Sarah: “Senza silenzio la liturgia è ideologia”

Pubblichiamo la traduzione italiana di ampi stralci dell’intervista che il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha concesso al periodico francese La Nef in occasione dell’uscita del libro La Force du silence (Fayard, 2016).

Il libro che lei propone ai lettori è una vera e propria meditazione spirituale sul silenzio: perché si è lanciato in una riflessione così profonda che abitualmente non ci si aspetta da un prefetto della Congregazione per il Culto divino incaricato di questioni molto concrete della vita della Chiesa?

«Il primo linguaggio di Dio è il silenzio». Commentando questa ricca e bella intuizione di San Giovanni della Croce, Thomas Keating nella sua opera Invitation to love scrive: «tutto il resto è una povera traduzione. Per capire questo linguaggio, dobbiamo imparare a essere silenziosi e a fare affidamento in Dio».

È tempo di ritrovare il vero ordine delle priorità. È tempo di rimettere Dio al centro delle nostre preoccupazioni, al centro delle nostre azioni e della nostra vita, al solo posto che egli deve occupare. Così, il nostro cammino cristiano potrà ruotare attorno a questa Roccia, strutturarsi nella luce della fede e nutrirsi della preghiera, che è un momento di incontro silenzioso e intimo, in cui l’uomo si trova a tu per tu con Dio per adorarlo ed esprimergli il suo amore filiale.

Non inganniamoci. Questa è la vera urgenza: ritrovare il senso di Dio. Ora, il Padre non si lascia avvicinare che nel silenzio. Ciò di cui la Chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un programma pastorale in più, un cambiamento strutturale. Il programma già esiste è quello di sempre, tratto dal Vangelo e dalla tradizione vivente. Esso è centrato su Cristo stesso che noi dobbiamo conoscere, amare, imitare, per vivere in Lui e per Lui, trasformare il nostro mondo che sta degenerando perché gli uomini vivono come se Dio non esistesse. Come sacerdote, come pastore, come Prefetto, come Cardinale, la mia priorità è di dire che Dio solo può colmare il cuore dell’uomo.

Credo che siamo vittime della superficialità, dell’egoismo e dello spirito mondano che si irradiano nella società mediatica […]. Per dei titoli, degli incarichi professionali o ecclesiastici, accettiamo dei vili compromessi. Ma tutto questo passa come il fumo […]. La sola realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio è silenzioso. Egli attende il nostro silenzio per rivelarsi. Ritrovare il senso del silenzio è dunque una priorità, una necessità, un’urgenza. Il silenzio è più importante di qualsiasi altra opera umana perché esprime Dio. La vera rivoluzione viene dal silenzio, essa ci conduce verso Dio e gli altri per metterci umilmente al loro servizio.

Perché la nozione del silenzio è così essenziale ai suoi occhi? Il silenzio è necessario per trovare Dio e in che senso «è la più grande libertà dell’uomo» (n. 25)? In quanto “libertà”, il silenzio è un’ascesi?

Il silenzio non è una nozione, è la strada che permette agli uomini di andare a Dio. […]   La conquista del silenzio è un combattimento e un’ascesi. Sì, occorre coraggio per liberarsi da tutto ciò che appesantisce la nostra vita che non cerca altro se non le apparenze, la facilità e la scorza delle cose. Proteso verso l’esteriorità dal suo bisogno di parlare sempre, il ciarliero non può che essere lontano da Dio, incapace di qualsiasi attività spirituale profonda. Al contrario, chi è capace di silenzio è un uomo libero. Le catene del mondo non possono far presa su di lui […].

E’ ancora possibile comprendere l’importanza del silenzio in un mondo in cui il rumore, in tutte le sue forme, non cessa mai? Si tratta di una situazione nuova della “modernità”, con i suoi media, TV, Internet, ove il rumore è sempre stato una delle caratteristiche del “mondo”?

Dio è silenzio e il diavolo è rumoroso. Da sempre Satana cerca di nascondere le sue menzogne sotto un’agitazione ingannevole e ridondante. Il cristiano deve non essere del mondo. A lui è proprio distogliersi dai rumori del mondo, dalle voci che corrono a briglie sciolte per distoglierci meglio dall’essenziale: Dio. La nostra epoca ultra-tecnicizzata e indaffarata ci ha reso ancora più malati. Il rumore è diventato come una droga dalla quale i nostri contemporanei sono dipendenti. Con la sua apparenza di festa, il rumore è un vortice che ci fa evitare di guardarsi in faccia, di mettersi di fronte al vuoto interiore. È una menzogna diabolica. Il risveglio non può che essere brutale.

Non temo di fare appello a tutti gli uomini di buona volontà a intraprendere una forma di resistenza. Cosa diventerà il nostro mondo se non potrà trovare delle oasi di silenzio? […] Non esito ad affermare che quei sacerdoti della modernità, che dichiarano una forma di guerra al silenzio, hanno perso la battaglia. Perché noi possiamo restare silenziosi in mezzo alle più grandi accozzaglie, alle agitazioni più spregevoli, in mezzo al baccano e alle grida delle macchinazioni infernali che invitano all’attivismo, strappandoci da ogni dimensione trascendente e da ogni vita interiore.

Quale ruolo attribuisce al silenzio nella liturgia latina, dove lo vede e come concilia silenzio e partecipazione?

Davanti alla maestà di Dio, noi perdiamo le nostre parole. Chi oserebbe prender la parola davanti all’Onnipotente? […] Il sacro silenzio è il luogo in cui noi possiamo incontrare Dio, perché noi veniamo a Lui con il giusto atteggiamento dell’uomo che trema e si tiene a distanza, mentre spera con confidenza. Noi sacerdoti dobbiamo reimparare il timore filiale verso Dio e la sacralità dei nostri rapporti con Lui. Dobbiamo apprendere di nuovo a tremare di stupore davanti alla Santità di Dio e alla grazia inaudita del nostro sacerdozio.

Il silenzio ci insegna una grande regola della vita spirituale: la familiarità non favorisce l’intimità, al contrario, la giusta distanza è una condizione della comunione. È tramite l’adorazione che l’umanità avanza verso l’amore […]. Non esito ad affermare che il sacro silenzio è una legge cardine di tutta la celebrazione liturgica […].

Con il pretesto di rendere più facile l’accesso a Dio, alcuni hanno voluto che nella liturgia tutto fosse immediatamente intelligibile, razionale, orizzontale e umano. Ma facendo così, corriamo il rischio di ridurre il mistero sacro a dei bei sentimenti. Sotto il pretesto pedagogico, alcuni sacerdoti si sentono autorizzati a interminabili commentari piatti e orizzontali. Questi pastori hanno paura che il silenzio davanti all’Altissimo sconvolga i fedeli? Credono che lo Spirito Santo sia incapace di aprire i cuori ai divini misteri infondendovi la luce della grazia spirituale? […]

Non si ha un certo paradosso nell’affermare la necessità del silenzio nella liturgia, allorché si riconosce che le liturgie orientali non prevedono momenti di silenzio (n. 259), mentre esse sono particolarmente belle, sacrali e devote?

La sua obiezione è sensata e dimostra che non è sufficiente stabilire dei “momenti di silenzio” affinché la liturgia sia impregnata del sacro silenzio. Il silenzio è una disposizione dell’anima. Non è una pausa tra due riti, è esso stesso pienamente un rito. I riti orientali certamente non prevedono dei tempi di silenzio durante la divina liturgia. Eppure essi conoscono intensamente la dimensione apofatica della preghiera davanti al Dio “ineffabile, incomprensibile, inafferrabile”. La divina liturgia è in qualche modo immersa nel mistero. Essa è celebrata dietro l’iconostasi che per gli orientali è il velo che protegge il mistero. Per noi latini, il silenzio è un iconostasi sonora. Il silenzio è una mistagogia, ci permette di entrare nel mistero senza svilirlo. Nella liturgia il linguaggio dei misteri è silenzioso. Il silenzio non nasconde, ma rivela in profondità […]. Spesso usciamo dalle nostre liturgie rumorose e superficiali senza aver incontrato Dio e la pace interiore che egli vuole offrirci.

Dopo la sua conferenza a Londra nel luglio scorso, lei è ritornato sull’orientamento della liturgia ed ha auspicato di vederlo applicato nelle nostre chiese: perché è così importante per lei e come immaginerebbe di mettere in pratica questo cambiamento?

Convertirsi, etimologicamente, è rivolgersi, voltarsi verso Dio. Non c’è un vero silenzio della liturgia, se noi non siamo -con tutto il nostro cuore- rivolti verso il Signore. Bisogna convertirsi, rivolgersi verso il Signore, per guardarlo, contemplare il suo volto e prostrarsi ai suoi piedi per adorarlo. Abbiamo un esempio: Maria Maddalena ha potuto incontrare Gesù al mattino di Pasqua, perché si è rivolta verso di lui: «hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’hanno posto». «Haec cum dixisset, conversa est retrorsum et videt Jesus stantem – detto questo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi» (Gv. 20, 13-14).

Come entrare in questa disposizione interiore se non volgendoci fisicamente, tutti insieme, sacerdoti e fedeli, verso il Signore che viene, verso l’oriente simboleggiato dall’abside dove troneggia la croce?

L’orientamento esteriore ci porta all’orientamento interiore, simboleggiato da quello. Fin dai tempi apostolici, i cristiani hanno conosciuto questo modo di pregare. Non si tratta di celebrare con le spalle o di fronte al popolo, ma verso l’oriente, ad Dominum, verso il Signore. Questo modo di fare favorisce il silenzio. In effetti il celebrante ha meno la tentazione di monopolizzare la parola. Rivolto al Signore, è meno tentato di divenire un professore che dà una lezione durante la Messa, riducendo l’altare ad una tribuna il cui perno non sarà più la croce ma il microfono! […]

È chiaro che questo modo di fare, legittimo e desiderabile, non deve essere imposto come una rivoluzione. So che in molti posti una catechesi preparatoria ha permesso ai fedeli di far proprio ed apprezzare l’orientamento. Vorrei tanto che questa questione non divenga l’occasione di uno scontro ideologico tra fazioni! Si tratta della nostra relazione con Dio […]. Non intendo opporre una pratica all’altra. Se materialmente non è possibile celebrare ad orientem, bisogna necessariamente mettere una croce sull’altare, bene in vista, come punto di riferimento per tutti. Il Cristo in croce è l’oriente cristiano.

Lei accenna alla “riforma della riforma” che auspica (n. 257): in cosa dovrebbe consistere principalmente? Riguarderebbe le due forme del rito romano o solamente la forma ordinaria?

La liturgia deve sempre riformarsi per essere più fedele alla sua essenza mistica […]. La riforma riguarda le due forme del rito romano. Mi rifiuto di passare il nostro tempo opponendo una liturgia a un’altra, o il rito di San Pio V a quello del beato Paolo VI. Si tratta di entrare nel grande silenzio della liturgia; bisogna sapersi lasciar arricchire da tutte le forme liturgiche latine o orientali. Perché la forma straordinaria non dovrebbe aprirsi a ciò che la riforma liturgica scaturita dal Vaticano II ha prodotto di meglio? Perché la forma ordinaria non dovrebbe poter ritrovare le antiche preghiere dell’offertorio, le preghiere ai piedi dell’altare, un po’ di silenzio durante alcune parti del Canone?

Senza uno spirito contemplativo, la liturgia rimarrà un’occasione di astiose lacerazioni e di scontri ideologici, di umiliazioni pubbliche dei deboli da parte di coloro che pretendono di detenere un’autorità, mentre essa dovrebbe essere il luogo della nostra unità e della nostra comunione nel Signore […].

All’interno del contesto liturgico attuale del mondo latino, come superare la diffidenza che si trova tra alcuni seguaci delle due forme liturgiche dello stesso rito romano che si rifiutano di celebrare l’altra forma e talvolta la considerano con un certo disprezzo?

Rovinare la liturgia significa rovinare il nostro rapporto con Dio e l’espressione della nostra fede cristiana […]. Sì, il diavolo vuole contrapporci gli uni agli altri proprio nel cuore del sacramento dell’unità e della comunione fraterna. È tempo che cessino il disprezzo, la diffidenza e il sospetto. È tempo di ritrovare un cuore cattolico. È tempo di ritrovare insieme la bellezza della liturgia […].

(traduzione a cura di Luisella Scrosati)

 

Il silenzio di Dio

“Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sapienza 18,14)

 

 

“Io grido a te ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta”, urla Giobbe contro quel Dio che aveva servito e riverito e dal quale era stato messo alla prova, piagato nel corpo, lasciato quasi solo al mondo. E’ l’imprecazione dell’uomo, umanissima, naturale. Disperata e disarmata dinanzi a quel silenzio incomprensibile. Gustave Flaubert ha elevato quelle pagine alla cosa più bella mai letta nella vita; Benedetto XVI, varcando i confini di Auschwitz, dieci anni fa, chiedeva conto a Dio del perché avesse taciuto davanti al lungo camino che lavorava indefesso nel compiere lo sterminio voluto da mano umana. Al silenzio (dell’uomo, di Dio, dell’uomo davanti a Dio e di Dio davanti all’uomo) il cardinale Robert Sarah ha dedicato il suo ultimo libro, pubblicato qualche giorno fa in Francia ed edito da Fayard, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, una conversazione con Nicolas Diat, con il quale aveva già firmato Dio o niente (2015). Il Dio silenzioso, che non parla né interviene nelle cose di questo mondo in modo palese è anche la più ovvia delle giustificazioni per quanti ne negano l’esistenza, professandosi banalmente agnostici o rifacendosi a dotte elucubrazioni kantiane.

 

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“Ma se Dio rinuncia alla potenza, allora non è Dio”, scrive Sarah. “L’infinito di Dio non è un infinito nello spazio, un oceano senza fondo e senza sponde”. Dio – osserva il cardinale – “non è indifferente al male. In primo luogo, possiamo credere che Dio permetta il male per distruggere gli uomini. Ma se Dio tace, soffre con noi per il male che ha lacerato e sfigurato la terra. Se cerchiamo di essere con Dio nel silenzio, si capisce la sua presenza e l’amore”. L’uomo è ansioso di dare una risposta alle difficoltà, alle sofferenze, ai disastri che si abbattono sull’umanità. Da sempre è così, fino dai tempi di Giobbe. “Ma ci dimentichiamo che l’origine dei nostri mali nasce dall’illusione che siamo qualcosa di diverso dalla polvere. L’uomo che si fa divinità non vuole riconoscere che è un mortale”. Giovanni Paolo II disse che “il silenzio divino è spesso motivo di perplessità e persino di scandalo, tuttavia non si tratta di un silenzio che indica un’assenza, quasi che la storia sia lasciata in mano ai perversi e il Signore rimanga indifferente e impassibile”. In realtà, chiosava Karol Wojtyla, “quel tacere sfocia in una reazione simile al travaglio di una partoriente che s’affanna, sbuffa e urla. E’ il giudizio divino sul male, raffigurato con immagini di aridità, distruzione, deserto, che ha come meta un risultato vivo e fecondo”.

 

Il fatto è che “molti dei nostri contemporanei non possono accettare il silenzio di Dio. Non ammettono che sia possibile entrare in comunicazione in modo diverso che non siano le parole, i gesti o le azioni concrete e visibili”. Ma “Dio parla attraverso il silenzio”. Il suo silenzio è una parola. Per comprenderlo, oggi, si deve salire su qualche eremo isolato o calpestare le pietre fredde di vecchi monasteri – sempre più rari – rimasti quasi uguali nei secoli. O ancora, scalare le vette montane, come suggeriva Giovanni Paolo II, per accorgersi che Dio effettivamente esiste, ché quella beltà non può che derivare dal disegno misterioso e affascinante del Creatore.

 

 

“Credo che noi siamo le vittime della superficialità, dell’egoismo e dello spirito mondano. Ci perdiamo in lotte per stabilire l’influenza, in conflitti tra persone, in un narcisistico e vano attivismo”, ha detto il cardinale Robert Sarah in una recente intervista concessa alla Nef. “Ci gonfiamo di orgoglio e di pretese, prigionieri di una volontà di potenza. Per cercare titoli, incarichi professionali o ecclesiastici accettiamo compromessi vili. Ma tutto ciò passa, come il fumo. Nel mio libro – aggiunge – ho voluto invitare i cristiani e le persone di buona volontà a entrare nel silenzio. Senza di esso, ci troviamo in un’illusione. L’unica realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio tace. Aspetta il nostro silenzio per rivelare se stesso”. Anche per questo, scrive ne La forza del silenzio, “è necessario uscire dal tumulto interiore per trovare Dio. Nonostante i turbamenti, il consumismo, i piaceri facili, Dio resta silenziosamente presente. E’ in noi come un pensiero, una parola e una presenza le cui fonti segrete sono nascoste nello stesso Dio, inaccessibili agli occhi umani”.

 

C’è un paradosso, se si vuole considerarlo tale, nell’invocare la solitudine, l’isolamento da tutto per ritrovare se stessi e gli altri. “La solitudine è lo stato migliore per trovare il silenzio di Dio. Per chi vuole trovare il silenzio, la solitudine è la montagna che deve essere scalata”. Un’impresa, insomma. Perché oggi, e Sarah lo ripete più volte, “i poteri mondani che cercano di plasmare l’uomo moderno scartano metodicamente il silenzio”. In un mondo ipertecnologico come quello contemporaneo, come è possibile trovare questo silenzio? Non è questione di iscriversi a corsi per sconnettersi da internet né di spegnere per qualche ora lo smartphone che spesso fa percepire come vere e reali relazioni che in realtà sono meramente virtuali. “Abbiamo la sensazione che il silenzio sia divenuto un’oasi inattingibile. Senza rumore, l’uomo postmoderno cade in una inquietudine sorda e lancinante. E’ abituato a un rumore di fondo permanente, che lo rende malato e lo rassicura”.

 

Senza rumore, aggiunge il cardinale prefetto del Culto divino e la disciplina dei sacramenti, l’uomo pare perduto. Il rumore lo rassicura, come una droga da cui è divenuto dipendente. L’agitazione diviene un tranquillante, un sedativo, una dose di morfina, una forma di sogno, d’onirismo senza consistenza”. Uno stato che fa perdere i riferimenti vitali e necessari e ancora di più il contatto con Dio, con la preghiera. “Il nostro mondo non comprende più Dio perché parla continuamente, a un ritmo e a una velocità della luce, per non dire niente. La civiltà moderna non sa tacere, nega il passato e vede il presente come un vile oggetto di consumo. Guarda l’avvenire attraverso le ragioni di un progresso quassi ossessivo”. C’è l’illusione che con “le manifestazioni esteriori”, osserva il cardinale, si abbia la prova della prossimità divina: ma “i nostri amici più vicini, a volte, sono lontani da noi, impediti dall’amarci”.

 

In uno scritto pubblicato all’inizio dell’anno, Sarah osservava che “in senso negativo il silenzio è l’assenza di rumore. Può essere esteriore o interiore”. Nel corso della sua visita a Sulmona, nel luglio del 2010, Benedetto XVI aveva riflettuto proprio su questo punto, sottolineando come noi “viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere riempito da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri”.

 

La riflessione di Robert Sarah si sposta sull’occidente, incapace di godere del silenzio e quindi di pregare. Lui, uomo d’un piccolo villaggio della Guinea che proprio in un monastero francese si è convinto sempre di più di quanto il silenzio orante sia svanito, portandosi dietro molto dell’eredità che aveva reso grande e prospero il cristianesimo nel Vecchio mondo. Senza silenzio si perde anche il senso del sacro, scrive oggi. E’ sufficiente guardare, in molte realtà grandi e piccole, lo stato della liturgia, gli abusi e le frequenti “autocelebrazioni di preti che entrano in chiesa trionfalmente”. Silenzio e sacro: i due aspetti sono connessi, se cade uno cade anche l’altro. L’aveva già rimarcato qualche mese fa, auspicando anche una riscoperta della pratica ascetica, divenuta ormai cosa per pochi eletti. L’ascesi, “una parola estranea alla nostra società consumistica che spaventa i nostri contemporanei, compresi anche i cristiani, che subiscono l’influenza dello spirito mondano è un mezzo indispensabile che ci aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto quanto l’appesantisce, vale a dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore, e che dunque costituisce un ostacolo per la preghiera. Ed è proprio nella preghiera che Dio ci comunica la sua Vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima, irrigandola con i flutti del suo Amore trinitario: il Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio”.

 

Oggi, invece, si moltiplicano le “immense celebrazioni eucaristiche composte da migliaia e migliaia di partecipanti” che altro non fanno se non favorire il pericolo di “trasformare l’eucaristia, il grande mistero della fede, in una banale kermesse”, scrive il cardinale. “I preti che distribuiscono le sacre specie non conoscono nessuno e danno il corpo di Gesù a tutti, senza discernimento tra i cristiani e i non cristiani, partecipano alla profanazione del santo sacrificio eucaristico”. Il risultato di queste “gigantesche e ridicole autocelebrazioni” è che “davvero pochi comprendono che ‘voi annunciate la morte del Signore affinché egli venga’”. Di nuovo, serve silenzio. “Non illudiamoci. Questa è la cosa veramente urgente: riscoprire il senso di Dio”, ha aggiunto ancora alla Nef: “Il Padre si lascia avvicinare solo nel silenzio. Ciò di cui la chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un altro programma pastorale, un cambiamento strutturale. Il programma c’è già: è quello che abbiamo sempre avuto, tratto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. E’ centrato su Cristo stesso, che dobbiamo conoscere, amare e imitare, per vivere in Lui e per Lui, per trasformare il nostro mondo che è degradato, perché gli esseri umani vivono come se Dio non esistesse”.

 

di Matteo Matzuzzi | 09 Ottobre 2016 ore 06:18