Il cardinale Piacenza: “Un giovane che chiede al prete di confessarsi compie un atto rivoluzionario”

di Domenico Agasso (Vatican Insider)

Un ragazzo «credente, oggi, è il vero anti-conformista». Un giovane che «chiede al suo prete di confessarsi compie un atto rivoluzionario», perché «riconosce l’insufficienza del mondo a rispondere alle domande». Lo afferma il cardinale Mauro Piacenza, penitenziere maggiore, nella prolusione del convegno «Confessione, giovani, fede e discernimento vocazionale».

 

L’incontro prende avvio oggi, giovedì 26 aprile, alla «Sala dei Cento Giorni» del Palazzo della Cancelleria, e durerà fino a domani.

 

Con lo sguardo rivolto alla prossima assemblea generale del Sinodo dei vescovi di ottobre, la Penitenzieria apostolica intende fornire il proprio contributo alla riflessione che in questi mesi coinvolge tutta la Chiesa, richiamando e approfondendo il ruolo centrale del sacramento della Riconciliazione nella vita spirituale e nel discernimento dei giovani cristiani.

 

Ci saranno anche due testimoni che hanno vissuto in prima persona un’esperienza di conversione e di chiamata da parte di Dio e che racconteranno anche dell’importanza del sacramento della Riconciliazione nella loro vita.

Chiuderà i lavori monsignor Krzysztof Nykiel, reggente della Penitenzieria apostolica.

 

Piacenza ricorda che «lo scorso 9 marzo, ricevendo in Udienza proprio questa Penitenzieria Apostolica, il Santo Padre ha affermato: “Occorre saper ascoltare le domande, prima di offrire le risposte. Dare risposte, senza essersi preoccupati di ascoltare le domande dei giovani […] sarebbe un atteggiamento sbagliato”». Con questa indicazione «di percorso, Papa Francesco ha tracciato la via del rapporto tra penitente e confessore, soprattutto nella riconciliazione sacramentale dei giovani, mostrando come l’individuazione delle domande fondamentali della persona umana, ancora non del tutto ridotte ed annichilite nel cuore dei giovani, costituiscano una via privilegiata del cammino di evangelizzazione e perfino del cammino sacramentale».

 

Il Porporato osserva che «gli adulti, noi adulti, stiamo consegnando ai giovani un “mondo rovesciato”, rispetto all’esperienza che noi abbiamo vissuto. La condizione giovanile, per sua stessa natura, è spalancata alla grande prospettiva esistenziale di una vita “tutta da vivere” e da costruire. A tale condizione corrispondeva, anche solo qualche decennio fa, una altrettanto positiva prospettiva sociale, che permetteva alle nuove generazioni di poter ragionevolmente ipotizzare un futuro costruttivo e fecondo, nel quale realizzare le proprie più profonde aspirazioni».

 

A livello sociale, poi, «è necessario rilevare come, nella prima metà del secolo scorso, l’intera vicenda pubblica e sociale era detenuta dagli adulti e che, soprattutto dopo la rivoluzione del ’68, che ha avuto molti ed anche tragici limiti, si è vissuto tuttavia un certo protagonismo anche dei giovani: essere giovani era un vantaggio, non solo a livello anagrafico ed esistenziale, ma anche a livello sociale».

 

Oggi, «dobbiamo riconoscerlo, non è più così. Non sono i nostri giovani a determinare il clima del vivere sociale, anzi sono costretti a subirlo e spesso ad integrarne le negatività».

 

Per il cardinale Piacenza «il giovane credente, oggi, è il vero anti-conformista. L’anti-conformismo radicale, che ha vibrato, con toni spesso violenti, nella Rivoluzione sociale e culturale del 1968, oggi è stato completamente normalizzato dal consumismo borghese, che continua a proclamarsi appartenente a quella tradizione culturale, ma che, nei fatti, nulla vive di una idealità realmente comunionale, autonoma e capace di condividere fino in fondo l’esistenza».

 

Per ragioni «non solo numeriche, ma anche e soprattutto culturali e ideali, essere cristiano oggi, per un giovane, è cosa profondamente anticonformista, quasi al limite di essere considerato naiv, e radicalmente controcorrente».

 

E in un ambito culturale, «nel quale la parcellizzazione dell’io, chiamato ad interfacciarsi più con gli strumenti dei social che con le persone, determina un restringimento dell’orizzonte di interesse, che, non di rado, va poco oltre la propria ristretta ed utilitaristica cerchia, il giovane cattolico, inserito in una comunità, in un’associazione o in un movimento, respira il respiro stesso della Chiesa ed è chiamato costantemente a dilatare il proprio orizzonte e a sottrarsi ai condizionamenti che la cultura dominante ossessivamente impone».

 

Il Penitenziere maggiore ritiene che «grande possa e debba essere il contributo di noi adulti alla percezione che i giovani hanno di se stessi. Dobbiamo aiutarli continuamente a non chiudersi in ciò che il mondo dice loro, ma, dilatato il cuore e lo sguardo, siamo chiamati a sostenerli in quella percezione ampia e generosa del proprio io e della propria appartenenza ad un popolo universale, che è elemento necessario per continuare a credere e a sperare».

 

Nel rapporto con se stesso, «il giovane può essere tentato, poi, da due opposte polarizzazioni, entrambe artificiali». Da una parte, «può illudersi di non avere nulla da imparare o da correggere, e di essere sostanzialmente immune da errori». Dall’altro lato, può «insinuarsi una sorta di radicale sfiducia nelle proprie possibilità, abbondantemente alimentata dalla sfiducia sociale ed economica del nostro tempo, che può avere, a sua volta, un duplice nefasto esito». La sfiducia in se stessi, infatti, «può tradursi sia in un’inerzia paralizzante, che non permette il fiorire delle virtù e della vita, sia in una narcisistica e consumistica esperienza della vita, che, senza prospettive e senza progettualità, si riduce a bruciare, qui ed ora, le esperienze, le relazioni e le situazioni, lasciando alle proprie spalle solo ferite e mucchietti di cenere».

 

Piacenza sostiene che «se i giovani sono particolarmente generosi nell’impiegare le proprie energie in ciò che sta a loro evidentemente a cuore (basti pensare agli allenamenti sportivi, al sacrificio di imparare a suonare uno strumento o una lingua straniera, alle rivendicazioni per ottenere ciò che ritengono giusto per se stessi), meno forte appare la capacità di applicare queste energie alla modifica dei propri comportamenti in ambito etico e morale».

 

E guardando al mondo degli «adulti spesso palesemente corrotto ed inondati da una mole di male, per di più artificialmente amplificata dai mezzi di comunicazione, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, i giovani si trovano particolarmente appesantiti, disorientati; sono illusi e al contempo delusi, arrivando a non percepire nemmeno la possibilità di un orizzonte valoriale più ampio del proprio io e della percezione immediata dei propri bisogni essenziali».

 

Eppure, «anche nei più distratti, l’incontro con Cristo determina, quando è autentico, un risveglio, una capacità nuova di analisi, un’energia nuova, imprevista e straordinaria, dalla quale permanentemente attingere anche per cambiare il proprio cuore, o almeno per domandare che sia cambiato».

 

E per il Porporato, «essendo le domande fondamentali dell’io appartenenti alla struttura antropologica, universali ed infinite, i nostri giovani cristiani intuiscono che, proprio nell’incontro con Cristo, tali domande possono avere una possibile risposta, che non è, come taluni sostengono, prodotta dall’uomo, ma, al contrario, è dono gratuito di Dio che domanda di essere accolto dalla libertà».

 

Ecco che «in un tempo di risorgente paganesimo, quale quello attuale, dobbiamo essere consapevoli che ogni parola mancata nella verità è un’affermazione vittoriosa della menzogna; ogni gesto di verità non compiuto è il compimento di un gesto menzognero; i giovani, nel calcio, dicono: “goal mancato, goal subìto”».

 

In questo contesto, «deve essere percepita come urgente e necessaria una radicale riforma di mentalità nell’esercizio del ministero pastorale, in particolare nell’ascolto delle confessioni sacramentali». Non si tratta di modificare forme, «nè di inventare metodi, scimmiottando quelli ben più organizzati ed allettanti del mondo, quanto piuttosto di chiedere, per ciascun membro della Chiesa, in particolare nella celebrazione dei sacramenti, che l’incontro sia sempre un incontro con Cristo, capace di performare, per via testimoniale e con l’aiuto della grazia, la vita dei giovani».

 

Perché un giovane, «che giunge a domandare alla Chiesa e al suo prete di celebrare il sacramento della Riconciliazione, compie comunque un atto radicalmente rivoluzionario, contro-culturale. Anche senza saperlo, egli riconosce ed afferma la propria non-auto-sufficienza, riconosce ed afferma l’insufficienza del mondo a rispondere alla proprie domande; riconosce ed afferma il bisogno di un salvatore e che questa salvezza passa attraverso la struttura storica e mistica del Corpo ecclesiale».

 

Papa Francesco, «con la pubblicazione della recente Esortazione Apostolica “Gaudete et Exsultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, ha richiamato l’intera Chiesa a vigilare sui rischi del neo-pelagianesimo e del neo-gnosticismo. Ecco, un giovane che piega le ginocchia nel confessionale e domanda umilmente il sacramento della Riconciliazione, è un giovane che ha già sconfitto sia il neo-pelagianesimo – perché domanda l’aiuto della grazia –, sia il neo-gnosticismo – perché riconosce di non potersi dare da solo la salvezza, ma che essa viene da Cristo mediante la Chiesa».

 

Per Piacenza sarebbe «delittuoso se, come pastori, non fossimo consapevoli della portata non appena semplicemente rituale o sacramentale dei gesti dei nostri giovani, ma della portata profetica, evangelica e, perciò storica e culturale che tali gesti hanno».