L’ egoismo neo-borghese, Autostrada verso il Nulla.

di ROBERTO PECCHIOLI

Se uno volesse comportarsi come un bue, potrebbe naturalmente volgere le spalle alle pene dell’umanità e pensare solo alla propria pelle. Così scrisse nel 1867 Karl Marx, il più grande materialista della storia d’Occidente. La sua ricetta filosofica e politica non ha funzionato, ma almeno l’autore del Capitale pensava sinceramente di liberamente l’uomo dalla sofferenza, fornendogli una causa e una coscienza civile comunitaria. Il pensiero liberale, sotto questo profilo, è assai peggio. Il suo individualismo sbocca inevitabilmente nel cieco egoismo, sino agli esiti disgustosi e francamente disumani della contemporaneità.

A questo pensavamo leggendo un’intervista della nota attrice americana Sarah Paulson, protagonista pluripremiata della serie American Crime Story. La giovane donna è stata inserita dal settimanale Time, Bibbia laica del progressismo liberal neo borghese, tra le cento persone più influenti al mondo. Le sue parole assumono dunque tutto il peso di chi, protagonista del sistema di intrattenimento globale, fa opinione, anzi, per dirla con il nuovo lessico dei social media, è un influencer, ovvero anticipa o determina comportamenti di massa.  La Paulson si dice convinta che l’egoismo vada rivalutato; in particolare, la sua crociata è a favore delle donne che, come lei, non vogliono avere figli. Come tutti i progressisti di matrice borghese, pensa che la sua sia una “scelta di civiltà” ed afferma senza giri di parole che un figlio è “una condanna a morte”. Con la sicumera di chi vive nella bambagia, così prosegue: Ho sempre saputo che cosa volevo dalla mia vita professionale. Non vorrei guardarmi alle spalle e dire: se solo avessi fatto la scelta di dedicare questo momento della mia vita a me stessa. E’ egoista, ma credo che la parola egoista abbia una brutta reputazione.

In queste frasi si avverte tutta la nefasta influenza dell’individualismo su cui è nata la nazione americana, il cui simbolo è il passaggio della dichiarazione d’indipendenza in cui si proclama la ricerca della felicità tra i diritti inalienabili donati all’uomo dal Creatore insieme con la vita e la libertà, tanto da rendere necessario formare un nuovo Stato “nella forma che al popolo sembri più probabile possa apportare sicurezza e felicità”.

La scommessa odierna è fare carriera, avere successo, possedere molto denaro per acquistare tutto ciò che dà felicità. In siffatta costruzione ideologica, debolissima nella forma, ma fortissima nella sostanza, i figli non sono compresi, anzi rappresentano un ostacolo o addirittura, come ammette con franchezza Miss Paulson, una condanna a morte. A nulla rileva che una società senza figli è destinata inevitabilmente all’ estinzione. Ma che importa alla divinità capricciosa chiamata Io, cosa hanno fatto per me i posteri, disse celiando ma non troppo Groucho Marx, e più tardi Woody Allen, perfetta espressione artistica del nichilismo metropolitano di New York City, Manhattan per gli affari economici, Broadway mecca intellettuale ed ebraismo ateo (non è proprio una contraddizione…) per i principi generali.

Non è strano che dalle due coste degli Usa venga tutto il peggio che si riversa sulle periferie dell’impero, la cui dimensione è ormai planetaria. Gli Stati Uniti sono l’unica nazione occidentale in cui non sia stabilita per legge qualche forma di congedo di maternità. Lo spettacolo, si sa, deve continuare e poi business as usual, affari come ogni giorno. Tuttavia, diverse aziende di New York e della California, le punte avanzate della “civiltà” o della dissoluzione, offrono ai loro dipendenti speciali congedi per curare gli animali, condurli dal veterinario o celebrarne il funerale, incoraggiando persino la presenza in ufficio degli animali da compagnia. Pare sia diventata una moda postare su Instagram la propria fotografia con il cane o il gatto accanto alla scrivania. Karl Marx, tra tanti torti, non poteva immaginare che i devoti servi del capitalismo di consumo sarebbero diventati assai peggio del bue, il quale, poveretto, può ben maledire la sua sorte: lavoratore sfruttato, evirato da vitello, infine bistecca.

Il nuovo, raggelante soggettivismo non ha limiti né confini; lo sapeva già Mandeville nella favola delle Api, teorizzando i vizi privati come virtù pubbliche in quanto alimentano gli scambi economici. Non diversamente Adam Smith avvertì che non avremmo avuto la carne dalla bontà del macellaio, ma dal suo desiderio di guadagno. E’ tuttavia la prima volta nella storia declinante dell’Homo sapiens bianco che viene teorizzata la non riproduzione della società umana per mancanza di successori, naturalmente mascherando il tutto sotto le mentite spoglie della civiltà, delle opportunità, financo della ribellione.

Un libro di una psicanalista francese, Corinne Maier, sistematizza le idee divulgate ad Hollywood dalla Paulson ad uso del popolo basso. Il titolo è illuminante: No kids. Quaranta ragioni per non avere figli. Risparmiamo al lettore e a noi stessi lo stucchevole elenco, ma almeno uno degli argomenti della Maier è degno di essere conosciuto. “Una coppia con figli non cambierà mai attività, città, amicizie sulla base di un colpo di testa (sic!). Non potrà permettersi un comportamento asociale, non si ribellerà facilmente perché deve pensare al benessere dei figli. Un individuo o una coppia senza figli sono molto più liberi e imprevedibili. (…) Il nucleo familiare è un elemento stabilizzante della società, è il collante di un certo ordine e conformismo (??).” Conclude che non c’è nulla di più sovversivo di chi decide di non procreare per realizzare i suoi desideri. Non stupisce la professione di psicanalista della Maier, colpisce semmai che persone dotate di un minimo di buon senso decidano di affidare a gente come lei la propria salute mentale. I risultati sono sotto gli occhi di chi sa ancora vedere.

Ciò che sgomenta è il messaggio generale: la felicità sta nello svellere ogni radice, anzi bruciare l’albero dell’umanità nei “desideri”, l’inversione sfacciata secondo cui il conformismo sarebbe avere una famiglia e la ribellione si realizzerebbe nel nomadismo edonista. Non sono queste le prescrizioni della società di mercato, del capitalismo dei desideri e del feticismo della merce? Spaventa altresì, nella rivendicazione assoluta, cioè sciolta da ogni valore o vincolo, del primato della felicità e del successo soggettivo (carriera, denaro, viaggi), il disinteresse per il futuro. Quelli come la Paulson e la Maier si vedono immersi in un eterno presente, sempre giovani, sani, belli, performanti. Non vogliono occuparsi di nessun altro che di se stessi, ma lo specchio non è quello di Dorian Gray. Nella realtà l’immagine non muta né invecchia, ma la persona concreta sì. Talvolta per strada si vede qualche hippy della terza età, caricatura di se stesso, in ritardo di trenta, quarant’anni: pensiamo a Shel Shapiro, il musicista di Ma che colpa abbiamo noi, o a certi motociclisti vestiti come nel film Easy Rider. Manichini, appunto, fuori posto ovunque: crediamo che tale sia il destino della generazione di forzati del desiderio individuale.

A proposito di rifiuto dei figli, torna in mente il brano di Cammino in cui San José Marìa Escrivà de Balaguer esalta il celibato ecclesiastico ricordando che alcuni uomini chiamati da un destino speciale possono e devono darsi sino in fondo a Dio e al prossimo. Per gli altri, la vocazione è la famiglia, il lavoro ben fatto, l’educazione personale insieme con quella dei figli. E’ dunque bandito l’egoismo come progetto di vita. Al contrario, esso diventa una bandiera postmoderna, ma i suoi colori sono quelli della nave pirata, nero con il teschio e le tibie. Si tratta infatti di un programma di morte: il pirata ha un solo scopo, prendere, sottrarre agli altri, rubare per dilapidare senza rispetto. Animus furandi, volontà di rubare la chiamava il diritto romano. L’egoista prende soltanto, e la sua condotta diventa egotismo, ovvero l’atteggiamento di chi subordina tutto a se stesso, ma inclina e si esaurisce nel solipsismo, lo sguardo fissato sul proprio ombelico.

Lo capì perfettamente Christopher Lasch, studiando le classi alte americane, dominate dal narcisismo e da una ribellione nei confronti della realtà, delle responsabilità, dai ruoli sociali, senza accettarne gli inconvenienti, ma pretendendo di goderne i vantaggi. Schiavi del successo, del denaro, dell’approvazione sociale, il loro Io diventa un’immagine rovesciata. In realtà, sono pervasi, dominati dal Sé, ossia dalla autostima smisurata, dal compiacimento esibizionista, dall’apparire. Narciso ama il suo look, cioè l’immagine, e finisce con morire di sterile amore di sé, incapace di voler bene agli altri.  Fu un Narciso del potere assoluto Luigi XV di Francia, colui che affermò “dopo di me il diluvio”.

Più modestamente, l’Homo consumens odierno non si occupa del dopo, conta solo “durante” e rimuove ogni ostacolo che si frapponga tra il desiderio e la sua realizzazione. Non sa neppure più, né gli importa, che sta distruggendo il mondo in cui si è trovato. Heidegger chiamò gettatezza (geworfenheit) la condizione ontologica umana, il fatto che ci scopriamo gettati a vivere, incapaci di assegnare un significato al percorso esistenziale. L’ideologia corrente supera, travolge il senso della gettatezza, unico scopo è la corsa, vado al massimo, come nella canzone di Vasco Rossi. Poco conta dove e perché, essenziale è rimuovere gli ostacoli, evitare gli scogli per perseguire una felicità meno che bovina. La famiglia obbliga, i genitori invecchiano, i figli devono essere accuditi. Meglio scantonare, fuggire.

Un ristorante della Città Eterna, quella che ha impartito lezioni di civiltà per millenni, espone un cartello in cui dichiara non gradita la presenza di bambini di meno di cinque anni. Nessuno ha pensato di imbastire l’indignazione a comando sui social media o le stucchevoli lezioncine politicamente corrette alla Laura Boldrini, ma siamo persuasi che analogo divieto riferito ai cani avrebbe increspato la fronte e corrugato le sopracciglia dei buoni, saggi, tolleranti democratici a gettone. Il filo si è spezzato, difficilmente potrà essere ricucito dalle generazioni presenti, il cui vero problema è l’indifferenza a qualsiasi trasmissione e legame nel tempo.

L’edonismo amorale vigente cela una curiosa volontà di potenza declinata in termini di successo individuale. Si invera l’ideale borghese di una vita depoliticizzata, lontana dallo spazio pubblico, dove alla vecchia aspirazione alla tranquillità e alla sicurezza si è sostituita l’ansia di provare sensazioni, di acquisire beni, di consumare febbrilmente, mentre la discussione infinita evita la decisione. Consumare, peraltro, significa esaurire, finire: non resta che ricominciare, magari con l’ausilio di sostanze che aumentino la forza, l’acutezza, la percezione e la trasfigurino al di là dell’umano, sogno o delirio.

Particolarmente impressionante è il ruolo femminile in questa trasmutazione antropologica, contrario esatto della trasvalutazione dei valori invocata da un Nietzsche. Più stretti i nodi del passato, più violento l’atto di scioglierli, anzi di spezzarli. Quello del rifiuto della maternità è particolarmente pesante, giacché non contraddice la storia, come sostiene il femminismo, ma la natura. Sappiamo però che è la natura il nemico principale della modernità. Stupisce, ma non meraviglia del tutto la tendenza – americana, ovviamente- delle donne dette Ginks. L’acronimo significa green inclination no kids, inclinazione verde, nessun bambino. Seguaci non sappiamo quanto consapevoli dell’estremismo ambientalista, quello che considera l’uomo il problema della natura (Gaia, La scimmia nuda, l’ecologia profonda), sostengono che per una donna la migliore scelta è rinunciare alla maternità per non alimentare l’inquinamento da sovrappopolazione. “Se ami i bambini, non metterli al mondo: sono spazzatura.”

Radicalismi di minoranze pseudo intellettuali, certo, ma il solco è tracciato. Naturalmente, ciò vale solo per l’Occidente, campione di autolesionismo giacché nel resto del mondo la popolazione cresce e le nostre preoccupazioni non sfiorano neppure la maggioranza della specie umana. Roger Scruton ha chiamato tali tendenze oicofobia, odio di se stessi, di ciò che si è, della civiltà, della cultura in cui si è nati.

Meritiamo di finire: a quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione. Somigliamo alle balene che inspiegabilmente si lasciano morire sulla spiaggia. Toglie il fiato la giustificazione virtuosa di ogni sproposito contro natura e senso comune: è un fatto di civiltà! Negare il dato di natura, l’evidenza di ciò che vede è diventata la missione dell’uomo bianco contemporaneo impegnato ad eliminare se stesso. Così l’aborto trattato come una banale asportazione di una cisti è civiltà, e normali stanno diventando la morte programmata, sposarsi tra uomini, l’utero in affitto, gli esperimenti di genetica, il poliamore, che una volta si chiamava onestamente poligamia, l’adozione di bimbi a coppie omosessuali, la procreazione zootecnica, padri e madri in numero variabile, genitori uno, due, tre. Di civiltà si muore, e il relativismo neoborghese è l’autostrada con pedaggio verso il nulla. Chiamiamo civiltà quello che ci fa comodo !

Il primo fu forse il principe Sigismondo nella Vita è sogno di Calderòn de la Barca. Infastidito dai precetti morali del buon Clotaldo, sbotta che non sono giusti, spingendosi più in là: nada me parece justo, en siendo contra mi gusto.

   ROBERTO PECCHIOLI