ILLUSIONE AUREA – di Luigi Copertino

ILLUSIONE AUREA

la storia europea degli ultimi due secoli tra inflazione e deflazione

 

Tipologie di inflazione.

Il tragico cancelliere tedesco Brüning, che governò la Germania immediatamente prima di Hitler, era convinto, al pari di molti anche oggi, che la causa dell’iper-inflazione, come quella che negli anni venti aveva colpito la sua Patria, fosse l’emissione statuale di moneta. Una convinzione questa, di chi, come Brüning, si era formato ai dogmi dell’economia classica e nella supina accettazione della teoria quantitativa della moneta, che negli anni ’30 del XX secolo si dimostrò fatale per la Germania, l’Europa ed il mondo.

L’inflazione, tecnicamente si tratta dell’aumento dei prezzi, è un fenomeno in qualche modo fisiologico ed anche corroborante per l’economia. Tuttavia se diventa iper-inflazione produce effetti distruttivi. L’iper-inflazione non è spiegabile in modo univoco e chi pretende di farlo, come ad esempio i viennesi ed i monetaristi che la connettono soltanto all’aumento della massa monetaria, finisce per impedirne una più amplia ed esatta cognizione.

La maggior disponibilità di liquidità ha come effetto collaterale la svalutazione della moneta – questo vale sia in regime di conio aureo che cartaceo – non perché, come ritengono i quantitativisti, la moneta sia una merce il cui valore dipende dalla maggior o minor quantità di essa presente sul mercato, ma perché maggior liquidità significa maggior domanda di beni rispetto ad una offerta che non riesce a soddisfarla. Questo squilibrio tra domanda ed offerta comporta l’aumento dei prezzi dei beni disponibili in misura insufficiente per, appunto, soddisfare la domanda. Si parla in proposito di “inflazione da domanda”.

Oltre che dalla domanda, l’inflazione può dipendere anche da un aumento dei costi delle materie prime che si ripercuote sui costi di produzione e quindi sui prezzi finali dei beni sul mercato. In tal caso si ha “inflazione da costi”.

Un caso particolare di inflazione da costi è quello che dipende dall’aumento, indipendentemente dalla effettiva produttività, dei salari. Va detto, però, in proposito, che trattandosi non di merce, come le materie prime, ma di lavoro umano, questo tipo di inflazione da costo salariale non può trovare giusta ed idonea soluzione mediante la facile via delle politiche di taglio del costo del lavoro quanto piuttosto con politiche di partecipazione del lavoro alla gestione ed agli utili aziendali in modo da commisurare gli aumenti salariali alla produttività, prelevando una quota dei profitti a vantaggio del lavoro, perché così facendo gli aumenti salariali non determinano un aumento dei costi di produzione ma sono fatti derivare dall’equa ripartizione del profitto tra capitale e lavoro.

Un ultimo caso di inflazione è quello dell’“inflazione da contrazione dell’offerta” che si ha soprattutto in circostanze disastrose come guerre e calamità naturali le quali contraggono la produzione o costringono, come nei passaggi da una economia di guerra ed una di pace, ad un riassestamento dell’organizzazione produttiva con inevitabili crolli della produzione prima che il sistema si riassesti su coordinate diverse dalle precedenti.

Nella concretezza della storia, i casi più noti di inflazione hanno evidenziato una contemporanea manifestazione delle sue diverse tipologie, in quanto le diverse sue cause tendono generalmente a presentarsi come concomitanti.

Proprio il caso tedesco del primo dopoguerra fu una dimostrazione di questa concomitanza dato che la Germania del 1919-23 era una nazione prostrata da una guerra tremenda, oltretutto persa, e sottoposta a sanzioni/vendetta che la costringevano a riparazioni finanziariamente insostenibili.

Questo dovrebbe indurre a sospettare di ogni spiegazione puramente “quantitativa”.

Tuttavia la memoria dell’iper-inflazione del suo primo dopoguerra, letta secondo un paradigma quantitativo, è quella che ancora oggi terrorizza i tedeschi e che è alla base del rigore finanziario imposto nell’Unione Europea dalla egemone Germania ordoliberale.

Stabilità monetaria e verifica storica. Il caso inglese.

Tra le cause dell’iperinflazione tuttavia non viene quasi mai annoverata l’ossessione per la stabilità della moneta. Può sembrare un controsenso considerare quale causa possibile dell’iperinflazione quel che dovrebbe esserne il contrario ma l’indagine storica porta a tale conclusione. Infatti è proprio l’ossessione della stabilità ad imputare esclusivamente all’emissione statuale di moneta ogni responsabilità nel generarsi dell’iper-inflazione ed a far perdere di vista non solo gli altri e più potenti fattori inflattivi ma soprattutto il pericolo reattivo della deflazione. Inflazione e deflazione si rivelano all’indagine storiografica tra esse strettamente connesse sicché spesso, a causa di errate prospettive di cognizione delle esatte cause, l’una genera l’altra e viceversa.

Quando si parla di stabilità della moneta, oggi, in regime monetario non più aureo, si pensa immediatamente all’austerità finanziaria, come quella imposta dall’UE nella crisi iniziata dal 2008. Ma un tempo, in regime monetario aureo, la stabilità della moneta era ritenuta diretta conseguenza della natura aurea della stessa o della dipendenza, con cambio fisso legalmente sancito, del simbolo cartaceo dalle riserve metalliche che, si credeva, fossero la fonte del potere d’acquisto della cartamoneta.

Lo studio delle remote cause dell’iperinflazione tedesca del primo dopoguerra consente di demitizzare la convinzione che il pericolo per la stabilità della moneta, quale sicura panacea contro l’impennata dei prezzi, sia nel potere statuale di emissione monetaria, secondo quanto viene affermato dal modello interpretativo quantitativista. La scienza economica avulsa dalla conoscenza storica non rende mai un buon servizio alla miglior cognizione degli stessi fenomeni economici.

L’indagine storica sulle cause dell’iper-inflazione germanica del 1919-23 deve partire dall’età post-napoleonica.

Durante le guerre napoleoniche, il Tesoro del Regno Unito, al fine di sostenere i costi sempre crescenti delle guerre in corso sul continente europeo, aveva contratto una notevole esposizione debitoria sia verso la Banca d’Inghilterra, detentrice dal 1694 del monopolio di emissione monetaria, sia verso altri finanziatori e speculatori non istituzionali.

L’indebitamento consentì al Tesoro di Sua Maestà Britannica maggior disponibilità di liquidità. Questa maggiore capacità di spesa  non fu certo usata per aumentare il reddito popolare ma per le spese militari. L’indebitamento dello Stato, quindi, aveva ripercussioni espansive sul mercato soltanto nel settore dell’industria delle armi e nel suo immediato indotto. In altri termini l’indebitamento dello Stato favoriva l’arricchimento dei costruttori di armi e dei fornitori dell’esercito reale.

La sempre crescente domanda di armamenti e derrate militari, resa possibile dalla maggior liquidità concessa allo Stato dalla Banca Centrale e dagli altri suoi creditori acquirenti dei titoli del debito pubblico, insieme con l’incapacità di soddisfare tale domanda da parte dell’industria bellica alle prese con le difficoltà di reperimento di materie prime e con la contrazione dell’offerta tipica delle situazioni di guerra endemica, aveva comportato un crollo del potere di acquisto della sterlina, ossia un crollo del valore della carta-moneta inglese in termini di prezzo ovvero di quantità di beni con essa acquistabili.

A quel tempo la moneta legale circolava, fiduciariamente, nella convinzione che il valore dei simboli monetari cartacei si fondasse sul Gold Standard ossia sul sistema a copertura aurea. Si riteneva, cioè, che l’unità della divisa monetaria di una Nazione venisse garantita e definita nel suo valore in base a un certo quantitativo di oro, secondo un cambio fisso legalmente stabilito. La scarsità e preziosità di questo metallo fungeva nell’immaginario collettivo da garanzia di stabilità della moneta cartacea ed induceva tra gli economisti classici lo strabismo per il quale essi furono portati a considerare emissioni monetarie cartacee sovrabbondanti la quantità di oro della riserva come la causa dell’inflazione ovvero dell’aumento dei prezzi. L’errore degli economisti classici stava infatti nel considerare la moneta una merce. Essi non si rendevano conto che la moneta non era stata, in realtà, una merce neanche in regime di diretto conio aureo, dato che non c’è moneta solo perché c’è una certa quantità di oro senza, tuttavia, l’accettazione fiduciaria consacrata dall’atto di garanzia sovrano del conio. Laddove esiste solo oro, che si scambia contro altre merci, siamo ancora in una economia di baratto e non in una economia monetaria.

Che la moneta fosse stabile perché coperta da quantità corrispondenti di oro era, per lo più, una pia illusione dato che l’emissione di cartamoneta, senza che in tempi di normalità ciò inducesse inflazione, avveniva puntualmente – per le necessità endogene dello Stato e del mercato – in misura sovrabbondante rispetto alla riserva aurea presuntivamente posta a garanzia del potere di acquisto della carta. La convinzione, per quanto concettualmente errata, tuttavia funzionava perché placava le ansie dei detentori di liquidità cartacea. Nessuno aveva ancora compreso che il potere d’acquisto della cartamoneta dipende dalla reciproca fiducia ossia dalla tacita e consuetudinaria convenzione sociale, consacrata dall’Autorità politica mediante il corso forzoso, che fa sì che, in regime di fiat money, chiunque accetta carta contro beni non per la copertura aurea del simbolo cartaceo ma sul presupposto che tutti gli altri facciano altrettanto.

Ma, come si è detto, la convinzione “quantitativista” funzionava nonostante l’erroneità dei suoi postulati e fondamenti, sicché nell’età immediatamente post-napoleonica, della quale stiamo trattando, i creditori possessori di titoli del debito inglese non furono più disposti ad accettare le perdite di valore dei loro risparmi causate dall’inflazione generatasi a seguito delle guerre europee, ormai finite, ma che essi ritenevano dipendere dall’eccesso di emissioni monetarie e di titoli di debito sovrano. Ribadire un più stretto collegamento della sterlina all’oro sembrò la soluzione migliore per gli interessi dei creditori.

Il ragionamento era questo: dato che la limitazione naturale dell’offerta di oro garantisce valore stabile alla sterlina e rende difficile la sua svalutazione, bisogna che le Autorità o aumentano il quantitativo di riserve auree oppure, cosa certamente di più facile attuazione, contraggano la quantità di circolante per riportarla in misura proporzionale all’effettiva consistenza dell’oro depositato presso la Banca centrale emittente. Naturalmente corollario di questo ragionamento era che il circolante da ridurre, attraverso l’aumento della pressione fiscale e tagli alle spese statuali,  fosse quello, per quanto poco, in disponibilità del popolo, e non certo quello che rappresentava il corrispettivo del credito vantato dagli speculatori, ossia capitale ed interessi maturati sull’esposizione debitoria dello Stato. Fu così che il Gold Standard venne rinforzato in Inghilterra dopo il Congresso di Vienna.

La teoria monetaria quantitativista guardava infatti la questione dal punto di vista degli interessi dei creditori preoccupati che il valore della cartamoneta da essi posseduta, in forma di divisa monetaria o di titoli del debito pubblico, non fosse eroso dall’inflazione. Nessuna considerazione circa il fatto che la deflazione aurea comportava una inevitabile limitazione del livello dell’attività produttiva a causa della limitazione della quantità di oro esistente in natura. L’applicazione dei paradigmi della teoria quantitativa da un lato deprimeva l’attività economica, impedendo la crescita dell’occupazione e migliori condizioni di vita per le classi subalterne, e dall’altro spingeva le nazioni europee alla ricerca di oro, e di materie prime in genere utilizzabili nell’industria o tesaurizzabili nel cambio aureo, ossia alla colonizzazione manu militari del resto del mondo. Il dogma ufficiale della scienza economica dell’epoca imponeva sacrifici umani sull’altare del Moloch monetario e della sua stabilità ritenuta dipendente dall’oro. Il dogma funziona ancora oggi anche se è venuto meno il Gold Standard perché esso è stato sostituito, a partire dalla rivoluzione neoliberista degli anni ’80 del XX secolo, dall’austerità finanziaria. Quel che preme, ieri come oggi, come si è visto nel caso del massacro finanziario della Grecia nel 2015, è sempre e soltanto l’interesse, intoccabile, dei creditori che sono quasi sempre gli speculatori.

Nell’Inghilterra del XIX qualcuno provò sommessamente a modificare la dogmatica quantitavista proponendo l’argento al posto dell’oro quale sottostante della cartamoneta. Si sostenne, da più parti, che onde evitare gli effetti deflazionisti, e socialmente deleteri, del Gold Standard sarebbe stato meglio ancorare la sterlina all’argento, ossia ad un metallo di maggior disponibilità in natura e più facile da estrarre dalle miniere. Altri sostennero il sistema bimetallico, ad un tempo aureo ed argenteo. L’intenzione era chiaramente quella di aumentare la massa monetaria, quindi la liquidità, disponibile per scopi produttivi e di generale beneficio, ma, come è evidente, si trattava di tentativi, per quanto nobili nelle intenzioni, tutti pensati all’interno del paradigma quantitativista che faceva dipendere il potere d’acquisto della cartamoneta dalla riserva di un qualche metallo prezioso.

La Germania: una nazione emergente alle prese con la stabilità monetaria.

Negli Stati Uniti vi fu persino uno scontro politico tra i mono-metallisti ed i bi-metallisti favorevoli, questi ultimi, al dollaro d’argento. Ma, mentre ci si accalorava intorno a quale metallo, l’oro o l’argento, dovesse essere preso a garanzia della cartamoneta, tra il 1850 e il 1870 la scoperta di nuove e ricche miniere di metallo giallo aprì quella che i successivi film western hanno immortalato come la corsa all’oro. Nel giro di vent’anni la produzione di oro pareggiò l’intera quantità di oro estratto nei precedenti tre secoli. Il sistema del Gold Standard ne risultò avvantaggiato finendo per essere adottato legalmente in tutti i Paesi occidentali.

Negli stessi anni della corsa all’oro, la Germania di Bismarck – la vittoria tedesca di Sedan sulla Francia di Napoleone III è del 1870 (1) – si avviava a diventare il Secondo Reich dando inizio all’età guglielmina. Epoca che, sconfitta militarmente la concorrenza francese, fu per i tedeschi una età di rampante sviluppo industriale ed anche di riforme sociali – le prime basi di Welfare furono impiantate dal conservatore Bismarck – sicché, egemone ed universalmente accettato il Gold Standard, diventò conseguenziale per la Germania ambire a una moneta forte collegata all’oro.

Sconfitti sul campo, i francesi furono costretti a pagare enormi riparazioni di guerra. Le quali, in ossequio al regime monetario aureo, furono stabilite direttamente in oro. Circa cinquant’anni più tardi la Francia avrebbe reso la pariglia alla Germania, sconfitta nel 1918, imponendole esosissime riparazioni belliche – per il loro ammontare esse contemplavano l’ultima rata non prima del 1960 – da pagare in franchi o sterline (2).

Ai tempi di Sedan, quindi, la concomitanza dell’aumento dell’offerta di oro nel precedente ventennio con l’euforia della vittoria, e delle conseguenti sanzioni imposte alla Francia sconfitta, spinsero la Germania adottare una moneta forte come quella inglese ancorata all’oro lasciando cadere ogni altra ipotesi di coniazione su base argentea o di bimetallismo. Nel 1873 la Germania adottò ufficialmente il Gold Standard.

Il Reich guglielmino pose fuorilegge le monete d’argento da un giorno all’altro. Il conio in argento improvvisamente non ebbe più corso legale. La prima immediata conseguenza di questa decisione fu un aumento di offerta di argento sui mercati – detto metallo era ora reso disponibile per altre finalità immediatamente commerciali e non più vincolato al conio – che fece crollare il suo prezzo provocando contestualmente una notevole rivalutazione delle valute a copertura aurea. Questa rivalutazione diventò un grave problema, sul mercato dei cambi, per quei Paesi, come Francia ed Italia, rimasti al sistema bimetallico.

Nello stesso anno, 1873, nel quale la Germania adottava il Gold Standard anche gli Stati Uniti abbandonarono il bimetallismo oro-argento, adottato dai tempi di Alexander Hamilton, ed emanarono il Coinage Act che stabiliva la base aurea della coniazione del dollaro.

Il processo di standardizzazione aurea della coniazione assunse ben presto carattere generale tanto che alla fine degli anni settanta del XIX secolo soltanto l’India e la Cina, che erano colonie, dipendevano ancora dall’argento. Tutti le nazioni occidentali avevano ormai adottato il Gold Standard dando vita, in un lasso di tempo esiguo, ad un nuovo sistema monetario internazionale basato sull’oro.

La Grande Deflazione del 1873. Le prime critiche al Gold Standard.

La storia dell’economia annovera, proprio a partire dal 1873, e non casualmente, una delle più grandi recessioni mai registratesi, che secondo alcuni fu la premessa senza soluzioni di continuità della Grande Depressione del 1929. La concomitanza tra l’adozione generale del Gold Standard e la recessione del 1873 evidenzia uno stretto collegamento tra il sistema monetario a base aurea  e l’insorgere della deflazione.

Dal 1870 la produzione di oro aveva iniziato a flettere. Essa non cresceva più ai ritmi del ventennio precedente e non era in grado di mantenere un passo pari allo sviluppo industriale e commerciale internazionale. La scarsità di oro a livello mondiale fu determinata anche dal sempre crescente accumulo di riserve auree da parte degli Stati Uniti che avevano un continuo surplus nella loro bilancia dei pagamenti ossia esportavano a man bassa incamerando valuta a copertura aurea. Il 7% delle riserve auree mondiali era posseduto a fine 1879 dal Tesoro statunitense. Un ammontare che nel 1890 già raggiunse il 20%. In presenza di una offerta mondiale di oro sostanzialmente stazionaria era evidente che l’accumulo aureo americano coincideva con una perdita di riserve in qualche altra parte del mondo.

Si era creata una situazione abnorme per la quale la mancanza di aumento dello stock monetario, causato dalla carente offerta mondiale di oro, non sosteneva il volume crescente della produzione industriale. La conseguenza fu la deflazione. I prezzi, tanto delle materie prime che dei prodotti industriali, iniziarono a diminuire drasticamente avvitando al ribasso anche i livelli salariali.

Nel periodo 1875-1895 la diminuzione dei prezzi registrò una media dell’1,7% all’anno in America e dello 0,8% in Inghilterra. La fase più acuta della deflazione durò sessantacinque mesi, dall’ottobre del 1873 al marzo del 1879. Ma la ripresa stentò tra timidi rialzi e nuovi forti ribassi, un po’ come sta accadendo oggi nell’eurozona. Nel 1882, dopo una lieve risalita, i prezzi tornarono a diminuire per altri trentotto mesi. Se si pensa che il crack deflattivo del 1929 ebbe una durata di quarantatré mesi può ben comprendersi la maggior gravità della deflazione tardo-ottocentesca.

La Germania guglielmina risentì più di altri della deflazione internazionale. Ciononostante nessuno mise in dubbio in Europa, né in Germania né altrove, la validità del Gold Standard e si dovette aspettare la prima metà del XX secolo affinché il tallone aureo, benché riaffermato nel 1944 a Bretton Woods, iniziasse ad essere scientificamente criticato ed il 1971 affinché esso fosse definitivamente superato.

Invece negli Stati Uniti la discussione intorno al Gold Standard non cessò mai. Esso fu accompagnato da accanite polemiche sia all’atto della sua adozione sia successivamente. In America, immediatamente dopo l’adesione allo standard aureo, nacque il Greenback Party, un movimento politico che, polemizzando con la scienza economica ufficiale, indicava quale misura anti-deflazionista l’emissione di dollari cartacei garantiti dallo Stato e senza base aurea. Abramo Lincoln, sotto la spinta delle necessità belliche imposte dalla Guerra di Secessione del 1871-75, realizzò la proposta sebbene per un breve lasso di tempo.

Ezra Pound nei suoi “Cantos” ricorda il giovane candidato democratico alle elezioni del 1896 William Jennings Bryan. Più giovane di Matteo Renzi, aveva solo 36 anni, vinse le primarie del Partito Democratico sposando il bimetallismo e più tardi il biglietto di Stato. «Non si può continuare a imporre – affermava arringando le folle contro il Gold Standard – sulle spalle dei lavoratori questa corona di spine. Non si può crocifiggere l’umanità con una croce d’oro». Pur vincendo per tre volte le primarie non riuscì mai a conquistare la Casa Bianca. Diventato ministro degli esteri sotto la presidenza di Woodrow Wilson fu costretto a dimettersi in polemica con la politica interventista del suo Presidente favorevole a portare gli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale a fianco delle potenze dell’Intesa.

Come sovente accade nelle vicende umane si va a caccia di untori per non vedere le vere responsabilità dei mali incipienti sull’umanità. Così, mentre negli Stati Uniti il dibattito pro o contro il Gold Standard infiammava gli animi, la scienza ufficiale non riusciva o non voleva individuare le cause della “Lunga Depressione” del 1873/1879-1895/1900 nel sistema monetario a base aurea, che era diventato una gabbia deflazionista. Prendevano, in tal modo, facilmente piede le spiegazioni che, sulla base di uno stretto rapporto che da sempre in effetti sussiste tra ambito teologico ed ambito monetario in particolar modo nell’ebraismo postbiblico, chiamavano in causa presunte cospirazioni. E’, non a caso, del 1879 la pubblicazione in Germania del pamphlet di Wilhelm Marr dal titolo “La vittoria del giudaismo sul germanesimo”. Partiti dichiaratamente antisemiti, benché minoritari, fecero il loro ingresso nel 1893 al Reichstag. La cosa più ridicola, ma intrinsecamente tragica, era che a cavallo tra XIX e XX secolo, complici gli errori della scienza economica ufficiale del tempo, in Europa, ed in particolare in Germania, si temeva l’inflazione galoppante mentre imperversava una deflazione micidiale. Ma nessuno voleva mettere in discussione il Gold Standard ritenuto garante della stabilità monetaria.

La svolta drammatica del primo conflitto mondiale. La Grande Inflazione tedesca.

Il Gold Standard aveva però ormai fatto il suo tempo e, alla vigilia del primo conflitto mondiale, era tenuto in vita soltanto dalla pigrizia intellettuale sia degli economisti sia dei politici e dell’opinione pubblica. Esso entrò in crisi proprio con gli eventi bellici del 1914-18. Nel ventennio successivo il Gold Standard fu, a più riprese, da diversi Stati prima abbandonato, poi riassunto, quindi, con la crisi del 1929, di nuovo derogato ed infine, contro i suggerimenti di John Maynard Keynes e di altri economisti eterodossi, di nuovo consacrato a Bretton Woods nel 1944 ma non tanto per le sue intrinseche virtù di stabilizzazione monetaria, alle quali ormai nessuno più credeva, quanto per garantire l’egemonia internazionale del dollaro americano quale valuta di riserva del sistema monetario occidentale.

Nell’immediato primo dopoguerra, dal 1919 al 1923, la Germania fu travolta dalla grande iper-inflazione il cui ricordo ancor oggi scuote i tedeschi, troppo dimentichi invece della grande deflazione del 1930-33 che portò all’ascesa ed all’affermazione del nazismo. A partire dal 1919 i prezzi raddoppiarono per poi triplicare nel 1920. Nel 1921 ci fu una momentanea frenata ma già nel 1922 essi tornarono ad accelerare con un tasso di inflazione pari al 1.600%. Nel 1923 il marco perse ogni potere di acquisto ed i prezzi salirono del 486.000.0000%. Per comprendere la cosa basta pensare che se nel 1913 un dollaro era scambiato con 4,2 marchi, nel 1923 per un dollaro occorrevano 4,2 miliardi di marchi. Nel 1922-23 i prezzi raddoppiavano ogni 3 giorni.

A Versailles le potenze vincitrici, Francia ed Inghilterra, misero in scena non la pace ma la vendetta. Il trattato che la Germania fu costretta a firmare prevedeva riparazioni di guerra, in valuta franco-inglese, talmente esose che anche un bambino avrebbe compreso l’impossibilità di onorarle senza mandare in malora la nazione. Keynes lasciò il tavolo delle trattative polemizzando con il proprio governo per l’immoralità degli alleati e – inascoltata Cassandra – profetizzando, in un libro scritto per l’occasione, il futuro revanscismo tedesco.

Già durante la guerra la Germania, come tutti i Paesi belligeranti, aveva finanziato lo sforzo bellico ricorrendo sia all’indebitamento sia all’emissione di nuova moneta. Alla fine del conflitto, e con l’inizio del riassestamento dell’industria per il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace, le entrate fiscali crollarono a causa della forte contrazione della produzione che si accompagnò ad una ingente disoccupazione provocata dallo scioglimento dell’esercito e quindi dal ritorno alla vita civile di una gran massa di manodopera che, in quelle condizioni, l’apparato industriale tedesco non era in grado di assorbire. La politica miope delle riparazioni militari da pagare in franchi e sterline, ossia cambiando il marco in valuta estera iper-valutata, fu benzina sul fuoco già divampante. Né gli alleati dimostrarono non diciamo misericordia ma perlomeno ragionevolezza quando fu chiaro che la Germania non avrebbe mai potuto soddisfare le loro pretese. Francia ed Inghilterra, di fronte al marco svalutato, pretesero il pagamento delle riparazioni direttamente in oro e accertata ben presto, come era prevedibile, anche l’impossibilità di tale via decisero l’occupazione militare della Ruhr, la Valle del Reno, sede delle maggiori industrie tedesche che furono poste a servizio dell’economia franco-inglese.

Nel tentativo di trovare il denaro necessario alle riparazioni di guerra ed a fronteggiare le altre conseguenze del conflitto, il Governo tedesco inasprì da un lato il prelievo fiscale e dall’altro l’emissione di titoli di debito pubblico a breve scadenza. Nell’esercizio finanziario 1919 le entrate ordinarie ammontarono approssimativamente a 11 miliardi, mentre, dal lato delle uscite, la sola voce “servizio del debito”, ossia gli interessi, assorbì 8,4 miliardi. La residua quota di 2,6 miliardi di entrate fiscali non risultava sufficiente per i fabbisogni di bilancio e per questo si ricorse al debito allo scopo di finanziarie le altre uscite causate dalla guerra ossia quelle relative alla smobilitazione, all’assistenza alle vittime belliche, alle imposte riparazioni, alle diverse misure di sostegno all’economia. Alla fine dell’esercizio finanziario del 1919, l’indebitamento a breve era salito a 91,6 miliardi, con una crescita di oltre 40 miliardi rispetto al livello del novembre 1918. Nell’anno successivo lo stesso debito a breve salì a 166,3 miliardi e, infine, nel 1922 si fissò a 271,9 miliardi. La situazione cominciò veramente a precipitare nel settembre 1922. La spesa pubblica, per via delle riparazioni e delle conseguenze postbelliche della guerra appena finita, salì alle stelle in brevissimo tempo. La sua copertura con le entrate fiscali era sempre più ristretta mentre aumentava quella derivante dalla contrazione del debito statale. Il ricorso al credito, perciò, toccò livelli, espressi in marchi-carta, fino a quel momento sconosciuti.

Il costo della vita aumentava molto più di salari e stipendi. Gli stipendi dei funzionari crescevano meno dei salari degli operai. Il ceto medio era quello che rischiava di più in termini di progressiva pauperizzazione. E’ stato notato, sia dagli economisti sia dagli storici, che, nonostante le proibitive condizioni nelle quali versava la Germania tra il 1919 ed il 1923, l’iperinflazione comportò il riassorbimento della disoccupazione. I momenti di maggior inflazione furono quelli di maggiore occupazione che tuttavia si accompagnarono alla proletarizzazione della classe media. I momenti di parziale rallentamento dell’inflazione invece, pur salvaguardando la ricchezza, comportarono nuove contrazioni dell’occupazione. L’accresciuta immissione di liquidità comportava, a causa delle aspettative inflazionistiche, una spinta verso l’alto della domanda ma l’offerta, stante le difficoltà dell’apparato produttivo, non riusciva a soddisfare la domanda di beni per i possessori di liquidità, ossia proprio i lavoratori, in cerca di rifugio dall’inflazione. La velocità di circolazione della moneta era aumentata inverosimilmente perché funzionari ed operai, in previsione di ulteriori aumenti di prezzi nei giorni successivi, cercavano di spendere immediatamente, lo stesso giorno della paga settimanale, lo stipendio, senza peraltro riuscirvi sia per la scarsità di beni sia per i prezzi sempre più alti degli stessi. A fronte dell’aumentata domanda l’industria rispondeva tentando la rincorsa dal lato dell’offerta ossia aumentando la produzione, per quanto gli alti costi delle materie prime lo consentissero, e quindi assorbendo disoccupazione ma a bassi salari.

Questo sta a dimostrare due cose.

La prima è che vi è un nesso chiaro ed evidente tra inflazione e domanda, sicché la prima è spesso dovuta alla seconda ovvero a maggior disponibilità di liquidità che spinge in alto la domanda. Non pertanto al mero deprezzamento di una supposta moneta-merce.

La seconda è che se un eccesso di inflazione, nonostante il tendenziale pieno impiego, porta alla pauperizzazione generalizzata, al contrario, la deflazione, nonostante faccia aumentare la ricchezza per i ceti alti, porta all’esplodere della disoccupazione, o della sottoccupazione, generale. In entrambi i casi si ha instabilità politica e sociale.

Iper-inflazione germanica: una narrazione distorta.

Il debito pubblico del Reich raggiunse in poco tempo livelli astronomici e l’inflazione tedesca assunse un carattere assolutamente eccezionale. La vulgata  narra che l’iperinflazione germanica fosse causata da una eccessiva stampa di moneta da parte del Governo. Si tratta di una narrazione a  supporto della tesi quantitativista e monetarista per la quale la via per ottenere una sicura iper-inflazione è quella di lasciare ai governi la creazione o il controllo della moneta.

La leggenda, dunque, vuole che nella Germania del primo dopoguerra fossero il Governo e la Reichsbank a stampare cartamoneta a gogò, nel tentativo di far fronte alle riparazioni imposte dalla “vendetta” delle potenze vincitrici. Invece la realtà storica ci racconta un’altra verità. La stampa di moneta non era governativa ed ovunque venivano stampate banconote succedanee di quella statale, aumentandone la velocità di circolazione dell’intera massa monetaria. Un testimone di prima fila ossia Hjalmar Schacht (3), all’epoca Governatore della Reichsbank, nelle sue Memorie narra l’iper-inflazione del primo dopoguerra in modo alquanto diverso dalla vulgata.

Stando alla sua narrazione, di testimone oculare dei fatti, nel maggio del 1922 gli alleati vincitori della guerra, preoccupati dal fatto che il Gold Standard impedisse alla Banca Centrale tedesca di stampare quantità di marchi sufficienti per pagare, al tasso di cambio vigente, le riparazioni di guerra imposte a Versailles, insistettero per la privatizzazione, sotto tutela straniera, della Reichsbank, con il mandato per quest’ultima di dare mano libera alle banche private nella creazione di moneta. La moneta di creazione privata, che ben presto giunse a superare la metà di tutto il circolante, veniva convertita automaticamente dalla Reichsbank in Reichsmarks “a richiesta”.

In altri termini la moneta bancaria privata veniva monetizzata in marchi di Stato per pagare le riparazioni di guerra. La speculazione, poi, si inseriva in questo sporco gioco scommettendo sul crollo della valuta tedesca.

Sul finire del 1923 proprio Schacht fu nominato Governatore della Reichsbank. Egli immediatamente pose termine alla conversione su richiesta di marchi creati dalle banche private in Reichsmark bloccando, tra l’altro, la domanda speculativa di prestiti con la finalità di scommettere sull’ulteriore caduta del marco. Come secondo atto Schacht creò una nuova moneta legale, il Rentenmark, non convertibile in valuta estera. Con il Rentenmark in pratica si ripartiva da zero proprio perché il vecchio marco non aveva più alcun valore essendo venuta meno ogni fiducia in esso a causa dell’innalzamento inusitato dei prezzi.

Fatto significativo, però, fu che Schacht, al fine di rifornire il sistema di sufficienti mezzi di pagamento a valore stabile, prese come riferimento i beni reali in modo da consentire la conversione del nuovo denaro in valori diversi dall’oro. Veniva meno il feticismo aureo della moneta, benché non ancora nella chiara consapevolezza della natura fiduciaria e legale/convenzionale del suo potere d’acquisto. Nell’ottobre 1923, infatti, fu creata la Rentenbank con un capitale garantito per metà dall’agricoltura (attraverso debiti ipotecari) e per metà dalle banche, dalle industrie e dal commercio (mediante obbligazioni). Tale banca era autorizzata a operare sia come istituto di emissione, sia come istituto di credito. Quale istituto di emissione fu autorizzata a emettere “Rentenmark” (marchi-rendita) garantiti da cartelle che la banca emetteva sui crediti fondiari e mobiliari e che vennero considerati mezzi legali di pagamento. Il 20 novembre 1923 il rapporto Rentenmark – Marco carta fu fissato in uno a mille miliardi.

L’emissione dei nuovi biglietti riuscì pienamente, tanto che nell’ottobre 1924 la Rentenbank venne posta in liquidazione in quanto aveva assolto al suo compito: promuovere una rinascita di fiducia nella moneta tedesca. Il risultato quindi fu immediato: gli speculatori finirono con le ossa rotte e l’iperinflazione si fermò. Quest’ultima non era pertanto addebitabile all’eccessiva stampa di moneta da parte della Banca Centrale dello Stato ma piuttosto alla combinazione letale delle riparazioni di guerra eccessive e della massiccia creazione di moneta da parte del sistema bancario privato, con un Istituto centrale di emissione, in mano a privati speculatori ed alle potenze straniere, ridotto a istituto di riciclaggio del denaro di emissione privata.

Dalla Grande Inflazione alla Grande Deflazione.

L’inizio del 1924 fu per i tedeschi la fine di un incubo. Ma proprio in quei giorni un giovane militante di un partito-setta sconosciuto ai più, arrestato nel novembre, stava scrivendo in carcere un libro con il quale sistematizzava le sue idee. Quel libro sarebbe stato conosciuto con il titolo di “Mein Kampf” ed il suo autore era un certo Adolf Hitler.

Perché qui, infatti, inizia un’altra fase della tormentata storia tedesca tra le due guerre mondiali.

Sempre secondo la corrente vulgata a spianare la strada al nazismo sarebbe stata l’iper-inflazione degli anni venti. Questa vulgata serve per far credere all’opinione pubblica che bisogna evitare di ripetere l’errore di allora tentando di risolvere le crisi economiche attuali ricorrendo all’aiuto della Banca Centrale. L’ortodossia anti-inflazionistica che i tedeschi hanno imposto a tutta l’Unione Europea trova in questo argomento pseudo-storico il suo principale fondamento.

Ma si tratta, appunto, di un argomento pseudo-storico perché le vicende storiche parlano di altri scenari. Dopo l’iperinflazione degli anni venti, risolta come si è visto pocanzi, l’economia tedesca supportata dai due Piani di aiuti americani, il Piano Dewis ed il Piano Young,  e dalla pressione statunitense affinché Francia ed Inghilterra rateizzassero a lungo termine il debito di guerra tedesco, ebbe una ripresa di notevoli dimensioni. Fino al 1929. Quando il crack economico d’oltreoceano  interruppe gli aiuti americani, fece defluire i capitali statunitensi dalla Germania, e riacutizzò le pressioni dei paesi creditori tornati ad esigere ora u subito le riparazioni di guerra.

Negli anni trenta per affrontare la nuova crisi il cancelliere Brüning perseguì una politica monetaria e fiscale iper-restrittiva. Fu l’haushalt, l’austerità. Con conseguenze devastanti: la Germania si inabissò in una gravissima deflazione mentre la disoccupazione di massa dilagò. Fu questa miscela letale di salari bassi e disoccupazione di massa – conseguenza diretta delle politiche deflazionistiche del cancelliere Brüning – ad aprire la strada al partito di Hitler, che fino a quel momento era niente più che una setta dedita a culti esoterici arianosofici con scarso seguito militante. Non dunque l’iperinflazione degli anni venti.

Mentre la disoccupazione raggiungeva e superava la fatidica cifra dei sei milioni – sembra proprio che questa cifra, sei milioni, sia per la Germania sempre fatale, che si tratti del numero dei disoccupati della Repubblica di Weimar o del numero delle vittime ebree del genocidio nazista – il consenso elettorale del Partito Nazionalsocialista passò dal 2,6% del maggio 1928 al 34,7% del luglio 1932.

Negli anni trenta del secolo scorso, la scelta di politiche di austerità – le stesse che proprio i tedeschi oggi, direttamente per mezzo degli organi istituzionali europei ed indirettamente per mezzo della loro influenza all’interno della BCE,  hanno imposto ai Paesi della periferia europea – portò alla disoccupazione di massa e alla catastrofe del nazismo.

I vigenti trattati europei vietano il “monetary financing”, il finanziamento diretto degli Stati da parte della BCE, ed è per questo che Mario Draghi per attuare il Quantitative Easing ha dovuto ricorrere al mercato secondario ossia all’acquisto di titoli del debito pubblico, dei Paesi europei in difficoltà, sul normale mercato dei titoli, come può fare qualsiasi banca commerciale, e non all’atto dell’emissione primaria di quei titoli. I trattati però esistono per essere cambiati. Sicché non sta scritto da nessuna parte che tra gli obiettivi della BCE, piaccia o non piaccia ai tedeschi immemori della loro storia, alla stabilità monetaria non si possa aggiungere anche la piena occupazione.

I Paesi dell’area della sterlina (sterling bloc) nel 1931 uscirono dal Gold Standard e poterono così perseguire politiche esplicitamente espansionistiche-inflazionistiche per fronteggiare le disastrose conseguenze del Grande Crack di Wall Street. Lo stesso fece l’Italia fascista, benché a modo suo e  senza formalmente uscire dal Gold Standard ma derogandovi silenziosamente al fine di supportare l’intervento economico dello Stato nel salvataggio delle imprese nazionali mediante l’IRI. Non possiamo sapere come sarebbe andata la storia se la Germania avesse praticato politiche inflazioniste o fosse uscita dal Gold Standard ma le ricerche di storia dell’economia portano a supporre che probabilmente sarebbe andata in modo diverso e che, forse, il partito nazista sarebbe rimasto quell’oscura ed insignificante setta neopagana che, prima della grande deflazione, esso era.

A noi, “euro-schiavi” del XXI secolo, non resta che sperare che, quando nel 2019 la BCE tornerà ad essere governata da un tedesco, non sia solo la memoria della Grande Inflazione ma soprattutto quella della Grande Deflazione ad ispirare la politica monetaria europea.

Anche se qualcosa ci dice che si tratta di una vana speranza e che alla fine potremmo consolarci solo con la deflagrazione dell’eurozona e della stessa Unione Europea alla quale porterà la politica monetaria restrittiva che la Germania imporrà alla BCE.

Mal comune mezzo gaudio. E solo allora, forse, si potrà ripartire.

 

Luigi Copertino

 

NOTE

1) La prospettiva che un Hohenzollern, anche se cattolico, salisse sul trono di Spagna era, per diverse ragioni, inaccettabile per la Francia di Napoleone III. Quando l’ambasciatore francese rese noto a Guglielmo I di Prussia che il suo Imperatore poneva il veto alla designazione in questione, per la successione sul trono ispanico, ottenne una risposta chiara: la Prussia perseguiva i propri interessi anche se questo dispiaceva alla Francia. Il 1 agosto 1870 l’esercito di Napoleone III iniziò l’offensiva bellica ma, con grande sorpresa dell’Europa intera, nel giro di pochi mesi l’esercito prussiano arrivò a Parigi mentre l’Imperatore dei francesi fuggiva per sempre, ponendo fine al Secondo Impero. Guglielmo I, a sfregio, organizzò la propria incoronazione imperiale nella stanza degli specchi di Versailles. A quel punto le basi del revanchismo francese, che avrebbe fortemente contribuito ad innescare l’incendio del primo conflitto mondiale, erano già tutte poste.

2) Questo costrinse la Germania ad acquistare, ad un cambio sfavorevole, le divise monetarie delle sue rivali e quindi a stampare marchi in misura incontrollata, con le sopra citate conseguenze inflattive non causate, però, direttamente dalla quantità di marchi quanto dall’incapacità dell’apparato produttivo tedesco, prostrato dalla guerra ed in fase di riassestamento, a soddisfare l’aumentata domanda ossia la corsa dei tedeschi agli acquisti durevoli per sbarazzarsi della moneta nazionale prima dei successivi aumenti di prezzo dei beni.

3) Si tratta dello stesso banchiere centrale che, più tardi, avrebbe reso possibile, inventando una sorta di cambiale di Stato ad uso degli industriali, ossia iniettando liquidità nel sistema, il “miracolo” del decollo hitleriano dell’economia tedesca nel 1934, portando la Germania fuori dalla deflazione e riassorbendo la disoccupazione di massa. Per questo fu processato e condannato a Norimberga, benché, dopo la condanna, rimesso in libertà relativamente presto.