Parte I
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Secondo di una serie di tre articoli sulla dottrina sociale della Chiesa, potete leggere l’introduzione qui. Venerdì prossimo la seconda e ultima parte.
La Dottrina sociale della Chiesa si fonda sul principio ontologico per eccellenza della legge naturale, intesa come partecipazione razionale e personale alla Legge eterna, fonte immutabile e suprema dell’ordine morale e giuridico. Questa partecipazione non è mera analogia o semplice conformità, ma una vera e propria derivazione ontologica, in virtù della quale la natura umana, creata ad imaginem et similitudinem Dei, è ordinata teleologicamente al fine ultimo, ossia al bene supremo che è Dio stesso.[1]
In tale prospettiva, la legge naturale non è semplice norma etica contingente, quanto realtà ontologicamente inscritta nella stessa struttura essenziale della persona, la cui ragione è chiamata a conformarsi al logos eterno.
Nel magistero sociale, Papa Leone XIII rappresenta il paradigma inaugurale di questa prospettiva metafisica, con la “Rerum Novarum” (1891) che, più che un manifesto sociale, è una vera e propria enunciazione di diritto naturale.
La sua enciclica non si limita a denunciare le ingiustizie sociali dell’epoca, ma articola un sistema morale e giuridico fondato sull’immutabile ordine naturale: la dignità della persona umana, il diritto naturale alla proprietà privata e il primato del bene comune come criterio ultimo di giustizia politica, sono tutte verità radicate nella natura umana stessa e quindi universali e perenni.[2] La legge naturale diviene, così, norma ontologica e gnoseologica, irrinunciabile punto di riferimento per ogni diritto positivo, che ne è derivazione e applicazione contingente.
Il successore, il grande pontefice san Pio X, nel contesto della sua lotta contro il modernismo, conferisce a questo insegnamento una radicalità teologica che ne mostra la verità oggettiva e immodificabile. L’enciclica “Pascendi Dominici Gregis” (1907) condanna il modernismo quale negazione ontologica dell’ordine naturale e soprannaturale, sintesi di tutte le eresie, in quanto relativizza la legge naturale e la morale oggettiva, riducendole a mere opinioni soggettive o a espressioni culturali mutevoli.[3]
San Pio X riafferma, in questo modo, con forza la natura partecipata della legge naturale, che si radica nella legge eterna e nella rivelazione divina, conferendo al diritto naturale una dignità e un’autorità non suscettibili di mediazioni soggettive o storicistiche.
Tuttavia, è partire da Pio XI, in particolare nella “Quadragesimo Anno” (1931), che si approfondisce, in senso rigorosamente tomista, il carattere gerarchico e ontologico delle leggi. La legge eterna, fonte primaria e originaria, si partecipa nella legge naturale, che a sua volta ordina le leggi positive, chiamate a rispecchiare e promuovere la giustizia in conformità al bene comune. In tale magistero si avverte una vigorosa riaffermazione del principio di sussidiarietà e una netta opposizione ai totalitarismi che negano la natura trascendente della persona e la realtà del diritto naturale.[4]
La prospettiva di Pio XI è, perciò, un vero e proprio richiamo alla sapienza tomista, che vede nell’ordine naturale una realtà metafisica strutturata secondo un fine ordinatore e nella persona il soggetto primario di ogni diritto.
Il pontificato di Pio XII, immerso in un contesto storico di grande complessità, consolida e amplia questa visione. In un clima segnato dalla Seconda Guerra Mondiale prima e dalla secolarizzazione poi, egli sottolinea con insistenza la natura immutabile, universale e personale della legge naturale, ribadendo che essa non può essere oggetto di arbitrio, né essere superata dal diritto positivo.[5]
L’attenzione è rivolta alla natura ontologica del diritto, inteso come ordinamento razionale della libertà personale che trova nella legge naturale la sua sorgente primaria e imprescindibile. Il magistero del Pastor Angelicus costituisce, però, l’ultima tappa di un insegnamento sociale profondamente ancorato alla metafisica classica e alla tradizione tomista.
Infatti, a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e specialmente a decorrere dal pontificato di Papa san Giovanni XXIII, viene inaugurata una stagione nuova, caratterizzata da una prospettiva personalistica e dialogica. La “Pacem in Terris” (1963), sebbene continui a sostenere la centralità della persona e della legge naturale, tende ad accentuare la dimensione soggettiva e relazionale dei diritti umani, inserendoli in un orizzonte storico e culturale aperto e dinamico.
Questo spostamento, pur portando a una valorizzazione della dignità personale, introduce una tensione rispetto all’immutabilità ontologica della legge naturale, poiché valorizza la storicità e la mutabilità degli ordinamenti giuridici e sociali.[6]
Sarà Papa Paolo VI, nelle sue encicliche come la “Populorum Progressio” (1967), ad approfondire questa visione personalistica e storicizzata, sottolineando la necessità di un progresso umano integrale che consideri le realtà sociali concrete e la pluralità culturale.
La legge naturale viene percepita, rispetto alla situazione antecedente il Concilio, in una prospettiva più dinamica, aperta al divenire storico, ponendo l’accento sul ruolo della carità e della solidarietà come dimensioni essenziali della vita sociale e politica.[7]
Questo approccio, pur offrendo un valido contributo pastorale, porta con sé, tuttavia, pure una certa ambiguità metodologica, che sfocia in relativismi interpretativi.
È, però, san Giovanni Paolo II a rappresentare una svolta nella riaffermazione rigorosa del diritto naturale classico sia pure con la presenza di un non trascurabile influsso della filosofia fenomenologica. Con la “Centesimus Annus” (1991) e la “Veritatis Splendor” (1993), egli ritorna alla radice ontologica della legge naturale come norma eterna e universale, in stretto collegamento con la legge eterna e la verità rivelata.
La sua riflessione, ispirata dal tomismo, sottolinea il primato della ragione ordinata alla verità morale e la non negoziabilità dei principi fondamentali di giustizia e bene comune. La “Fides et Ratio” (1998) consolida questa unità tra fede e ragione, riaffermando la necessità della metafisica e della filosofia classica per comprendere pienamente la legge naturale e il suo ruolo nell’ordinamento sociale.[8]
Il successore, Benedetto XVI, con la “Caritas in Veritate” (2009), approfondisce ulteriormente la dimensione ontologica e teologico-morale della Dottrina sociale, ponendo la carità come perfezionamento della legge naturale e la verità come principio ordinatore insostituibile del diritto e della politica. Il suo magistero richiama la necessità di un sapere filosofico e teologico integrato, che si radichi nella sapienza tomista e recuperi la profondità metafisica della legge naturale, contrastando ogni tentazione riduzionista o relativista.[9]
Tuttavia, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, il nuovo pontificato di Francesco ha spostato l’accento sul piano prevalentemente pastorale, come, del resto, fanno emergere sia la “Evangelii Gaudium” (2013), sia la “Laudato Si’” (2015), nelle quali traspare un’attenzione singolare alle emergenze umane e ambientali. Tale approccio valorizza la dimensione relazionale e la responsabilità sociale, ma ha implicato anche un’apertura a interpretazioni più fluide e meno rigorose della legge naturale, sollevando la necessità di un approfondimento teologico-filosofico che salvaguardi la sua immutabilità e universalità ontologica.[10]
Una sfida che il pontefice regnante, Leone XIV, eletto in data 08 maggio 2025, ha già fatto intuire di fare propria. Nel Discorso ai cardinale del 10 maggio 2025, Papa Prevost, rispetto a Francesco che aveva spesso adottato una prospettiva antropologica orizzontale, talora aperta a categorie mutuate dalla modernità sociologica, sembra recuperare una visione cristocentrica in linea con il pensiero di sant’ Agostino.
Si pongono, in altri termini, le premesse per una Dottrina sociale concepita non come strategia pastorale, ma quale espressione teologica dell’integrità del mistero cristiano nella storia: una risposta concreta alle sfide che l’intelligenza artificiale pone all’uomo, alla sua dignità e al suo essere imago Dei e che la Chiesa raccoglie, offrendo, per riprendere Papa Leone XIV, proprio il suo patrimonio di magistero sociale.
In definitiva, il percorso della Dottrina sociale della Chiesa, fondato sull’immutabile realtà ontologica della legge naturale quale partecipazione alla legge eterna, si presenta come una tensione dinamica tra la fedeltà alla verità metafisica e la risposta pastorale alle esigenze storiche e culturali.
Questa tensione deve essere ricomposta nella consapevolezza che la legge naturale, fondata sulla natura razionale e personale dell’uomo, costituisce il fondamento necessario e irrinunciabile di ogni autentico ordine sociale e politico, mentre la carità soprannaturale ne è il compimento e la perfezione.
Daniele Trabucco e Aldo Rocco Vitale
[1] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2: «Lex est lex naturalis, quae est pars legis aeternae in rationali creatura fundata, ordinans hominem ad suum finem».
[2] Leone XIII, Rerum Novarum (15 maggio 1891), nn. 3-6, 21-23: «Lex naturalis est fundamentum juris civilis et socialis…».
[3] Pio X, Lamentabili Sane Exitu (3 luglio 1907); Pascendi Dominici Gregis (8 settembre 1907): condanna del modernismo come «sintesi di tutte le eresie» e riaffermazione della legge naturale immutabile.
[4] Pio XI, Quadragesimo Anno (15 maggio 1931), nn. 20-22, 38-39: «Lex aeterna est primum fundamentum… lex naturalis eius pars… lex positiva ad bonum commune spectat».
[5] Pio XII, Summi Pontificatus (20 ottobre 1939); Mediator Dei (20 novembre 1947); interventi vari: riaffermazione della legge naturale come norma immutabile e suprema.
[6] Giovanni XXIII, Pacem in Terris (11 aprile 1963), nn. 9-12, 15-16: sottolineatura della dignità personale e dei diritti umani in chiave personalistica e dialogica.
[7] Paolo VI, Populorum Progressio (26 marzo 1967), nn. 20-21, 42-44: legge naturale come norma dinamica, sviluppo integrale della persona e della società.
[8] Giovanni Paolo II, Centesimus Annus (1 maggio 1991), nn. 4-7; Veritatis Splendor (6 agosto 1993), nn. 34-56; Fides et Ratio (14 settembre 1998), nn. 1-4, 42-45: riaffermazione della legge naturale come norma oggettiva, immutabile e razionale.
[9] Benedetto XVI, Caritas in Veritate (29 giugno 2009), nn. 6-7, 29-31: carità quale perfezionamento della legge naturale, verità come principio ordinatore.
[10] Francesco, Evangelii Gaudium (24 novembre 2013), nn. 177-178; Laudato Si’ (24 maggio 2015), nn. 66-69: attenzione pastorale alle emergenze sociali e ambientali, con esigenze di interpretazione della legge naturale.
Parte 2
La Dottrina Sociale della Chiesa (da ora DSC), come già visto, non è una mera sintesi di ricette preconfezionate e pronte all’uso per risolvere problemi materiali, ma è la cornice morale all’interno della quale inscrivere i problemi umani secondo un orizzonte spirituale ed escatologico.
In questo senso la DSC non è un certo né un codice normativo, né un testo unico, né un manuale di diritto, ma proprio perché non è tutto ciò è qualcosa di più e di ben diverso e superiore, cioè un più profondo e complesso iter iustitiae.
La DSC non contiene una formulazione organica e sistematica intorno al tema del diritto e dello Stato, e pur tuttavia numerosi, ricchi e intensi sono i momenti di riflessione e di indirizzo volti alla comprensione dell’esperienza giuridica.
I temi che possono essere rintracciati all’interno di quel corpus monumentale che è la DSC sono molteplici, sia in riferimento al diritto che allo Stato.
Per quanto riguarda il diritto si pensi, per esempio, alla distinzione tra diritto divino e diritto umano; alla legittimità, la natura e i limiti del diritto umano; alla dialettica tra diritto statale e diritto naturale; al legame tra diritto naturale e giustizia; alle dinamiche tra diritto naturale e Stato; alla connessione tra giustizia e prudenza; alla natura e la portata del principio di sussidiarietà e di quello di solidarietà; alla coesistenza e la relazione del diritto della Chiesa e del diritto dello Stato; alla differenza tra ruolo della legge in uno Stato di diritto e in uno Stato totalitario; ai rapporti tra diritto e sviluppo delle nuove tecnologie.
Per quanto riguarda lo Stato, invece, si considerino temi quali i fondamenti dello Stato come istituzione giuridica; gli elementi costitutivi della comunità politica; la neutralità del cattolicesimo rispetto alla forma di Stato; la legittimità, la finalità e la modalità di esercizio del potere statale; la definizione dei rapporti tra governanti e governati; i doveri dello Stato nei confronti della comunità cattolica; i corrispettivi e reciproci doveri della comunità cattolica nei confronti dello Stato; lo Stato come esercente della giustizia umana; la libertà di culto e la libertà di coscienza; i rapporti diretti tra Stato e Chiesa specialmente alla luce degli articoli 7 e 19 della Costituzione italiana.
E’ ovviamente impossibile trattare – in ragione degli spazi e dei tempi – in modo esaustivo tutti i suddetti argomenti, ma si può comunque effettuare una panoramica generale, soprattutto in riferimento al profilo dello Stato, avendo già in precedenza affrontato l’analisi intorno alla concezione del diritto.
Le mosse per una tale pur sintetica ricognizione non si possono che prendere dal pensiero di S. Agostino al quale deve essere riconosciuto il grande merito di aver proposto il delicato tema dei rapporti tra giustizia e Stato, chiarendo che non è sufficiente la mera esistenza dell’entità statale di per se stessa considerata se ad essa non corrisponde anche una persistenza all’interno della via della giustizia.[1]
Senza o perfino contro la virtù della giustizia nessun potere, infatti, può ritenersi non soltanto legittimo, ma non idoneo a tutelare l’essere umano e la convivenza secondo l’ordine della razionalità giuridica.
Su tale sentiero S. Tommaso d’Aquino ha perimetrato l’agire dell’autorità politica e statale precisando non soltanto che il re – come del resto chiunque sia chiamato ad esercitare il potere – è destinato a servire il regno, e non già il contrario, ma soprattutto che se l’autorità politica non persegue e non si prende cura del bene comune si trasforma ipso facto in tirannide.[2]
Già da questi primi e chiari riferimenti si può affermare che l’entità statale come anche la comunità politica e le regole vocate a disciplinarle entrambe non possono essere ridotte al volontarismo intrinseco alla prospettiva convenzionalista (o contrattualista), poiché quest’ultima non tiene in debita considerazione la natura sociale e politica dell’essere umano.
Soltanto alla luce di questa impostazione non soltanto viene smentita la fictio iuris di un mitico e ancestrale contratto sociale da cui lo Stato e il diritto avrebbero dovuto trovare scaturigine, ma soprattutto si pone il limite giuridico di ordine costitutivo dell’autorità politica e dello Stato che possono liberamente agire, ma senza disconoscere o violare la natura umana.
Ecco il motivo per cui, diverso tempo dopo, Leone XIII per un verso ha ribadito che gli uomini non possono alienare o cedere i loro diritti naturali e originari,[3] e per altro verso ha specificato che proprio in ragione di ciò occorre sempre tener presente che l’uomo è da considerarsi sempre anteriore all’aggregazione statale.[4]
L’uomo anteriore allo Stato comporta un limite di carattere etico e giuridico invalicabile per l’azione politica e per la strutturazione dello Stato stesso in quanto tale considerato.
Lo Stato, infatti, nell’ottica della DSC, non può a suo piacimento negare la verità costitutiva dell’ordine naturale all’interno del quale la persona umana, come creatura libera e razionale illuminata dal divino di cui è immagine e somiglianza, si inscrive.
Se tale indirizzo ontologico e assiologico fosse stato risparmiato dal livellamento della secolarizzazione nel tempo di passaggio tra diciannovesimo e ventesimo secolo, molte tragedie antiumane novecentesche, per opera di uno Stato che si è percepito svincolato da ogni limite e legge superiore, si sarebbero potute evitare.
La deriva totalitaria, tuttavia, non è un semplice portato degli archivi storici, potendo sempre riproporsi ogni volta che lo Stato giunge a negare la verità trascendente da cui la persona trae la propria dignità, come ha evidenziato S. Giovanni Paolo II.[5]
Questa prospettiva apre una finestra anche sul problema dei rapporti tra democrazia e diritto all’interno della compagine di uno Stato di diritto, poiché se lo Stato e l’autorità politica incontrano nel rispetto della dignità umana e della verità trascendente della persona il limite principale al loro arbitrio, significa che il principio maggioritario non è conseguenzialmente sufficiente a determinare ciò che è lecito e ciò che invece non lo è.
In sostanza, soltanto la chiusura dei cieli della metafisica ha consegnato l’esperienza giuridica e la statualità nelle mani di quel cieco positivismo giuridico che riduce tutto alla mera volontà della maggioranza.
Contro un simile riduzionismo dello Stato e del diritto, Benedetto XVI, ancora da cardinale, ha avuto modo di puntualizzare che non è il consenso che crea la verità del diritto e dello Stato, ma è la verità che fonda la relazione giuridica, politica e statale.[6]
Dopo una seppur veloce panoramica si evince, in sostanza, come nell’ottica della DSC non è possibile utilizzare il diritto e lo Stato secondo l’arbitrio o l’utile di chi governa o di chi direttamente o indirettamente gestisce la res publica, poiché soltanto un potere assoluto, cioè senza limiti ontologici e assiologici, può degenerare in quei cortocircuiti, di cui la storia abbonda, cioè la violenza della tirannide e la reazione violenta alla tirannide medesima, spesso forieri di degradazione dell’umano e perfino di morte di massa organizzata in modo ciclico e sistematico.
La DSC, invece, suggerisce un percorso del tutto diverso di definizione dello Stato, e quindi del diritto e della convivenza civile e politica, secondo l’orizzonte di senso della persona inscritta in un ordine naturale inviolabile e comprensibile alla luce della umana ragione, così da poter recuperare, in conclusione, l’aurea sintesi di Juan Donoso Cortes secondo il quale «due cose sono assolutamente impossibili in una società veramente cattolica: il dispotismo e le rivoluzioni».[7]
Daniele Trabucco e Aldo Rocco Vitale
[1] «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?»: S. Agostino, La città di Dio, Città nuova, Roma, 2000, pag. 71, IV, 4.
[2] «Il re miri anzitutto al bene dei sudditi[…]. Inoltre il regno non è per il re, ma il re per il regno[…]. Perché se agisce diversamente, curando il proprio vantaggio, non è re, ma tiranno “: S. Tommaso d’Aquino, La politica dei principi cristiani, Cantagalli, Siena, 1980, pag. 159, III,11.
[3] «Coloro i quali pretendono che la società civile sia nata dal libero consenso degli uomini, derivando dallo stesso fonte l’origine della stessa potestà, dicono che ciascun uomo cedette una parte del suo diritto, e volontariamente tutti si diedero in potere di colui nel quale fosse accumulata la somma dei loro diritti. Ma è grande errore non vedere ciò che è manifesto, cioè che gli uomini non essendo una razza selvatica, indipendentemente dalla loro stessa libera volontà sono portati dalla natura alla socievole comunanza; inoltre, il patto di cui si parla è manifestamente fantastico e fittizio e non vale a dare alla potestà politica tanta forza, dignità e stabilità quanta ne richiedono la tutela della pubblica cosa e i comuni vantaggi dei cittadini»: Leone XIII, Diuturnum illud.
[4] «L’uomo è anteriore allo Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso»: Leone XIII, Rerum novarum, n. 6.
[5] «Una visione realistica della natura sociale dell’uomo, esige una legislazione adeguata a proteggere la libertà di tutti. A tal fine è preferibile che ogni potere sia bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che lo mantengano nel suo giusto limite. È, questo, il principio dello ‘‘Stato di diritto’’, nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini[…]. Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini[…]. Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della ‘‘soggettività’’ della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità»: Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 44-46.
[6] «La fine della metafisica, che in ampi settori della filosofia moderna viene presupposta come un fatto irreversibile, ha condotto al positivismo giuridico che oggi ha assunto soprattutto la forma della teoria del consenso: come fonte del diritto, se la ragione non è più in grado di trovare il cammino verso la metafisica, vi sono per lo Stato solo le comuni convinzioni sui valori dei cittadini[…]. Non la verità crea il consenso, ma il consenso crea, non tanto la verità, quanto ordinamenti comuni»: Joseph Ratzinger, La crisi del diritto, Parole di ringrazia- mento in occasione del conferimento della laurea honoris causa della Facoltà di giurisprudenza della Lumsa, 10/11/1999.
[7] Juan Donoso Cortes, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Rusconi, Milano 1972, pag. 70.