CRONACHE DAL MONDO IN DEFLAZIONE di Luigi Copertino – quarta parte

CRONACHE DAL MONDO IN DEFLAZIONE – di Luigi Copertinoquarta parte

Ma c’è chi dice “no!”

Intanto, in questi giorni, è giunta la buona notizia che in sede Ecofin (Consiglio Europeo dei ministri delle finanze) la Germania ha avuto un vistoso stop nelle sue pretese autoreferenziali ispirate ad un dogmatico e cieco ordoliberalismo. Da parte tedesca, infatti, è stata avanzata la proposta di porre alle banche commerciali un limite al quantitativo di titoli di Stato che esse possono possedere. Nella concezione ordoliberale lo Stato non è sovrano dal punto di vista finanziario ma è soltanto uno dei tanti soggetti che operano sul mercato. L’ordoliberalismo, pur assegnando allo Stato un ruolo di cornice istituzionale per un efficace funzionamento, soprattutto in funzione anti-oligopolistica, del mercato, rovescia la gerarchia naturale dell’Ordine e fa assurgere quest’ultimo, il mercato, ad un ruolo primario, laddove esso ha in realtà solo un ruolo terziario dopo il Sacro ed il Politico. Ecco perché nella visone ordoliberale allo Stato non può essere concesso di reperire risorse finanziarie attraverso normative e prassi che, mediante privilegi legali tali da consentirgli una azione extra o sovra-mercantile, lo pongano in una posizione superiore rispetto agli operatori privati del mercato. Nell’ordoliberalismo, come in tutti i liberalismi, è il mercato, la terza funzione, a fagocitare l’Autorità politica, la seconda funzione, ed in ultimo la stessa Autorità teologica, la prima funzione. Gli ordoliberali, in questo non differenziandosi dai liberisti di ogni scuola, quando pensano allo Stato pensano ad una azienda. Non riescono a comprendere che lo Stato non è una azienda ma è la forma ancora attuale della Comunità Politica e che come tale esso deve garantire ai cittadini benefici molto più alti che non il mero pareggio di bilancio: benefici quali l’istruzione e la formazione, la sanità, le fonti energetiche a basso prezzo, la casa, strade ed infrastrutture, e via dicendo, oltre ai più tradizionali benefici della difesa e della giurisdizione.

Ma la Germania, dogmatismo ordoliberale a parte, con la tale proposta da essa avanzata, ed almeno per il momento bloccata, intende raggiungere un altro evidente obiettivo: mettere in difficoltà i Paesi euro-mediterranei sia per riaffermare la propria egemonia, che da più parti, dopo anni di austerità deleteria, inizia ad essere seriamente messa in discussione, sia per costringerli ad accelerare le “riforme strutturali”, ossia i “compiti a casa”, anche se ciò dovesse comportare il rischio di una nuova crisi dei debiti sovrani. Infatti, l’acquisto da parte delle banche di ciascun Paese dei titoli del debito pubblico nazionale, che un tempo era obbligo di legge, è una consolidata prassi sopravvissuta alle liberalizzazioni finanziarie degli anni ’90. Una prassi vantaggiosa per le banche, che così lucrano interessi sul debito pubblico, ma anche per lo Stato che così riesce a piazzare il suo debito in casa, presso le banche nazionali. D’altro canto, in tempi di globalizzazione e di europeizzazione, le banche, oggi, non si limitano ad acquistare il debito pubblico dei rispettivi Stati ma acquistano, ed in abbondanza, anche quello degli Stati esteri. Se passasse la proposta germanica, le economie nazionali si avviterebbero in un vortice pericoloso alla fine del quale potrebbero aversi una serie di ripetuti default statuali a catena, compreso, probabilmente, quello della stessa Germania, le cui banche sono anch’esse esposte in titoli del debito pubblico tedesco ma anche estero. Questo per dire dove potrebbe portare il cieco fideismo dogmatico della Germania ordoliberale.

Il solito Weidmann, di passaggio a Roma (di ritorno da Napoli dove è stato in questi giorni in vacanza: come la Merkel, egli disprezza l’Italia ma poi vi soggiorna per le ferie e non al nord ma nel profondo sud), si è esibito in una affollata conferenza stampa presso l’ambasciata tedesca, affrontando, tra l’altro, anche il tema del possesso bancario dei titoli di Stato. Egli ha così ripetuto le ovvietà ordoliberista sul pericolo per il sistema bancario – perché è questo che sta a cuore ad un banchiere falco come il tedesco – di detenere troppo debito pubblico, perché in caso di default dello Stato ne resterebbero travolte anche le banche e, con le regole attuali del bail-in, anche i risparmiatori. Gli Stati, dunque, possono fallire e si può lasciarli al loro destino. Le banche invece no. Il sistema bancario italiano, ha continuato Weidmann, è in tal senso troppo esposto avendo le nostre banche in pancia troppo debito pubblico. Orbene, se un elemento di verità è attualmente riscontrabile nelle affermazioni di Weidmann – “attualmente” perché si deve far astrazione dal fatto che l’acquisto di debito pubblico da parte delle banche un tempo, quando era obbligatorio, avveniva in un sistema stabile, non globalizzato, e garantito da strumenti di sicurezza oggi non più esistenti –  non si può dimenticare, come ha fatto infingardamente il tedesco, che le banche germaniche, se da un lato sono esposte anch’esse in debito pubblico nazionale (certo, considerato più sicuro dai mercati di quello nostro), dall’altro lato sono esposte al rischio sistemico dei derivati, che hanno in pancia per trilioni di miliardi, anche se questa esposizione, da “esplosione atomica”, non è stata a suo tempo adeguatamente criticata, un paio di anni, fa dalla stessa Bce quando procedette agli stress test per verificare la solidità dei sistemi bancari dell’eurozona, visto che politicamente, in quel momento, la Germania dettava legge in modo non assolutamente contrastato da nessuno in Europa.

Contro la Germania a male estremo rimedio estremo: la minaccia del ritorno al protezionismo

E’ ormai un dato acclarato che l’intera economia mondiale si è avviata lungo un percorso di debole crescita dei redditi e di conseguente crollo dei prezzi: ciò che, appunto, gli economisti chiamano deflazione. Gli squilibri macroeconomici accumulatisi nel trionfale periodo neoliberista, inaugurato da reaganismo e dal thatcherismo, tra le grandi aree del mondo, e all’interno delle stesse aree poi coinvolte nel processo di globalizzazione, hanno preparato il terreno alla crescita a debito sostenuta da una finanza transnazionale liberalizzata, con la conseguente formazione di grandi bolle speculative e dell’escrescenza metastatica dei derivati. L’esplosione, ripetutasi nell’ultimo quindicennio, di diverse bolle, fino a quella fatale dei sub-prime, ha poi innescato il gorgo deflattivo nel quale l’economia mondiale sta affondando. La Cina, il Paese esempio degli anni trionfali, è entrata anch’essa in una fase di declino. Il contrarsi della domanda cinese di materie prime, innanzitutto di petrolio, ha innescato la discesa vertiginosa del prezzo del greggio. Il crollo del reddito dei Paesi produttori di greggio e di materie prime significa, di conseguenza, contrazione delle loro importazioni ossia delle esportazioni dei Paesi occidentali, il cui reddito quindi cala vistosamente contribuendo alla caduta, a sua volta, del livello mondiale dei prezzi.

E’ lo stesso scenario già visto nel 1929. Chi parla in questo scenario di sovrapproduzione dimostra di non aver compreso che la crisi è crisi da domanda, non da offerta. La contrazione della domanda aggregata, per mancanza di reddito, lascia invenduta la produzione dando l’impressione di una sovrapproduzione. Ma anche laddove si distruggono derrate alimentari o si ritirano dal mercato i manufatti industriali, allo scopo di sostenere i prezzi mediante una contrazione dell’offerta dei beni, non si raggiunge l’obiettivo prefissato per il semplice fatto che le popolazioni, mancanti di lavoro e di reddito e spaventate dal futuro, non comprano e le imprese, altrettanto spaventate, non investono più e non creano lavoro. Negli Stati Uniti si è cercato di reagire alla deflazione stimolando la domanda interna ma l’obiettivo è stato solo parzialmente raggiunto perché l’estrema polarizzazione “ricchi-poveri” nella distribuzione dei redditi, intervenuta a partire dal periodo reaganiano, ostacola oggi la rapida ripresa dei consumi. Infatti la propensione al consumo dei più ricchi è assolutamente inesistente e quindi ininfluente sotto il profilo macroeconomico. Sono il ceto medio ed i meno abbienti ad avere, invece, maggiore propensione al consumo, sicché quando si penalizza questi strati sociali, favorendo al contempo i più ricchi abbassando ad esempio loro le tasse con l’illusione dell’ipotetico “sgocciolamento” (“se non si tassa la grande ricchezza, questa poi investirà creando opportunità per tutti”), il risultato è sempre la contrazione della domanda aggregata e dell’intera economia. A proposito dell’efficacia delle politiche di favore per gli strati ricchi della popolazione, un miliardario americano, intellettualmente onesto, si è chiesto di recente (si veda l’intervento su www.keynesblog.it) di quanti tagli di capelli in più lui ha effettiva necessità o di quanti oggetti di lusso in più o pranzi in più lui ha bisogno, mano a mano che le sue entrate aumentano a dismisura? Egli intendeva dire che la propensione al consumo delle classi benestanti è minore di quella delle classi meno ricche. I ricchi tesaurizzano in misura maggiore dei poveri. Aumentare la ricchezza a chi è già ricco significa solo far ristagnare la liquidità visto che la capacità di spesa dei miliardari, per quanto ampia, non potrà mai da sola sostenere l’economia. L’accumulo di ricchezza al vertice della scala sociale, registratosi negli anni del neoliberismo ruggente, ha poi indotto le classi ricche a bruciare la maggior ricchezza, ottenuta grazie alle politiche di dissoluzione del Welfare State, nella speculazione finanziaria, che consente facili ed immediati profitti senza eccessivi sforzi, anziché reinvestirla nella produzione reale. Si comprende, pertanto, perché l’esito della destatualizzazione dell’economia è stata inevitabilmente la deflazione.

In questo scenario deflazionista, l’Unione Europea, costruita sui fallaci dogmi ordoliberisti, non ha neanche provato a stimolare la domanda mediante politiche fiscali espansive ossia di deficit spending. I vincoli che l’UE si è autoimposta nella costruzione dell’euro vietano ogni politica fiscale espansiva e, salvo i Quantitative easing della Bce di Mario Draghi, vero strappo all’ortodossia tedesca in cambio di “riforme strutturali” ovvero tagli alla spesa, nell’eurozona non si è vista alcuna reazione alla devastazione economica in atto. Ma la sola politica monetaria espansiva se non affiancata e coordinata da una politica di bilancio altrettanto espansiva non ha alla lunga alcun effetto. L’UE, non essendo una Confederazione, difetta di una Autorità Politica capace di decisioni rapide e vincolanti per tutti gli Stati aderenti sicché, a fronte di una unica politica monetaria, attualmente espansiva nonostante i mal di pancia tedeschi, la politica fiscale, in assenza di un bilancio confederale, resta frammentata tra i diversi Paesi sicché resta difficilissimo coordinare tra loro politiche di bilancio assolutamente diverse dato che ciascuna nazione ha i suoi peculiari problemi e le sue urgenze, spesso in conflitto con quelle degli altri partner.

«La Germania, – ha scritto Michele Salvati su Il Corriere della Sera del 18 marzo 2016 – l’economia più solida e con un forte attivo nella bilancia dei pagamenti, potrebbe fare da locomotiva e sarebbe anche tenuta a farlo, con grande vantaggio per l’economia globale e per i Paesi meno competitivi dell’Unione stessa. Ma così non avviene. La conseguenza è che questi ultimi, non potendo né svalutare né indebitarsi ulteriormente, sopravvivono in una situazione di semi-asfissia, provocata dall’austerità cui sono costretti. In assenza di una politica fiscale espansiva, si comprende allora come mai l’onere di contrastare le tendenze deflazionistiche oggi dominanti sia stato assunto dalla Bce, una scelta coraggiosa e che però espone Mario Draghi alle critiche che si sono ripetute anche dopo gli stimoli monetari (un vero “bazooka”) decisi il 10 marzo scorso: si tratterebbe di misure poco efficaci e con effetti distributivi asimmetrici tra i Paesi dell’Unione, favorevoli per i Paesi più deboli e peggio governati, negativi per quelli più forti e meglio governati. Sono critiche ingiuste e soprattutto ingenerose, se provengono da chi si oppone a una politica fiscale espansiva a livello europeo, ma è indubbio che la politica monetaria da sola può poco contro la deflazione in corso: se anche queste ultime misure “non convenzionali” non avessero successo, nell’arsenale della Bce rimarrebbero solo misure “estreme” come la Helicopter Money, una distribuzione diretta e gratuita di potere d’acquisto a cittadini e imprese. Che si inizi a parlarne, come sta avvenendo, è un indizio preoccupante del vicolo cieco in cui si è infilata l’Unione Europea».

A parte il riferimento all’idea di Milton Friedman, da lui avanzata solo quale paradosso, di gettare monete dall’elicottero, siamo sostanzialmente d’accordo con la diagnosi di Salvati. La politica monetaria da sola non sconfigge la deflazione ed è necessaria innanzitutto una politica di bilancio espansiva, quindi l’intervento statuale mediante una selettiva e qualificata spesa di investimento. Non siamo invece sulla stessa linea di Salvati laddove, nello stesso articolo, al fine di metterla al riparo da possibili futuri attacchi speculativi che farebbero ancora una volta leva sul suo alto debito pubblico, propone per l’Italia come inevitabile «… nell’impossibilità di una svalutazione vera (ossia monetaria a causa della moneta unica, nda), una svalutazione interna, cioè una dinamica salariale più bassa, allo scopo di dare maggiore produttività alle nostre imprese … (perché) le esportazioni tengono a malapena il passo con le importazioni e il tasso di occupazione è molto inferiore a quello degli altri Paesi con cui ci confrontiamo». Non siamo d’accordo perché questo tipo di politica va nel senso dell’austerità e della contrazione della domanda aggregata ed interna, non in quello della sua espansione (altro discorso è la riforma contrattuale del salario per legarne la parte variabile all’aumento della produttività, che sarebbe solo una politica intesa ad una forma, non l’unica per la verità, di partecipazione del lavoro agli utili di impresa).

Se la presenza di una moneta unica, ossia di una moneta non controllata dagli Stati come fosse per ciascuno di essi una moneta straniera, impedisce all’Italia di rispondere alla aggressiva politica mercantile tedesca con la svalutazione monetaria, piuttosto che piegarsi alla svalutazione interna del lavoro, praticando come i tedeschi bassi salari, dovremmo cercare in Europa idonee alleanze politiche per minacciare la Germania di frapporre alle sue esportazioni verso i Paesi euro-mediterranei tutti i possibili ostacoli, non esclusi i dazi magari sotto forma di indiretta pressione fiscale sui prodotti non nazionali, se essa non accetta di addivenire a diverse politiche, espansive, a livello europeo. Si tenga conto che il terrore della Confindustria tedesca, che ha notevole influenza sul governo di Berlino, non è tanto un default monetario dell’eurozona, con il ritorno alle monete nazionali o a diversi tipi di euro, quanto piuttosto il ritorno di politiche protezioniste a discapito dei prodotti germanici. E’ la possibile rottura del mercato unico europeo a turbare per davvero il sonno degli industriali tedeschi, non l’eventuale fine dell’euro.

Lo Stato imprenditore ed innovatore

Michele Salvati, da buon lib-lab all’italiana, è a nostro giudizio troppo moderato nella sua critica all’assetto attuale dell’UE e rischia di far passare in secondo piano il principale problema economico dell’Europa e del mondo intero: la mancanza di investimenti, pubblici e privati. Egli sembra aver dimenticato l’ammonimento di Keynes «cinque scellini da noi risparmiati oggi privano un onesto lavoratore del suo guadagno quotidiano».

Non ha dimenticato questa lezione, invece, Mariana Mazzucato, docente di economia dell’innovazione presso l’Università del Sussex ed autrice, per Laterza, nel 2014, di un testo assolutamente controcorrente “Lo Stato innovatore” (il titolo, nella versione inglese, è “Lo Stato imprenditore”). Un testo dove è dimostrato che tutte le innovazioni tecnologiche – la stessa statunitense Silicon Valley – nella storia economica moderna hanno avuto, sia all’inizio che durante il loro impianto, il sostegno finanziario pubblico mediante agenzie statuali dotate di una visione di “mission strategy”. Tra gli esempi storici di Stato imprenditore ed innovatore è possibile annoverare anche il nostro IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) creato dal fascismo negli anni ’30 grazie alle capacità tecniche di un afascista come Alberto Beneduce. Fino a quando rimase protetto dall’intromissione partitica, l’IRI è stato l’artefice dello sviluppo italiano nel dopoguerra. La sua parabola iniziò a decadere quando, appunto, con gli anni ’70 l’intromissione dei partiti ne rovinò la gestione allontanando le alte competenze tecniche maturate al suo interno.

La Mazzucato ha dimostrato che l’imprenditoria privata, sempre timorosa a rischiare i propri capitali nelle innovazioni proprio perché si tratta di campi sconosciuti, giunge sullo scenario del nuovo puntualmente dopo gli investimenti pubblici ossia solo quando questi ultimi hanno già aperto la strada. Accade così che, laddove non c’è consapevolezza da parte dei Governi del ruolo pubblico oppure laddove i Governi sono complici culturalmente o politicamente con gli interessi privati o lobbistici, l’imprenditoria privata riesce ad imporre la privatizzazione delle novità tecnologiche create dal settore pubblico, privatizzando a solo vantaggio del capitale i profitti che invece, in una ottica di equità, dovrebbe essere almeno in parte socializzati.

La ricostruzione storica della Mazzucato dimostra che, perfettamente in linea con il principio di sussidiarietà verticale, è lo Stato, intervenendo, a supplire la mancanza dell’iniziativa privata ma spesso anche, laddove essa fosse in qualche modo comunque presente, a dirigerla verso scopi generali di interesse nazionale o federale. Con il Karl Polany de “La Grande Trasformazione”, la Mazzucato ricorda che il mercato capitalistico – l’aggettivo è importante in quanto il mercato esisteva anche nell’antichità ma non era quello capitalistico moderno – è stato letteralmente inventato dallo Stato nazionale, nato nel XVI secolo. Il mercato capitalistico non è nato per “legge naturale” come credono i liberisti.

Il moderno mercato capitalistico altro non è, infatti, che un sistema di interrelazioni tra organismi e soggetti di vario genere, pubblica amministrazione, imprese, banche, famiglie, e non il luogo dove operano individui astratti ed autoreferenziali come nell’immaginario liberista, sicché la crescita economica è garantita soltanto dalla cooperazione, coordinata dall’Autorità pubblica, tra tutti i soggetti, pubblici e privati, che compongono il sistema mercato. Ma proprio per questo i benefici economici della sinergia pubblico-privato devono poi essere equamente suddivisi e redistribuiti tra tutti i soggetti che hanno collaborato al raggiungimento dell’obiettivo e non accaparrati esclusivamente dal capitale privato, che, come dimostrato dalla Mazzucato, è quasi sempre l’ultimo intervenuto sulla scena del rischio da investimento. D’altro canto la docente italo-inglese non ha fatto altro che riscoprire quanto già aveva compreso Keynes, il quale infatti ha scritto pagine importanti sulla necessità della parziale socializzazione degli investimenti e della necessatà per l’Autorità Politica di mantenere saldo il timone del governo dell’economia capitalistica per dirigere gli animal spirits del capitalismo privato verso scopi ed obiettivi di bene comune ed interesse nazionale o confederale. Se non governato da una forte e sapiente mano pubblica, che, come l’auriga della biga platonica, sappia quando stringere o allentare le briglie dei cavalli, il capitalismo privato, per sua natura, è inevitabilmente portato ad investire, con una visione di corto respiro, esclusivamente laddove, come nella speculazione, si ottengono immediati ma effimeri profitti. L’imprenditoria privata va responsabilizzata con opportune politiche che la costringano a farsi carico dei suoi collaboratori, ossia del “capitale umano”, senza abbandonarlo alla rete di protezione del Welfare, con aumento della spesa pubblica, e la costringano a sentirsi parte di un territorio, di una comunità nazionale o di una comunità di nazioni. Consentire, invece, a politiche liberiste dal lato dell’offerta e tali da rendere facile la volatilità del capitale, significa deresponsabilizzare l’imprenditore privato verso i suoi collaboratori e farne un apolide senza patria e senza radicamento comunitario.

«… l’Europa ha due velocità … per mancanza di crescita e investimenti (…)  – ha spiegato la Mazzucato in una intervista apparsa su Repubblica del 22 febbraio 2016 – La Germania negli ultimi anni ha sempre impiegato spesa pubblica nei settori chiave per lo sviluppo, come la ricerca, e trasferito risorse dalle aree più ricche a quelle più arretrate del Paese. Ma quando si cita il modello tedesco si parla solo di riforma del mercato del lavoro. Senza investimenti quella delle “due velocità” non sarà mai una strategia positiva, ma l’effetto negativo degli squilibri europei. (…). (Nell’eurozona) Il sistema finanziario non è stato riformato e resta debole … non è stata introdotta alcuna tassa sulle transazioni finanziarie ( …) Il livello di debito, pubblico e ancor più privato, resta altissimo, perché non si riescono a generare sviluppo e reddito. Così le banche continuano a finanziarie sé stesse, anziché l’economia reale.(…) ci vuole una strategia di investimenti seria e intelligente. Non certo il Piano Juncker, che non solo era inadeguato, ma ha dato con una mano e tolto con l’altra. (…) (Per quanto poi riguarda l’Italia) bisogna capire come la flessibilità (richiesta in Europa) verrebbe utilizzata. Abbassare le tasse sulle imprese o il cuneo fiscale non stimola gli investimenti: le aziende investono quando vedono opportunità di crescita, che sono trainate dalla spesa pubblica (sicché quest’ultima lungi da spiazzare gli investimenti privati, come sostengono i liberisti, li incentivano come insegnava Keynes già negli anni ’30 del secolo scorso, nda). Renzi ha fatto riforme simboliche, come il Job Act, ma non ha scommesso sui fattori che fanno aumentare la produttività, come capitale umano e innovazione. La riforma della pubblica amministrazione è fatta di tagli, non ragiona su come renderla più efficace e smart. Intanto la Cassa Depositi e Prestiti, a differenza della tedesca KfW, investe per sostenere imprese in difficoltà e non su settori d’avanguardia …».

Un modello antico per il futuro

Gli eurocrati ritenevano che dalla crisi in atto si sarebbe facilmente usciti con massicce dosi di austerità. Sono ormai quasi dieci anni che la crisi, al contrario, persiste mentre i segnali di ripresa sono estremamente deboli ed incerti. Il tempestivo intervento della Fed e delle Banche Centrali cinese e giapponese, con l’iniezione di massicce dosi di liquidità, ha evitato, all’inizio della crisi, l’immediato avvitamento mondiale dell’economia globale. Stati Uniti, Cina e Giappone hanno in tal modo svolto la funzione degli ammortizzatori della caduta libera dell’economia mondiale. L’America, luogo di origine della crisi, è così riuscita a sopportare l’onda sismica della depressione molto meglio dell’Europa, impantanata nei suoi dogmi ordoliberisti, ad iniziare dal pareggio di bilancio che è un assurdo in tempi di depressione. Ma proprio questa reazione affidata alla sola politica monetaria delle Banche Centrali è diventata, a sua volta, un problema. I Governi, anche quelli dei Paesi sopra citati ossia Stati Uniti, Giappone e Cina, sono stati timidi nel loro interventismo lasciando che fossero le rispettive Banche Centrali a fare la parte del leone.

Nell’eurozona, il QE della Bce ha evitato, per il momento, il peggio. Ma l’abbassamento dei tassi di interesse non è servito per rimettere in moto le enormi sacche di liquidità e di risparmio che giacciono inerti nelle banche e nei conti correnti degli investitori che non rischiano per paura del futuro andamento negativo dell’economia in deflazione. La riduzione dei tassi di interesse è servita solo ad innescare una serie di svalutazioni competitive tra le principali monete e le maggiori aree regionali del mondo, scardinando l’ordine liberoscambista del commercio internazionale che con la globalizzazione, indotta dal Trattato del  WTO stipulato agli inizi di questo secolo, si voleva consolidare nell’illusione che in tal modo si sarebbero assicurate la pace e la ricchezza universali. Le cause remote della crisi manifestatasi dal 2007 sono, come si è detto, nella contrazione della domanda aggregata mondiale causata dalle politiche neoliberiste che hanno provocato la concentrazione della ricchezza verso il vertice della scala sociale, sfavorendo il reddito da lavoro e favorendo esclusivamente i profitti del capitale. Ma, per questa via, lo stesso capitale si è auto-castrato per progressivo annientamento degli sbocchi dell’offerta , della produzione. Infatti, quel che visto dal lato dell’offerta sembra sovrapproduzione in realtà, dal lato della domanda, è contrazione del potere d’acquisto dei lavoratori/consumatori. Ecco perché la politica monetaria delle Banche Centrali ha le armi spuntate nel combattere la deflazione. E’ necessaria, invece, la politica fiscale, una politica espansiva dei bilanci pubblici, al fine di rianimare la domanda aggregata. Ma, in tempi di globalizzazione, questo non è possibile senza un coordinamento, almeno su scala continentale, delle politiche fiscali dei singoli Stati. Perché laddove si registrassero politiche espansive in alcuni Paesi e politiche d’austerità in altri – come accade attualmente tra Europa e il resto del mondo – non si andrebbe da nessuna parte.

Alla luce di questa diagnosi non possiamo non convenire con le analisi di Romano Prodi (non è qui in questione – sia chiaro – né il politico, né il tecnocrate, con le sue notevoli responsabilità passate, ma solo lo studioso di scienze economiche ed il commentatore degli eventi in corso). Il quale, tornato keynesiano dopo essere stato, negli anni ’90, “liberista” quando si trattò di privatizzare, svendendolo, l’IRI, ha così ben descritto, su Il Messaggero del 28 febbraio 2016, la situazione di stallo dell’economie mondiale e le sue cause: « (E’) … evidente che, con economie stagnanti per effetto della caduta del potere d’acquisto delle classi medie o basse, anche i tassi di interesse pari a zero o negativi non riescono a dare una spinta alla crescita né dei consumi né degli investimenti. (…) il mondo è dominato da un eccesso di risparmio rispetto alla capacità di consumo delle famiglie e, di conseguenza, alla convenienza delle imprese a investire. Questo drammatico squilibrio deriva dalla sempre più iniqua distribuzione dei redditi, che ha progressivamente portato maggiori risorse verso le classi più elevate, togliendo alle classi con reddito inferiore. Trasferendo perciò denaro verso chi ha una più elevata propensione al risparmio e togliendolo a chi invece tende a consumare o investire una quota più elevata del proprio reddito. Sarà certo opportuno analizzare in altra occasione ed in modo più approfondito quali siano le ragioni di questo squilibrio, ragioni che possono tuttavia riassumersi prima di tutto nelle politiche fiscali, che dagli anni Ottanta in poi hanno sistematicamente favorito le classi più agiate, nelle nuove tecnologie che hanno fatto strage dell’occupazione delle classi medie e nel ruolo crescente assunto dalla finanza negli ultimi decenni. Ed è proprio questo squilibrio che genera i fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione che tendono a comprimere il potere d’acquisto delle classi meno agiate. Se queste sono le cause, i rimedi non possono venire dalle banche centrali ma dovranno essere il compito principale della politica economica di tutti i governi. Non intendo in questa sede approfondire gli aspetti etici o politici di queste osservazioni, anche se li ritengo di importanza dominante per il futuro della nostra società: le disparità oggi esistenti, se prolungate nel tempo, finiranno infatti con lo spezzare i pur esili fili di solidarietà che ancora ci tengono insieme. Mi limito per ora semplicemente ad osservare che, all’attuale situazione di eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda, non può essere posto rimedio con interventi di carattere puramente monetario. E’ giunta l’ora che i governi intervengano con misure di carattere strutturale tra di loro concordate in modo da diminuire il grande squilibrio fra risparmi e investimenti che ora rischia di portare tutti noi verso la stagnazione secolare (…)».

Quel che è implicito nel ragionamento di Prodi, che lui non evidenzia adeguatamente forse perché sfugge del tutto alla sua formazione originaria, è il ruolo centrale che gli Stati nazionali, confederati o meno, svolgono nell’attivare politiche di bilancio, fortemente espansive. Se, quindi, è ora necessario che gli Stati agiscano in modo concordato non c’è altro modello cui potersi ispirare che quello conosciuto in passato, nei secoli della Cristianità, in Europa, prima che la devastante secolarizzazione distruggesse spirito ed anima dei popoli europei per poi, ossia ora, distruggerne anche i legami sociali e l’economia. Si tratta, dunque, parafrasando Ortega Y Gasset, di «chiamare i popoli (attualmente organizzati in Stati nazionali) a fare qualcosa di grande insieme». Storicamente, però, come si diceva, è esistito un solo modello politico che si è dimostrato in grado di confederare i popoli, senza annientarne le identità, e questo è il modello romano-cristiano dell’“Imperium”. La globalizzazione annulla i popoli nell’indistinto oceano dei flussi cibernetici del capitale finanziario transnazionale, l’Impero romano-cristiano al contrario federa, unisce, i popoli esaltandone nell’Unità universalistica le diversità storiche e culturali. Qui sta la differenza abissale ed essenziale tra “Cattolicità” e mondialismo.

(Fine)

Luigi Copertino