa
Messa, ne’ un saggio di teologia ma, semplicemente, un tentativo di descrivere quella che potremmo
chiamare una fenomenologia della Santa Messa tradizionale, ovvero il suo apparire ai sensi e alla mente
del fedele che vi assiste con devozione come un insieme di segni (rappresentati da oggetti, paramenti,
luci, gesti, profumi, parole, eventualmente canti) che manifestano delle verità dottrinali ma,
essenzialmente, il rendersi presente di Nostro Signore Gesù Cristo stesso. Non ci concentreremo però
analiticamente su ogni singolo aspetto della funzione sacra, che pure sappiamo avere il suo preciso
significato. Piuttosto cercheremo di evocare l’effetto che l’insieme del rito e la sua armonia meravigliosa
e soprannaturale generano nei fedeli.
La Santa Messa e il silenzio
La cosa che più mi colpì, fin dalla prima Messa, fu il grande silenzio che la avvolge e la pervade;
ovviamente vi sono parole, preghiere, canti e altri suoni caratteristici, come quello del campanello scosso
tre volte durante la consacrazione, ma ogni parola o suono sembra sorgere da un silenzio più profondo e
abissale. Durante la Messa tutto è in realtà scolpito nel silenzio e nel silenzio sembra ritornare come
onda sollevatasi da un immenso oceano di sovrumana pace. Ma cos’è questo silenzio? Di che tipo di
silenzio si tratta? Non si può parlare, evidentemente, di un silenzio da concepire in modo puramente
negativo, come assenza di parola. Semmai abbiamo visto che siamo di fronte alla fonte stessa della

parola. Credo si possa affermare che il miracolo immenso che ha corso durante la Messa -Dio che
torna a rinnovare il mistero della sua incarnazione, della sua passione e della sua morte sulla croce per
noi- possa essere espresso solo dal silenzio, come sotto la Croce, sul Golgota, nessuna parola poteva
avere più significato di una muta e attonita contemplazione della sofferenza indicibile di Cristo.
Questo silenzio, che segna in modo così marcato la Messa di sempre, e che si manifesta nel suo grado
più profondo durante la consacrazione, è in realtà la cifra sia di tutto il rito, sia dell’edificio sacro in cui
esso ha luogo. Da quando si varcano le porte della chiesa e ci si segna con l’acqua santa, mettendosi in
ginocchio per adorare Dio realmente presente nel santo Tabernacolo, sino a quando si esce dalla chiesa
dopo la Messa, il fedele non deve pronunciare altre parole se non quelle previste dallo svolgimento della
liturgia: quanto più questo silenzio fervoroso e intenso è pieno, quanto più si è raccolti in una incessante
contemplazione dell’altare, tanto più diventa possibile parlare cuore a cuore con Gesù, adorarlo pieni di
stupore nei diversi momenti della sua vita, unirsi a Lui nella sua Passione, rivolgergli le più accorate
richieste di soccorso, implorare pietà per i nostri peccati.
In particolare il silenzio come essenza della Messa di sempre si manifesta, infine, durante il
ringraziamento che segue la funzione: la chiesa lentamente si svuota, i canti sono cessati, ma si resta
con Gesù unito alla nostra anima ferita, al nostro cuore piagato, non più soli, quasi strappati alla terra e
immersi nella comunione più piena con il nostro caro Salvatore.
La Messa in rito antico, o di San Pio V, Messa che risale in realtà all’età apostolica, è eco fedele del
silenzio profondissimo che avvolgeva la croce di Nostro Signore. Anche nella Messa di Paolo VI vi sono
delle parole, ovviamente, ma non vi è più il mistico silenzio dal quale esse sorgono nella Messa di
sempre, per indicare, con timore e tremore, ciò che sta realmente accadendo sull’altare.
Certamente il silenzio è un carattere della Messa di sempre, e di esso deve esserci una profonda eco nel
cuore del fedele che assiste alla funzione liturgica. Ecco allora che diventano comprensibili, fin dai tempi
dei Padri della Chiesa, i richiami affinché i fedeli seguano la Santa Messa col più profondo raccoglimento
e nel più assoluto silenzio. Già da prima di entrare in chiesa è necessario abbandonare ogni chiacchera
e ogni interesse mondano, ogni discussione vana e futile; occorre organizzarsi per arrivare alla funzione
con un congruo anticipo, non per mettersi a parlare con gli altri fedeli che si incontrano, ma per entrare
subito nel tempio santo. Qui, da quando si varca la porta di ingresso e ci si inginocchia a lungo per
adorare il Signore presente nel Tabernacolo, il silenzio deve essere assoluto e non essere più interrotto,
se non per ragioni di strettissima e grave necessità. Non parliamo, ovviamente, solo di un silenzio della
bocca, ma anche di un silenzio degli occhi, ovvero del rinunciare a ogni sguardo su ciò che ci sta intorno,
per contemplare il tabernacolo, dove Gesù, abbandonato e glorioso a un tempo, accetta di rimanere
imprigionato nell’attesa di una nostra preghiera, di un nostro atto di ringraziamento o di adorazione.
E’ giusto infine parlare di un silenzio della mente, ovvero di una preparazione fervorosa e insonne alla
Messa che sta per iniziare che escluda ogni pensiero vano, ogni ricordo, ogni realtà altra da quella che
sta per avere corso sull’altare. Il mondo deve scomparire e sprofondare nel nostro silenzio per lasciare
spazio solo a Gesù che sta per rendersi presente sull’altare. Qui il modello supremo è Maria Vergine,
con il perfetto silenzio di tutta la sua vita, che diventa immenso ed eroico sotto la croce, di fronte a Gesù
agonizzante.
Così non si può comprendere la Santa Messa di sempre, la Messa degli Apostoli e dei martiri, la Messa
dei santi di venti secoli di vita della Chiesa, se non si invoca incessantemente e non si è consumati e arsi
dallo spirito di silenzio, che deve trasfigurare tutta la nostra vita e non solo l’assistenza alla Messa.

La Santa Messa e la solitudine
La Messa in rito antico mi colpì, fin dal primo contatto con essa, anche per un secondo carattere che, del
resto, sgorga dal primo ed è ad esso strettamente congiunto, ovvero la luminosa e
dolcissima solitudine nella quale permette di rimanere al fedele. Certamente la Messa è un evento che,
per lo più, si vive in modo comunitario, insieme ad altre persone, spesso insieme ai propri familiari più
stretti, ma la cosa che solo il rito tradizionale rende possibile, sia che venga celebrato per poche persone
in una piccola cappella di montagna, sia che sia celebrato in una grande cattedrale gotica, è il più
profondo raccoglimento del fedele in se stesso. Il rito, nella sua celeste solennità e semplicità, potremmo
dire che obbliga chi vi assiste a dimenticarsi del mondo e anche delle persone che ha accanto: tutto
sembra scomparire, perché resta solo l’altare, e sull’altare, vero Golgota, il miracolo del rinnovarsi
dell’incarnazione, della passione e della morte sulla croce di Nostro Signore. Durante la Santa Messa
tutto ci aiuta a contemplare Gesù Cristo che, mentre si immola, si umilia e si annienta fino a comprimere
il suo corpo nello spazio di una piccola particola, legato e immobilizzato, imprigionato fra le mani di un
sacerdote che può essere tiepido o dissoluto; nudo, della nudità più estrema, coperto di piaghe; ridotto a
un nulla, Lui che glorioso in cielo accetta di scendere su un altare per apparire nascosto dietro le
apparenze di un pezzo di pane, briciola d’essere esposta a ogni disprezzo, a ogni derisione, a ogni
incredulità, a ogni sacrilegio. Di fronte al mistero terribile del Golgota, all’amore accecante che la croce
sprigiona si è soli. Sono solo perché Gesù è per me che torna a offrire la sua croce al Padre, per me si

immola, me investe con la sua grazia e il suo perdono, e non una collettività anonima e distratta. Ma
sono solo anche perché io e non altri debbo, qui e ora e sempre, consolarlo nella sua agonia, come se
nessun altro potesse farlo al mio posto. Io lo ho crocifisso con i miei peccati, Lui si è fatto crocifiggere per
amor mio, io dunque debbo amarLo con tutto me stesso e consolarlo.
Invano cercheremmo questa solitudine nella Messa di Paolo VI, che sembra costruita per renderla
impossibile; Messa che celebra l’uomo, la comunità, ma oscura e fa dimenticare il rinnovarsi del Santo
Sacrificio con i suoi canti sguaiati o inopportuni, con la liturgia soggetta a ogni variazione o
improvvisazione, e con i mille segni di adorazione e di rispetto per l’augusto sacramento dell’altare
volutamente eliminati: pensiamo allo scandalo della comunione ricevuta in piedi e sulle mani, al
Tabernacolo nascosto in qualche luogo dimenticato, al perdersi ormai della santa abitudine di
inginocchiarsi davanti al Santissimo. Come rimanere soli con Cristo nell’abisso, inaccessibile all’uomo,
della sua agonia e della sua morte, mentre il sacerdote spiega quello che sta per fare o il senso dei suoi
gesti, parla con i fedeli, li chiama sull’altare e per primo non rispetta il rito che sta compiendo?
Ma non vi può essere ne’ vera devozione, ne’ fervore, né santità dove al fedele è impedito di vivere
almeno a Messa solo a solo con Cristo e di comprendere la misura del suo amore per lui.
La virtuosa solitudine che la Messa di sempre permette è liberazione da ogni irretimento nel finito e
rappresenta una cesura nettissima con l’ordine orizzontale della temporalità ordinaria, invasa, e come
soffocata, dalle occupazioni, dai contatti, da un continuo, quanto vuoto, flusso comunicativo. Soli di fronte
all’altare, vero Golgota dove Cristo ci attende sempre, si ha un’esperienza viva e palpitante del kairòs,
l’attimo opportuno, l’istante in cui l’Eterno irrompe dall’alto per invadere il nostro cuore con la sua grazia.
La Messa in rito antico -grazie al silenzio e alla solitudine che essa rende possibili- non è nel tempo, ma
è una sospensione del tempo, un frammento del Cielo e dell’Eternità incastonato come gemma preziosa
nel flusso anonimo dei giorni dell’uomo. Ecco perché è assurdo domandarsi o accorgersi di
quanto dura la Messa, perché a rigore la sua non è una durata: semmai la Santa Messa può essere
pensata come l’immobile scintillio dell’eterno che invade il presente, scavando in esso uno spazio
luminoso sottratto al divenire.
La modernità, segretamente gnostica e panteista, odia il singolo, odia l’individuo capace di consistere in
sé, di raccogliersi, di ascoltare veramente; odia tutto ciò che ha carattere e che è irripetibile, tutto ciò che
ha un volto ed è personale; e va notato che la Messa di Paolo VI ha intercettato proprio questa essenza
profonda della modernità, producendosi come contesto in cui deve prevalere, in modo quasi violento, il
momento collettivo, l’anonimia e l’impersonalità che fa sì sentire i fedeli uniti fra loro, dove però nessuno
è più unito veramente a Cristo. Il compiacimento melenso e sentimentale del sentirsi “comunità”, la
retorica dell’essere insieme soffoca così ogni vero slancio verso Dio. E’ in tal modo che i fedeli vengono
sedotti e traditi: sedotti dalla sensazione consolatoria, ma vuota, di essere veramente con-gli-altri; traditi,
perché in tal modo viene loro impedito di incontrare Nostro Signore, di ricevere da Lui quelle grazie che
Egli dispensa solo individualmente, a ogni singolo fedele che sia davvero disposto ad attenderlo e ad
ascoltarlo, ad accoglierlo e ad adorarlo per la Sua grandezza. Gesù non ci ama, non ci consola e non
ci salva in massa, ma a uno a uno: siamo tutti davvero ai suoi occhi la pecorella smarrita, per cercare la
quale lascia le altre novantanove nel deserto.

La Santa Messa e la bellezza
Il silenzio e la solitudine che abbiamo prima evocato sono come la soglia che apre a un’altra dimensione,
la porta invisibile da varcare per veder irrompere la bellezza segreta della Santa Messa; perché la Messa
in rito antico è anche ed essenzialmente bella; è bella in ogni sua parte e nella sua totalità; è bella nei
suoi canti e nei suoi silenzi; è bella nelle sue parole e nelle sue pause; è bella come un tutto, dove ogni
parte è perfetta in sé, ma anche nei legami che la uniscono alle altre.
Questa bellezza della Messa di sempre non è paragonabile, in un certo senso, a quella di nessuna altra
realtà, ovvero è superiore e qualitativamente altra rispetto alla bellezza artistica, ad esempio, o alla
bellezza di un panorama naturale. Infatti non ci troviamo semplicemente di fronte a qualcosa che è
bello, ma siamo immersi nella bellezza di una actio liturgica che è divino-umana, e rispetto alla quale non
siamo semplici spettatori inerti e passivi, ma alla quale ci è concesso di prendere parte spiritualmente,
adorando e pregando, unendoci infine al Sacrificio di Cristo e offrendoci con Lui al Padre: ecco la
vera actuosa partecipatio. Dunque la Santa Messa di sempre è bella di una bellezza che trascende
quella di ogni altra realtà perché colui che la contempla, ne è al contempo parte: soggetto e oggetto
tendono qui a collassare in una luminosa unità. Sappiamo inoltre che la bellezza è legata all’ordine e
all’armonia, ma anche che l’armonia può essere generata solo da un centro verso il quale tutte le parti
convergono: ebbene nella Messa di san Pio V questo centro brilla di una luce originaria e irriducibile ed è
rappresentato sul piano spaziale e fenomenico dall’altare; sul piano più profondo della realtà dal Santo
Sacrificio della croce, che sull’altare si ripresenta in modo mistico e incruento. Vi è dunque un centro
verso il quale converge non solo lo sguardo del fedele, ma il suo cuore, la sua anima, la totalità della sua
persona. La bellezza della Santa Messa, in tal modo, non è più semplicemente qualcosa di contemplato,

ma diviene qualcosa di vissuto, entra nel cuore del fedele e ne invade l’anima, fino a divenire più reale
della realtà fisica stessa, più intensa di ogni altra esperienza o sentimento possibili nel mondo, segno e,
realtà al tempo stesso, della dolcezza infinita con la quale Cristo abbraccia noi poveri peccatori, indegni
di essere alla sua presenza, eppure mendicanti del Suo amore.
La bellezza della Santa Messa dunque non dipende, in ultima istanza, dall’edificio in cui si svolge, dalla
decorazione delle pareti, dal fasto dell’altare, dalla preziosità e ricercatezza degli arredi o dei paramenti
liturgici, perché si tratta di una bellezza non delle cose, non di ciò che appare e si vede, ma di ciò
che accade; si tratta della bellezza, straziante e dolcissima nello stesso tempo, di Cristo, Sacerdote e
Vittima, che si immola per noi. Qui dunque la bellezza è punto di accesso metafisico alla pienezza
dell’essere, è il manifestarsi dell’Assoluto, il rilucere della Verità stessa.
Quale differenza con la Messa di Paolo VI, dove tutto sembra tendere al disordine e al caos, dove le parti
sembrano giustapposte approssimativamente, slegate fra loro, incapaci di convergere verso un punto
prospettico unitario; manca infatti qui il centro che dovrebbe essere rappresentato dal Santo Sacrificio
dell’altare. I riti e le parole sembrano studiati per ridurre tutto a rimando simbolico, senza più essere in se
stessi capaci di significare e rendere manifesta la realtà del grande mistero che viene celebrato. La
riforma di Paolo VI, realizzata proprio allo scopo di dare vita a una Messa che potesse favorire il dialogo
ecumenico con gli eretici protestanti, ha oscurato completamente il Santo Sacrificio dell’altare, tanto nei
gesti, quanto nelle preghiere; ciò ha privato la Messa del suo centro e ha allontanato i fedeli,
obbligandoli a riconoscere, loro malgrado, che di colpo la funzione liturgica si era come svuotata del suo
senso originario, divenendo insignificante e vuota, contenitore grigio e incolore di una comunione tutta
umana, ottenuta al prezzo di escludere Dio, o di renderlo irriconoscibile.
In questi tempi di tenebra, nei quali sempre più spesso siamo inclini a ripetere la profonda domanda del
grande scrittore russo :”Quale bellezza salverà il mondo?”, ogni cattolico di buona volontà può dire di
avere la risposta: la bellezza che salverà il mondo, l’unica che può toccare il cuore di un’umanità che
sembra sprofondata nel deliquio di una follia irredimibile, è la bellezza della Santa Messa di sempre, la
Santa Messa di San Pio V. Questa e solo questa è la Messa che ha permesso di santificarsi a
generazioni di cattolici, che ha consolato gli ammalati e gli afflitti, gli abbandonati e gli sconfitti, i peccatori
e i consacrati; questa e solo questa è la Messa che rende possibile la vita contemplativa e sacerdotale,
la castità degli sposi e dei fidanzati, l’eroismo dei martiri e dei confessori. E’ la Santa Messa di sempre
che ci porta sul Golgota e ci insegna che, di fronte a Cristo crocifisso per noi, non possiamo porre alcun
limite al dono che dobbiamo fargli della nostra anima, della nostra persona, della nostra vita stessa, arsi
dall’incendio della sua Carità, consumati dalla stessa divorante sete di santità e di sacrificio.
Matteo D’Amico, 26 gennaio 2021
(Fonte: https://vitisvera.substack.com/p/la-santa-messa-di-sempre-le-ragioni-di-una-scelta)