DANTE E BENEDETTO XVI

Di Ferruccio Benevieri

Il fatto che le dimissioni di Benedetto XVI furono, già nell’immediato, lette da molti come un segno dei tempi è principalmente riconducibile a due distinti aspetti della vicenda: da una parte le motivazionienunciate dal pontefice che, nella misura in cui sono apparse deboli e vaghe, hanno lasciato immaginare un ben più complesso e inconfessabile scenario dietro quella straordinaria decisione; dall’altra parte il considerevole lasso di tempo, ben sette secoli, trascorso dall’ultimo episodio analogo nella storia della Chiesa.

Da subito vennero infatti richiamati alla memoria i precedenti casi in cui un papa, ancora in vita, aveva deciso di lasciare vacante la Sede apostolica. Inquadrando così il gesto all’interno di una tradizione, pur desueta, ne veniva come rafforzata la legittimità dal punto di vista del dirittocanonico. In questa operazione venne soprattutto rammentata la figura di Celestino V, indubbiamente il papa più famoso tra i papi rinunciatari.

Apparve quindi una letteratura che sottolineava i termini di paragone tra questi due papi, che va dalla scarsa dimestichezza con i giochi di potere interni alla curia, alla propensione a condurre una vita contemplativa.Tuttavia l’accostamento tra Celestino V e Benedetto X, se andiamo a cogliere alcuni spunti provenienti da un’analisi simbolica, esonda rispetto alle singole personalità dei due papi, permettendo così  di scoprire la profonda e insospettabile analogia tra i rispettivi periodi storici. Per procedere in questa direzione si è rivelato necessario il contributo di una precisa interpretazione dell’opera di Dante Alighieri il quale, ricordiamolo, fu contemporaneo di Celestino V.  Non a caso è per un vago riferimento presente nella Divina Commedia che questo pontefice è stato ricordato, pur non positivamente, fino ai giorni nostri.

Se poi dopo sette secoli s’è assistito alla rinuncia di un altro papa, questo evento, al di là delle ragioni in ordine alle contingenze fisico-psichiche proprie di ogni individualità, avrebbe anche e soprattutto una portata universale, visto si parla del vicario di Cristo in Terra. Ed è appunto nell’opera di Dante, o più precisamente in una esegesi di questa, che scopriamo come il periodo storico in cui sono vissuti Celestino V e il sommo poeta è stato la prefigurazione di quello presente. Infatti il rinvenimento di tale significato dell’opera di Dante, dopo secoli in cui è rimasto oscurato, sembra proprio interessare i tempi in cui era necessario che tornasse ad essere “pubblico”.

Prima di avanzare verso la scoperta di questa ermeneutica che serve a chiave di lettura della portata metastorica sottostantea questedue rinunce al soglio pontificio, risulterà utile ricordare, grosso modo, le funzioni proprie dell’autorità spirituale e del potere temporale.

Centrale in un dibattito dell’élite intellettuale fino a tutto il Medioevo, a questo tema Dante dedicò il Monarchia, gran parte delle Epistole e anche,sotto una coltre simbolica che il poeta deve aver ritenuto necessario porre col precipitarsi di alcuni eventi, la Divina Commedia. Ma la visione del ruolo dell’Impero in Dante è assai particolare e riconducibile, come vedremo, all’ambiente a cui lui apparteneva; cosa questa che rende prima necessario vedere in cosa dovesse consistere, in termini generali, il ruolo del papato e dell’impero.

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Il potere temporale, rappresentato in Occidente dall’Impero romano prima e dal Sacro Romano Impero poi, è definito da tutto ciò che propriamente costituisce il “governo”; ricopre sia la funzione amministratrice e giudiziaria che quella militare; tende a garantire la pace, la giustizia, l’armonia sociale all’interno del territorio, proteggendo questo da dissidi interni e da attacchi esterni. L’autorità spirituale, ovvero il papato, ha invece il compito di conservare e di trasmettere la dottrina; presiede al corretto compimento dei riti e delle funzioni religiose. L’autorità spirituale rappresenta la prima diretta emanazione della volontà celeste in Terra, un autentico ponte tra questa e il Cielo: da qui l’attribuzione dell’appellativo “pontefice” alla guida suprema della Chiesa.

Il potere temporale, detto anche regalità, trae d’altronde la propria legittimità proprio da quello spirituale, il sacerdozio: non a caso l’incoronazione dell’imperatore anticamente avveniva per mano del papa. La dipendenza del potere temporale dall’autorità spirituale rispecchia un altro naturale rapporto di gerarchia, quello tra azione e conoscenza. Quando sia l’autorità spirituale che il potere temporale svolgono pienamente ognuno le proprie funzioni e vi è armonia tra loro, si ha la “salute” dell’individuo e della società intera.[1]

In ogni società ed epoca tuttavia è andata immancabilmente a formarsi, tra sacerdozio e regalità, una vera e propria opposizione: in India vi fu la rivolta della casta dei guerrieri (gli ksatriya) contro quella dei sacerdoti (i brahmani); in Cina si è svolto un secolare conflitto tra taoisti e confuciani. In Occidente invece si è assistito a quello che gli storici chiamano “contesa tra Papato e Impero”. L’archè di questa degenerazione è da ricercare sempre in un mancato riconoscimento, da parte dei detentori del potere temporale, dell’autorità spirituale.[2]

Dante è stato testimone della fase finale di questo conflitto, che ha coinciso con il tramonto del Medioevo in cui il Cristianesimo era stato il reale fondamento di unità e pace per l’Europa intera. Rispetto a questa contesa, la posizione di Dante è stata troppo spesso banalizzata per finire facilmente con l’attribuirgli l’etichetta di “anticlericale”. Ma il leggendario antipapismo del sommo poeta era su di un piano esclusivamente politico.

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Questo è quanto viene sottolineato da Benedetto XV quando, nel 1921, in occasione del sesto centenario della morte del poeta, pubblica l’enciclica “In praeclara summorum”[3]. Qui il pontefice rammenta come Dante abbia sempre mostrato una “straordinaria deferenza per l’autorità della Chiesa Cattolica e per il potere del Romano Pontefice” e che il suo atto d’accusa indirizzato ad alcuni pontefici era dato proprio dalla sua devozione verso la Chiesa, dal momento che il clero di quel tempo aveva indubbiamente da che farsi rimproverare.Questa devozione di Dante verso la dottrina cattolica deve essere rimasta immutata, a dispetto delle vicende politiche del suo tempo, se nella Divina Commedia, vi si trova “un vero tesoro di dottrina cattolica […]  il succo della filosofia e della teologia cristiana”. Inoltre, sempre per Benedetto XV, il poema è da considerarsi “un compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati.” Assai propriamente viene citato il terzo libro del Monarchia, in cui Dante sì espone la tesi che la dignità dell’Imperatore proviene direttamente da Dio, ma dichiara altresì che “questa verità non va intesa così strettamente che il Principe Romano non si sottometta in qualche caso al Pontefice Romano, in quanto la felicità terrena e in un certo modo subordinata alla felicità eterna”. La famosa teoria dei due soli del sommo poeta dunque non esprime una semplice coesistenza dei due poteri in cui viene segnata una completa indipendenza del potere temporale da quello spirituale.

Benedetto XV allora indica “l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro” e al contempo ribadisce come il poeta avesse ben chiaro quale dovesse essere il rapporto tra Papato e Impero.

Così in questa enciclica, pubblicata esattamente il 30 aprile del 1921, sembra che echeggi il contenuto di un libro che sarebbe uscito solo l’anno dopo.Il libro in questione è “Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia” di Luigi Valli che, pur con qualche debolezza, rappresenta un’esegesi che è assai ben sostenuta da una ammirevole quantità di indizi raccolti lungo tutto il poema. Dopo sei secoli e nel giro di qualche mese, si avvicendano due pubblicazioni che pongono di nuovo attenzione al pensiero politico del sommo poeta nella direzione di un chiarimento di significato della sua opera pertinente a una visione della salvezza dell’uomo. Non possiamo vederci un semplice caso, bensì un compimento dei tempi se concediamo, come ipotizza René Guénon, che sia stato previsto da Dante che questo segreto rimanesse tale per tutto questo tempo.[4]

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Riguardo alle scoperte del Valli ci basti qui riportarne sommariamente il senso. Nel libro di Luigi Valli viene esposto un complesso di simboli che più volte torna lungo tutta la Divina Commedia.Su due di queste figure allegoriche si incardina quell’analisi simbolica che, come abbiamo detto poco sopra, ci ha svelato l’analogia tra i due periodi storici, quello di Celestino V e di Benedetto XVI. I simboli in questione sono la Croce e l’Aquila,il Papato e l’Impero.

Nel pensiero teologico-politico di Dante l’Aquila presiede al “recte facere”, ovvero alla vita attiva dell’uomo; amministra quelle regole necessarie al conseguimento della felicità terrena, che è rappresentata dal paradiso terrestre. Grazie alla completa acquisizione delle virtù cardinali, l’uomo raggiunge questa prima felicità che tuttavia non è va considerata a sé stante, poiché trova il proprio fondamento nelle verità di ordine superiore. Lo stesso Dante è molto chiaro a riguardo: questo primo fine della nostra vita si ottiene “per mezzo degli insegnamenti filosofici purché li eseguiamo operando in conformità alle virtù morali ed intellettuali”. L’ineffabile Provvidenza ha posto la felicità di questa vita come primo passo per potere poi continuare il cammino verso il paradiso celeste, cosa che avviene “per mezzo degli insegnamenti spirituali che sorpassano la ragione umana, purché li eseguiamo operando in conformità alle virtù teologali, cioè fede, speranza e carità”[5]. A questo secondo e ben più nobile fine della nostra vita vi si giunge per mezzo della Croce, ovvero il “recte scire”. L’autorità spirituale guida la vita contemplativa dell’uomo, portando questo a far proprie le virtù teologali.

Lungo tutto il viaggio ultraterreno di Dante, che rappresenta simbolicamente il nostro cammino di redenzione, il Valli ha registrato una continua alternanza di questi due simboli, la Croce e l’Aquila, cosa per cui si evince facilmente che, per il sommo poeta, l’impero doveva svolgere un determinato ruolo dal punto di vista della salvezza dell’uomo. Sia amministrando la società secondo quelle leggi che hanno il loro fondamento nella dottrina cristiana, sia garantendo a ciascun individuo la possibilità di perseguire le virtù cardinali, il monarca consacrato aveva il compito di togliere di mezzo al percorso del suo suddito la difficultas, ovvero tutto ciò che si pone come ostacolo al raggiungimento del paradiso terrestre. L’uomo, così “preparato”, è in grado veramente di alzare lo sguardo verso il Cielo. Dopodiché è compito dell’autorità spirituale, grazie alla trasmissione dell’autentica dottrina, rimuovere l’ignorantia dal cammino verso il paradiso celeste.

Quindi l’Impero ha come fine quello di attuare il migliore riflesso possibile in Terra della Giustizia divina, facendo in modo che le difficoltà materiali non siano tante e tali da distogliere il suddito, qualsiasi esso sia, dalla propria vita interiore. Considerato ciò, l’assenza dell’Impero o anche solo il mancato esercizio di tutte le sue facoltà, comporta proprio quel “dilagare dell’iniquità” per cui, come viene detto nel Vangelo, “l’amore dei molti si raffredderà” (Mt 24, 12).[6]

Che l’Impero romano sia stato scelto dalla Provvidenza divina come l’assetto politico ideale per l’accoglimento della dottrina cristiana, Dante lo sostiene a chiare lettere nel Monarchia, spendendo interi capoversi a illustrare quei passi del Vangelo che ne costituiscono la prova, uno su tutti: il fatto che la nascita di Gesù Cristo sia avvenuta sotto la podestas di  Augusto, che è formalmente il fondatore dell’Impero romano.[7]

C’è poi un’altra coincidenza che per Dante deve aver assunto la forza di dimostrazione del disegno divino nell’elezione di Roma a capitale dell’umanità redenta. L’Aquila giunse a Roma da Troia per mano di Enea, il cui viaggio è raccontato nell’Eneide da Virgilio: sarebbe così spiegato il motivo per cuiviene scelto proprio il poeta latino come guida di Dante dal primo canto dell’Inferno fino in cima al monte del Purgatorio, ovvero il Paradiso terreste. Durante l’accidentato viaggio, Enea si fermò a Creta, ma questo avvenne per colpa dell’interpretazione sbagliata di un oracolo e quindi, una volta resosi conto dell’errore, riprese presto la navigazione verso il Lazio, dove la sua stirpe avrebbe poi fondato la città eterna. Allo stesso modo Paolo di Tarso, che portava la Croce da Gerusalemme a Roma, naufragò a Creta; riuscendo poi comunque anche lui a proseguire il suo viaggio e ad arrivare a Roma, realizzava quel disegno divino che voleva questa città sede sia del Papato che dell’Impero. Per Dante infatti sia il pontefice romano che l’imperatore devono essere romani.

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Ma proprio negli anni in cui viene scritta la Divina Commedia, ovvero tra il 1307 e il 1321, sia il Papato che l’Impero sono lontani da Roma e a questa diaspora dei due poteri dall’Urbe, Dante dedica l’allegoria del Veglio di Creta.[8]

La causa remota di questa degenerazione è, secondo il poeta fiorentino, la Donazione di Costantino del 315, che era costituita da una concessione di beni terreni a papa Silvestro I. Sebbene Dante, in diversi passaggi della sua opera, riconosce una “santa intenzione” dietro tale gesto liberale, non si esime tuttavia dal condannare l’imperatore, il quale avrebbe in questo modo denaturato al tempo stesso sia l’Impero che la Chiesa. Nonostante ciò, ovvero nonostante da quel momento fosse stata avviata una involuzione coincidente da una parte con la secolarizzazione della Chiesa e dall’altra con una “deriva sacerdotale” dell’Impero, nei rappresentanti di entrambi i poteri, fino a tutto il XIII secolo, era sopravvissuta una coscienza delle proprie funzioni tale da non permettere un vero e proprio ribaltamento della gerarchia.

Ciò avvenne quando, dal 1307 al 1314,  Filippo il Bello procedette alla persecuzione e alla distruzione dell’Ordine del Tempio. Cedette a collaborare in questa nefanda impresa Clemente V, che grazie a Filippo il Bello era salito al soglio, colui che spostò la Santa Sede in Francia, tradendo simbolicamente la natura “romana” della Chiesa per avvicinarla geograficamente al potere politico di cui era al servizio.

Con Filippo il Bello si ha quindi il completo capovolgimento del rapporto tra autorità spirituale e potere temporale. Ed è proprio contro questa confusione dei ruoli che Dante si scaglia ponendo nel suo Inferno svariati protagonisti di questa fase terminale della contesa tra Papato e Impero.Se il sommo poeta era in grado di scorgere, la dimensione tragica di questieventi ai fini della salvezza dell’uomo, ciò era possibile per la terzietà del punto di osservazione di cui godeva con l’appartenere a una precisa élite intellettuale.

È stato ampiamente riconosciuto che Dante era uno dei membri della confraternita dei Fedeli d’Amore, cosa alla quale sempre il Valli ha dedicato un corposo studio, dal titolo “Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore”. Meno risaputo invece è il fatto che era uno dei vertici di un’altra organizzazione iniziatica, la Fede Santa, che era un ordine terziario di affiliazione templare. I cavalieri dell’Ordine del Tempio, in virtù della loro doppia iniziazione sacerdotale e regale, che rendeva questi nobili spiriti sia monaci che guerrieri, hanno sempre condotto un ruolo di mediazione tra Papato e Impero. Questo spiega realmente perché Dante abbia scelto proprio San Bernardo, ovvero il fondatore della regola dei Templari, come sua ultima guida nel Paradiso, ovvero dal XXXI Canto.

La soppressione dell’Ordine del Tempio è l’atto conclusivo dello scontro tra Papato e Impero che, già da decenni, si stava svolgendo in modo drammatico. Già dalla metà del XIII secolo infatti,si assistette a una fase critica di questa contesa con Federico II, che prese a non riconoscere il potere temporale della Chiesa e al quale, di contro, vennero comminate due scomuniche. La morte di Federico II, avvenuta nel 1250, coincise con l’inizio di un periodo, l’interregno, che sarebbe durato più di vent’anni, in cui non venne eletto alcun imperatore.[9]

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Proprio in quegli anni viene fondata una nuova città: L’Aquila. Benché vi sia una generale concordanza nel far derivare questo nome dalle parole latine di “acquilis” o “acculi” o anche “acculae”, in riferimento all’abbondanza di sorgenti d’acqua nella zona, resta pacifico il riferimento all’Impero.[10] Su una serie di centri abitati sparsi preesistenti si procedette alla nascita di una vera e propria città, cosa fatta risalire al 1254 circa, quindi qualche anno dopo la morte di Federico II. Tuttavia pare che la fondazione de L’Aquila sia dovuta proprio allo “stupor mundi”, essendo stato ritrovato un documento, il Diploma di Federico II, in cui viene espressa questa precisa volontà.

In alcuni studi, che raccolgono i numerosi segni della presenza dei Templari nel territorio, si avanza l’ipotesi di un legame profondo di questa città con il leggendario ordine di monaci-guerrieri.[11] L’Aquila d’altronde presenta svariate caratteristiche la cui portata simbolica è tale da meritare di farne cenno. Innanzitutto è stata osservata una serie di peculiarità in comune tra il capoluogo abruzzese e Gerusalemme: l’altitudine pressoché identica, la posizione del fiume nella mappa, la forma della mappa stessa della città, giusto per citarne alcune. Nel riportare in Europa qualcosa della Terra santa vediamo un tratto distintivo dei cavalieri del Tempio.[12]

Come abbiamo già accennato, l’Ordine del Tempio per il suo duplice carattere, religioso e guerriero, aveva da sempre svolto un ruolo di mediazione tra potere temporale e autorità spirituale. Siccome dalla metà del XIII secolo la contesa tra questi due poteri si fa particolarmente esasperata, la fondazione de L’Aquila risulta l’espressione di una volontà di riconciliazione tra i due: riavvicinare, portandola alla stessa latitudine, l’Aquila imperiale a Roma sembra, sul piano della geografia sacra, davvero il segno di un impegno in questa direzione.[13]

V’è un’ultima curiosità che, per lo spessore squisitamente simbolico di cui fa evidenza, ci sembra un eloquente indizio che dietro la fondazione de L’Aquila vi sia stato l’impiego di un sapere autenticamente tradizionale. Vi sono dei luoghi nella città disposti in modo da risultare l’esatta proiezione in terra delle sei stelle che formano giustappunto la costellazione dell’aquila.[14] Proprio uno di questi luoghi èla Basilica di Santa Maria a Collemaggio, un edificio sacro che ci riporta alla figura di Celestino V.

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La contesa tra Papato e Impero, come abbiamo visto, ha un progressivo aggravamento dalla metà del XIII secolo; esattamente in quegli anni c’è un umile frate, un certo Pietro Angelerio, detto da Morrone, che ha una grande propensione all’ascetismo e attorno al quale andava spontaneamente riunendosi una prima comunità di monaci.

Giusto un paio di parallelismi bastano ad illuminare egregiamente su questa particolare situazione storica nella quale allo scontro tra potere temporale e spirituale corrispondeva un fiorire di movimenti pauperistici che sorgevano in contrapposizione all’opulenza delle gerarchie ecclesiastiche e ai quali si inscrive l’esperienza di Pietro Angelerio. Ad esempio, l’anno in cui questo frate si ritira in una caverna del monte Morrone, da cui prenderà il nome, è il 1239, ovvero lo stesso anno in cui papa Gregorio IX scomunica Federico II. Nel 1244 poi Pietro abbandona temporaneamente l’eremitaggio sul monte per iniziare effettivamente a costituire la sua congregazione; l’anno dopo Innocenzo IV infigge a Federico II una seconda scomunica e lo depone dal trono di imperatore. Ciò avvenne durante il primo Concilio di Lione. Solo cinque anni più tardi Federico II muore.

È al secondo concilio di Lione, avvenuto nel 1273, che Pietro da Morrone prende parte. Sembra che sia stato proprio durante il viaggio intrapreso a piedi verso la città francese che il frate venne avvicinato da alcuni rappresentanti dell’Ordine del Tempio. Questi cavalieri avrebbero interceduto presso il papa a favore della causa per cui Pietro si stava recando al concilio: mantenere in vita l’ordine di frati da lui fondato. Inoltre sarebbe stato sempre grazie all’Ordine del Tempio se il futuro papa, una volta tornato in Abruzzo, fu in grado di trovare le conoscenze e le risorse necessarie per erigere la Basilica di Collemaggio, mantenendo così fede a una promessa fatta alla Madonna che gli era apparsa in sogno, durante il suo viaggio a Lione.

Sulla ricostruzione storica del legame tra Celestino V e i Templari si rimanda volentieri al già citato lavoro di Maria Grazia Lopardi. Questa ipotetica contiguità dell’Ordine del Tempio con questo papa spiegherebbe il motivo per cui questi, quando ancora era solo un povero frate, abbia eretto svariati edifici religiosi oltre alla Basilica di Collemaggio. In questa stessa Basilica, nel 1294, fu incoronato papa con nome di Celestino V.[15]

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Quasi sette secoli dopo questa Basilica avrebbe ricevuto la visita di Benedetto XVI. Più precisamente, era il 28 aprile del 2009 quando Ratzinger giunse a L’Aquila per donare conforto alla popolazione colpita dal terremoto che si era abbattuto tre settimane prima. Pur contro la volontà degli addetti alla sicurezza, insistette per entrare nella Basilica di Collemaggio; qui, davanti alle spoglie di Celestino V, si mise a pregare. Depose poi sulla tomba del suo predecessore il proprio pallio papale. Ciò sembra suggerire che Benedetto XVI stava accarezzando l’idea di dimettersi già in quei giorni, all’indomani del sisma, anche se sarebbero dovuti passare quattro anni prima che questa decisione maturasse.

Il paragone tra i due pontefici, come abbiamo detto all’inizio, sembra estendersi sull’ambito più generale del rapporto tra autorità spirituale e potere temporale. Infatti con le proprie dimissioni, sia Celestino V che Benedetto XVI, tornano a essere testimoni della crisi del rapporto tra Papato e Impero, rinunciando a un ruolo di attori protagonisti di una fase storica così delicata. Una fase in cui chi detiene il potere temporale è una parodia del vero Monarca quale descritto da Dante, che soggioga l’autorità spirituale, invertendo il naturale rapporto con questa.

Or dunque si precisa quale sia una funzione particolare che l’autentico Imperatore è chiamato ad assolvere.

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Secondo Dante l’Imperatore ha principalmente il compito di combattere la cupiditas, la cupidigia, un vizio che attanaglia profondamente la vita terrena dell’uomo distogliendolo da quel perfezionamento morale necessario a raggiungere il paradiso terrestre prima e quello celeste dopo. Quel Cesare a cui si riferisce Gesù quando ricorda a chi appartiene la moneta, è lo stesso a cui si riferisce Dante quando descrive il Monarca il quale, eletto per diritto divino, regola l’economia dell’Impero in modo che sia scongiurato la formazione del vizio della cupiditas.

Il primo a combattere la cupiditas infatti deve essere proprio l’Imperatore di cui Filippo il Bello, ribaltando il rapporto tra Papato e Impero, ha rappresentato una sinistra caricatura: fu per la cupidigia che procedette alla distruzione dell’Ordine del Tempio. Solitamente si trova riportato che l’immenso patrimonio di questi cavalieri deve aver fatto gola a Filippo il Bello, quando invece probabilmente il motivo della loro soppressione è più legato alla possibilità, da parte del sovrano francese,di alterare liberamente la moneta.

È interessante osservare che lo stesso anno in cui avviene l’esecuzione dell’ultimo Gran maestro dei Templari, il 1314, muoiono anche Filippo il Bello e Clemente V. Secondo una leggenda Filippo morì durante una battuta di caccia disarcionato da un cinghiale: non a caso il cinghiale simboleggia l’autorità spirituale.[16]

L’alterazione della moneta sembra segnare un periodo in cui si realizza una ulteriore degenerazione del rapporto tra il sacerdozio e la regalità. Lo stesso imperatore Costantino, accusato da Dante di aver tradito la natura dell’Impero con la donazione alla Chiesa di beni temporali, fu altresì non a caso autore di una riforma monetaria che ebbe, a livello sociale, delle conseguenze catastrofiche.

Durante gli anni del pontificato di Benedetto XVI abbiamo assistito ad alcuni eventi significativi sul piano dell’economia mondiale. La crisi finanziaria del 2008 ha scoperchiato la vulnerabilità del sistema capitalistico e, per molti analisti, ha descritto l’inizio della sua fine. La cosa sorprendente è  che proprio a cavallo tra il 2008 e il 2009 che nasce il Bitcoin. Il 31 ottobre del 2008, ovvero un mese dopo il fallimento della Lehman Brothers, duecento componenti di una mailing list di esperti di crittografia e di sicurezza digitale ricevano una mail da un tale la cui identità rimarrà per sempre ignota: Satashi Nakamoto. La proposta di creare una moneta digitale dal nulla suscita inziale scetticismo maNakamoto non si arrende e il 3 gennaio del 2009 crea il Genesisblock, ovvero il primo blockchain.Il primo a raccogliere la sfida di decrittare questo block iniziale e quindi iniziare a tirar su un proprio portafoglio di moneta digitale (il wallet) fu Hal Finney il 10 gennaio del 2009.

L’anno in cui nasce ufficialmente il Bitcoin è il 2009, ovvero lo stesso anno in cui il terremoto si abbatte su L’Aquila. L’inizio della sequenza sismica si ha però a dicembre del 2008, per poi presentarsi in modo distruttivo quel fatidico 6 aprile dell’anno seguente. Le chiese che rappresentano la proiezione in Terra della costellazione dell’aquila vengono ingiuriate, facendo simbolicamente venir meno il collegamento con l’archetipo celeste dell’Impero.

La criptovaluta si presenta realmente come una ulteriore degenerazione del rapporto dell’uomo col denaro, imprimendo nell’animo una esiziale disposizione alla cupidigia grazie alla tentazione che offre: la prospettiva di una quantità potenzialmente illimitata di denaro che può essere creata senza fatica e dal nulla. E purtroppo l’Impero, che dovrebbearginare il dilagare della cupidigia così abilmente stimolata dalla criptovaluta, scompare simbolicamente tra quelle macerie.

In quei primi anni che seguirono il 2009, il Bitcoin vide crescere il proprio valore in modo esponenziale. Se alla fine del primo anno un Bitcoin valeva meno di 0,01 euro, a fine 2012 ne valeva 10. Il 2103 è stato poi riconosciuto come l’anno del Bitcoin: a novembre il valore di questa moneta supera addirittura i mille dollari. Il 2013 è anche l’anno delle dimissioni di Benedetto XVI, dopo quattro anni dalla nascita di questa moneta virtuale, dopo quattro anni dalla deposizione del proprio pallio sulla tomba di Celestino V.

Da allora L’Aquila non ha smesso di risorgere,ricostruendo oltre alle case quelle chiese che rappresentano delle stelle molto importanti. Anche dopo la soppressione dei Templari, per mano di chi voleva falsificare la moneta, questa città subì un violento terremoto.  Ma anche allora poi L’Aquila rinacque, fedele al motto di Virgilio: “Immota manet”. Resta ben salda!

 

 

 

 

“Principio davvero ottimo è sapiente, che se fosse fedelmente osservato anche oggi recherebbe certamente copiosi frutti di prosperità agli Stati.” Riguardo la subordinazione della felicità terrena a quella celeste nell’enciclica di Benedetto XV

 

[1]L’etimo della parola salute, a questo proposito, è assai chiarificatore: “salus” in latino significa anche “integrità”, “stato perfetto di benessere”, “salvezza”. Il pieno benessere dell’individuo, l’integrità o, se vogliamo, l’integrazione del suo essere, e quindi la sua salvezza procedono dalla completa concordia tra il sacerdozio e la regalità.

 

[2]Per approfondimenti si veda “Autorità spirituale e potere temporale” di René Guénon.

 

[3]Vedi: https://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/encyclicals/documents/hf_ben-xv_enc_30041921_in-praeclara-summorum.html

[4] Vedi: Capitolo 4 de “L’esoterismo cristiano” di René Guénon il quale, pur non risparmiando critiche al Valli, considera le sue scoperte la prova di un compimento di tempi, di cui Dante sarebbe riuscito a immaginarne la durata. Questo non sarebbe riconducibile tanto a un carisma di profezia del poeta fiorentino quanto alla sua conoscenza delle leggi cicliche.

[5] Vedi: Monarchia, Libro III, capitolo XVI.

[6] L’appunto principale che ci sentiamo di muovere al Valli è quello per cui conferisce all’Aquila e alla Croce la stessa identica importanza nel processo di redenzione dell’uomo. In realtà, siccome l’autorità spirituale corrisponde alla conoscenza e il potere temporale all’azione, non possiamo negare l’evidente preminenza della prima rispetto alla seconda. A questo proposito è opportuno rammentare il celebre passo del Vangelo “la Verità vi farà liberi” (Gv 8, 32).

[7]Vedi: Monarchia, Libro II, Capitoli 12-13.

Si consideri inoltre le parole pronunciate dal Cristo “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è Dio” che indicano il riconoscimento, per quanto riguarda l’ordine esteriore, di una legislazione che era quella dell’Impero romano e inoltre sembrano anche una raccomandazione, per il vero cristiano, a non confondere l’autorità spirituale col potere temporale.

[8] L’allegoria dantesca del Veglio di Creta starebbe a significare la difficoltà incontrata dall’umanità per accedere alla propria salvezza; questa situazione è raffigurata simbolicamente da un retrocedere sulla mappa geografica, da Roma a Creta, delle insegne della Croce e dell’Aquila (Inf. XIV, vv. 94-120).

[9]Definito da Dante l’ultimo imperatore dei romani (Convivio, IV, iii, 6), lo stupor mundi finisce comunque tra i peccatori  del X Canto dell’Inferno.

La vacatio di potere aperta con la morte di Federico II sembrò forse agli occhi di Dante concludersi con l’elezione nel 1308 di Enrico VII di Lussemburgo, citato come Arrigo nella Divina Commedia. Su invito di Clemente V, Enrico VII scese in Italia nel 1310 per porre fine alla guerra tra Guelfi e Ghibellini, ma fallì anche a  causa del tradimento del pontefice che gli istigò contro l’opposizione del partito guelfo e di varie città, tra cui Firenze. Arrigo morì improvvisamente nel 1313, quasi certamente avvelenato, infrangendo le ultime speranze del sommo poeta in una renovatio Imperii.

[10]Si osserva qui un’altra notevole coincidenza: il motto della città de L’Aquila , “Immota manet”, che significa “rimane immutata”, viene scelto dalla comunità grazie all’umanista Salvatore Massonio; questa tuttavia è una locuzione che risale a Virgilio, che la usa sia nelle Georgiche che nell’Eneide. Quindi Virgilio è al contempo il poeta che ha descritto il viaggio dell’Aquila da Troia a Roma, è una guida scelta da Dante per la sua prima parte del viaggio e l’autore del motto de L’Aquila.

[11]Si rimanda al libro “La Rivelazione dell’Aquila” di Ceccarelli e Cautilli, che trae spunto dalle teorie della scrittrice Maria Grazia Lopardi. Della Lopardi segnaliamo lo studio “Ipotesi sul rapporto tra Celestino V e i Templari”:

http://www.osmth.it/files/Ipotesi-sul-rapporto-tra-Celestino-V-e-i-Templari.pdf

 

[12]A titolo di esempio: in un altro luogo legato all’Ordine del Tempio, ovvero la Chiesa di San Sepolcro a Milano, vi troviamo un sarcofago che deve avercontenuto alcune reliquie e della terra di Gerusalemme.

[13]Roma e L’Aquila hanno infatti quasi la stessa latitudine, 41°53 la prima e 42°41 la seconda. A dividere le due città c’è l’Appennino che può rappresentare l’Italia stessa, se pensiamo alla sineddoche impiegata da Cino da Pistoia nei versi: “l’unica Fenice che con Sion congiunse l’Appennino”. Cino del resto, come Dante, era uno dei Fedeli d’Amore.

[14]L’ars aedificandi, così mirabilmente espressa in quel gotico la cui comparsa in Europa coincide col ritorno dei Templari dalle crociate, altro non è che una declinazione dell’arte sacerdotale a cui quelli erano iniziati.

http://assergiracconta.altervista.org/archivioNews.php?page=1&id=6404

 

[15]Se anche dietro questa elezione vi sia stata l’influenza dell’Ordine del Tempio, questa sarebbe da leggersi come il segno di un tentativo di ricondurre il Papato e l’Impero verso la loro originaria natura in vista poi di una loro riconciliazione. Ed è in questa prospettiva che questo ordine di monaci e guerrieri, in virtù della loro doppia natura, possano essersi adoperati per l’elezione al soglio pontificio di un asceta, un frate distante da quella tendenza alla secolarizzazione che andava caratterizzando la Chiesa.

[16]È Dante stesso a narrare, con tre semplici versi, l’odiosa attività di falsario di Filippo il Bello e il simbolico incidente che lo portò alla morte: “Lì si vedrà il duol che sovra Senna/ induce, falseggiando la moneta,/ quel che morrà di colpo di cotenna.” (Pd XIX, 118-120).