Sulle tesi di Auriti urge riflessione, non polemica.

di Andrea Cavalleri

 

 

Leggo solo ora la replica di Nicola Arena dell’ottobre 2016 a un mio articolo sul reddito di cittadinanza pubblicato sul sito di Blondet.

(Qui il suo articolo http://www.quieuropa.it/moneta-risposta-alla-critica-contro-auriti-di-andrea-cavalleri-apparsa-sul-blog-di-blondet/ )

 

Desidero spiegare con quali intenti scrivo.

Sono uno strenuo difensore della proprietà popolare della moneta e della sua emissione agli attivi nello stato patrimoniale del bilancio dello Stato. Al punto da essere il promotore per la Lombardia del Coordinamento Nazionale per la proprietà popolare della moneta.

 

La risposta di Nicola Arena si limita ad un paio di copia-incolla dal “Paese dell’utopia” più un tentativo sofistico di trovare un errore nei miei enunciati (secondo lui avrei detto che l’eredità non è ricchezza, quando invece ho scritto che l’eredità non crea ricchezza il che è ben differente: una cosa è trasferire la ricchezza, altra cosa accrescerla).

Dato che non mi sento per nulla offeso dal suo vivace contraddittorio, potrei benissimo ignorare questa replica. Se non lo faccio è perché, essendo appassionato dell’argomento, non voglio lasciar cadere l’opportunità di proporre delle riflessioni che reputo di una certa importanza.

 

Nel mio precedente articolo ho scritto che le teorie del valore sono inadeguate per spiegare il funzionamento della moneta (e confermo) perché?

Definire il valore come rapporto tra fasi di tempo va bene, ma cosa c’entra con la moneta?

 

La moneta serve a scambiarsi le merci, quindi misurare il rapporto tra fasi di tempo riguardo alle merci può significare solo che il prezzo che pago adesso esprime il mio gradimento per utilità futura del bene che acquisto. Ciò significa, tradotto in soldoni, che io pagherei prezzi diversi per gli articoli che io prevedo essere più utili o meno utili per me in un prossimo futuro.

Per vedere se questa tesi è vera basta fare un semplice esperimento: entrare in un supermercato e constatare se si paga un prezzo commisurato al valore che ha per me la merce, oppure si paga semplicemente il prezzo scritto sul cartellino.

 

Simmetricamente, immaginiamo due signore che entrano in un supermercato, una molto ricca e una poverissima. Entrambe acquistano per un euro una formella di pane. La ricca lo assaggia, non le piace e lo butta via: valore zero; la povera lo mangia con appetito e gratitudine: valore enorme (la salva dalla fame). Però tutte e due hanno pagato la stessa cifra, cioè un euro. Se la moneta avesse potuto misurare il valore avrebbero dovuto pagare prezzi diversissimi. E non si può dire in questo caso che la previsione di utilità fosse pari: per la ricca il pane sarebbe stato solo un accessorio al lauto pasto, per la povera tutto ciò che avrebbe potuto mangiare!

 

La definizione, che ho definito antiquata (non antica) fa riferimento alla cosiddetta scuola classica o marginalista fondata da Walras. Questo economista del 1800, considerato un genio ma che ha prodotto danni incalcolabili, per riuscire a razionalizzare e trasformare in espressioni matematiche i processi economici, aveva operato due grevi e nefaste semplificazioni: descrivere la Borsa come fosse tutta l’economia e descrivere l’Ufficio Cambi come fosse la moneta.

 

In quel contesto il termine “unità di misura del valore” aveva il suo limitato senso, viziato oltre tutto dai pregiudizi sul valore intrinseco dei metalli nobili, pregiudizio allora molto diffuso dato che si viveva nell’epoca del “gold standard”. In quella prospettiva si commetteva pertanto un doppio errore: di confondere il simbolo monetario con la moneta e attribuire a qualche ente materiale un valore intrinseco, mentre su questa terra il valore di ogni cosa è variabile a seconda dei contesti e delle situazioni e l’unico valore intrinseco qui materialmente esistente lo si può attribuire solo alla vita umana.

 

Parlare di moneta come unità di misura ha un senso, come vedremo oltre, ma si dica subito che è una misura atipica: il metro resta di 100 cm sempre e ovunque, la moneta invece cambia di valore nel tempo sia in rapporto alle merci, sia in rapporto alle altre divise (variano i prezzi e variano i cambi).

 

In questo caso Auriti ha accettato la definizione corrente di moneta e ha cercato di spiegarla a modo suo, senza accorgersi che la definizione stessa andava perfezionata.

 

Il miglioramento definitorio che io propongo parte dal fenomeno che introduce il bisogno della moneta: la divisione del lavoro.

 

Finché si lavora ognuno per sé, l’economia è allo stato dei cavernicoli: bisogna pensare ai generi di sopravvivenza, i singoli o le famiglie hanno competenze limitate, non si sviluppano neppure adeguati strumenti di produzione, perché il fabbisogno singolo o familiare è molto ristretto e non varrebbe la pena di costruirli. Nel momento in cui il lavoro viene suddiviso e specializzato il rendimento aumenta  in modo decisivo, si crea il tempo libero, con cui si studia e si trovano soluzioni e strumenti produttivi ancora più efficienti, nasce la prosperità, non solo, nascono anche la cultura e la civiltà. La fonte del benessere e della ricchezza è dunque la divisione del lavoro.

Il lavoro suddiviso richiede però un mezzo di scambio, in quanto la produzione specializzata è inutile a chi la fa (al contadino non servono a niente 20 tonnellate di patate, né al tessitore 40 chilometri di stoffa), tale mezzo di scambio è il denaro.

 

E la dinamica con cui funziona il denaro in una società a lavoro suddiviso è la seguente: io cedo tutto il frutto del mio lavoro in cambio di denaro e tramite il denaro mi procuro una minuscola frazione dei frutti del lavoro di tutti gli altri. A seconda di quanto denaro prendo, sarà maggiore o minore il diritto di possesso sul frutto generale del lavoro, quindi il denaro funziona come unità di misura della proprietà.

La corretta visione della moneta è quella di un titolo di proprietà in bianco, che fa diventare mio un certo bene o un certo servizio nel momento in cui la spendo.

 

Fin qui ho parlato della base definitoria, teorica.

Resta inteso che la moneta è un bene immateriale, di natura fiduciaria, nonché fondamentale strumento per l’economia del benessere.

 

Ma oltre a ciò si può dire che la moneta sia ricchezza?

In generale i beni strumentali se ben utilizzati producono ricchezza, altrimenti no.

Se il denaro è strumento di scambio, produce ricchezza quando ci sono merci da scambiare, altrimenti non serve a nulla. Basti pensare a un naufrago su di un’isola deserta con un miliardo in banconote: al massimo potrà usarle per accendere il fuoco la sera.

 

Quindi produrre moneta non significa produrre ricchezza.

E’ vero che fino a un certo punto l’immissione di liquidità nell’economia attiva le risorse inutilizzate, ma poi, raggiunta la piena occupazione, diventa dannosa.

In proposito l’esperimento di Guardiagrele non prova nulla che non si sapesse già: solo che un sistema troppo povero di moneta langue nella spirale deflattiva e che necessita di un impulso per riprendersi. Esperimento che peraltro venne dopo molti altri casi storici (uno di particolare successo in Austria nel 1932, molto più spettacolare di quello di Guardiagrele e concluso nello stesso modo: coi procedimenti giudiziari avviati dalla Banca Centrale).

 

Insomma, se si accetta che la moneta scambia e misura le proprietà (e non i “valori” espressione ambigua e sfuggente), moltiplicando i titoli di proprietà inerenti la stessa quantità di ricchezza si ottiene solo l’aumento dei prezzi.

Semmai conviene considerare che, in quanto mezzo di scambio, la moneta deve accelerare la circolazione, cioè in quanto strumento, essere usato di più.

 

E qui si arriva al disastroso svarione di Auriti, cioè sostenere che le tasse non servono, ma possono essere sostituite indefinitamente dall’emissione monetaria.

Si tratterebbe di produrre denaro a getto continuo e dove andrebbe a finire quel fiume di soldi?

L’unico risultato possibile sarebbe un’inflazione catastrofica, tale da screditare totalmente il sistema dei pagamenti.

 

Se non si ha l’onestà intellettuale e la semplicità di ragionamento di capire questa realtà elementare, ci si rende impresentabili presso tutta la comunità politico-economica.

Soprattutto si rischia di far cadere le altre giustissime istanze auritiane, sulla truffa della contabilità bancaria e sul diritto dei cittadini di poter finanziare lo Stato senza debito e senza interessi.

Qual è invece la misura corretta dell’emissione monetaria?

Ma esiste una semplicissima e aurea regola, che fu usata con successo nel secolo scorso da una Nazione che ottenne i più lusinghieri risultati economici.

La regola è: sostenere la spesa corrente con le tasse, finanziare con nuove emissioni monetarie le nuove opere o nuove imprese.

Quindi pagare con le tasse gli stipendi dei dipendenti statali e tutte le incombenze relative ai beni già presenti, ed emettere moneta per costruire nuove opere, come strade, ospedali etc. Naturalmente si parla di beni autorealizzabili con le risorse della Nazione, altrimenti si stampa cartaccia per importare dall’estero e si truffa il prossimo, come fanno gli Stati Uniti con il dollaro.

Quindi creazione di denaro solo in concomitanza e in proporzione alla creazione di nuova ricchezza.

In questo senso citavo l’eredità come un modo di procurarsi denaro senza aver creato ricchezza. Era uno dei tanti esempi in cui mostravo che si può entrare in possesso di titoli di proprietà (proprietà definite come immobili e aziende o proprietà virtuali come il denaro) senza aver lavorato.

E il lavoro è l’unica fonte di ricchezza reale.

Qualunque economista, leggendo la proposta di sostituire le tasse con emissione monetaria, ride e passa oltre. Se mi sono sforzato di capire donde nascesse questo errore, indagando sulle basi teoriche economiche (e non solo giuridiche) della moneta, è perché sono affezionato al pensiero e alla figura di Auriti.

Il rischio della scuola auritiana, nell’esaltare qualunque pensiero del maestro (che io comunque apprezzo), è quello di ridursi come la comunità degli aristotelici del 1600, che sostituivano alle prove di ragione il principio di autorità: ipse dixit!

Così facendo ci si preclude al dialogo con gli esponenti di altri filoni di pensiero e ci si riduce ad una nicchia di aficionados autoreferenziali.

Sarebbe il modo più sicuro di sprecare un’eredità che altrimenti potrebbe essere feconda, buttando in questo modo il bambino con l’acqua sporca.