Quella marcia di cento anni fa che ci interroga ancora oggi

È PASSATO UN SECOLO

di Luigi Copertino

In questi giorni è caduto il centenario della Marcia su Roma dell’Ottobre 1922. Un evento che è stato senza dubbio una svolta nella storia italiana ed europea benché, per certi versi, abbia rappresentato una sorta di “grande equivoco” storico. Quello di un movimento di sinistra, certo di sinistra nazionale ma comunque di sinistra, che conquista il potere attraverso un compromesso tattico ma comunque non irrilevante con le istituzioni, le forze conservatrici e i poteri economici dell’establishment dell’epoca.

Le “celebrazioni” dell’evento si sono soffermate piuttosto sugli aspetti folkloristici, con intento denigratorio, o su quelli oscuri della conseguente dittatura, senza comunque spiegarne caratteri ed effettivi contorni al di là delle moralistiche condanne. Pochi hanno ricordato che, nonostante ogni contraddizione ed ambiguità, la marcia su Roma è stato un evento che ha aperto una fase storica di più celere modernizzazione dell’Italia. Una modernizzazione che sarebbe sopravvissuta al regime fascista anche perché, data la loro formazione fascista, molti padri costituenti avrebbero scolpito i postulati ed i principi della politica modernizzatrice del ventennio fascista nella stessa costituzione repubblicana del 1948, con chiara intenzione e volontà di tradurre in chiave democratica quei postulati e quei principi che il regime aveva inverato in una forma certamente autoritaria ma fortemente debitrice di una concezione giacobina della democrazia ossia del governo delle masse.

Una Rivoluzione tutto sommato “tranquilla”

Iniziamo con il dire che il 28 ottobre di cento anni fa non accadde quasi nulla e certamente non nacque alcuna dittatura fascista. La dinamica degli eventi è stata ben ricostruita dagli storici. La Marcia su Roma fu l’esito della crisi dello Stato liberale. Uno Stato pensato sul modello ottocentesco per il notabilato terriero e la grande borghesia industriale che non resse all’irruzione sulla scena politica delle masse piccolo-borghesi e proletarie mobilitate dalla guerra nelle trincee. La Marcia, sebbene, non tranciò di netto, né poteva essere diversamente, l’assetto precedente tuttavia inaugurò una nuova concezione della politica nella quale l’elemento popolare, di massa, con i rituali comunitari e l’estetica militante, era essenziale e fondamentale. La modernizzazione, non solo infrastrutturale ma anche sociale, era certamente in atto anche prima della guerra ma il conflitto bellico aveva dato una accelerazione irresistibile.

La concentrazione delle squadre fasciste a Napoli nei giorni precedenti il 28 Ottobre, dove Mussolini parlò al San Carlo entusiasmando gli astanti tra i quali un Benedetto Croce plaudente, era stata organizzata quale dimostrazione di forza ma né Mussolini né gli altri vertici del fascismo avevano ancora deciso il da farsi. Si parlava da tempo di una marcia su Roma – nel biennio precedente i governi erano caduti uno dietro l’altro dimostrando l’incapacità della classe dirigente di riassorbire la crisi apertasi con la guerra – era stato predisposto un piano di azione ben dettagliato ma tutto era ancora in forse. Lo stesso Mussolini sembrava titubante, nonostante le ripetute minacce dei mesi precedenti, ed i gerarchi del movimento erano divisi tra attendisti e quelli pronti ad un’azione immediata. Alla fine fu deciso di marciare verso la capitale ma Mussolini, per non essere coinvolto in prima persona, tornò a Milano in attesa di verificare lo svolgersi degli eventi dalla sede de Il Popolo d’Italia.

La decisione di convergere su Roma fu infine presa perché lo stato maggiore fascista aveva compreso che o si tentava in quel momento, quello della massima crisi dello Stato liberale (l’ultimo governo, quello del liberale Luigi Facta, annaspava in modo evidente), oppure non ci sarebbe stata altra occasione in quanto il favore dell’opinione pubblica al fascismo, passato il momento più acuto dello spavento sociale indotto dal biennio rosso, andava declinando. Le squadre si diressero verso la capitale da Napoli, dalla Toscana, dall’Abruzzo (la colonna abruzzese-marchigiana era guidata da Giuseppe Bottai), dall’Umbria. Proprio a Perugia si installò il quadrumvirato, composto da Emilio De Bono, Michele Bianchi, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo, che coordinò le diverse direttrici della marcia.

In realtà, il 28 ottobre i circa 26.000 fascisti marcianti non entrarono affatto nella capitale. Se ne stavano fuori, intorno alla città, tra Tivoli e Santa Marinella, in attesa di ordini, sotto una pioggia scrosciante, digiuni ed affamati (molti rubarono galline per sfamarsi), infangati fino al collo e, particolare di non poco conto, male armati. Nel frattempo Antonio Salandra, che il 23 aveva incontrato Mussolini diretto a Napoli per proporgli di entrare nel governo, informava il capo del governo del fallimento della mediazione (Mussolini si era detto disposto a condizione che il primo ministro si dimettesse e che Salandra assumesse il ruolo di capo di un governo egemonizzato dai fascisti) sicché il povero Facta, allarmato dalle sempre più insistenti voci di una insurrezione in atto e dai telegrammi dei prefetti che segnalavano concentrazioni di fascisti un po’ in tutta la penisola nonché l’occupazione fascista di prefetture, comuni, poste e telegrafi, stazioni ferroviarie, scuole, supplicò il re, Vittorio Emanuele III, di far ritorno a Roma dal suo luogo di riposo nella tenuta di San Rossore. Inizialmente il re, tornato a Roma nella tarda serata, sembrò incline a dichiarare lo stato d’assedio, tanto è vero che Facta, senza che il sovrano avesse firmato alcun atto ufficiale, fece stampare ed affiggere manifesti governativi che lo proclamavano e fece affluire nella capitale truppe a rinforzo di quelle già presenti. Ma poi la mattina successiva, informato dell’iniziativa del primo ministro, il re si mostrò contrariato, licenziò Facta e ritirò i manifesti fatti affiggere.

Ciò che è successo tra la notte del 28 ottobre e la mattina del giorno seguente non è dato sapere con certezza. C’è chi dice che il re fu dissuaso, dal proclamare lo stato d’assedio, dal generale Diaz che lo informò di non essere certo della fedeltà dell’esercito in caso di un ordine di repressione delle squadre fasciste. C’è chi dice che lo stesso Vittorio Emanuele si rese conto che ordinare all’esercito di fermare i fascisti avrebbe significato una carneficina i cui esiti erano del tutto imprevedibili, non esclusa una insurrezione della sinistra approfittando della situazione. Fatto sta che il re non proclamò lo stato d’assedio ed inviò a Mussolini – prima in forma ufficiosa ma poi con un telegramma ufficiale preteso dallo stesso capo del fascismo – l’invito a recarsi a Roma per assumere il governo del Paese. L’ingresso delle squadre fasciste nella capitale fu reso possibile soltanto dalla nomina regia di Mussolini e solo allora, parliamo del 31 Ottobre, i fascisti sfilarono in massa nell’Urbe, soltanto perché Mussolini doveva comunque dare loro un momento di “gloria”. Ma, subito dopo la sfilata, ne organizzò il ritorno a casa perché non li voleva tra i piedi e non intendeva tollerare l’anarchia squadristica nella capitale, ora che doveva pensare a formare il nuovo governo.

Un governo, dunque, che nacque, benché sotto la spinta della pressione della piazza, secondo forme del tutto legali e nella conservazione della legalità istituzionale dell’epoca. Non fu proclamata alcuna dittatura. Essa sarebbe stata proclamata soltanto il 3 gennaio 1925, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. Un atto criminale per mano fascista ma non su ordine di Mussolini, il quale anzi capì che si trattò di un evento ordito contro di lui (successivamente aiutò economicamente la vedova Matteotti ed il figlio). La responsabilità dell’assassinio del deputato socialista va cercata nell’allora “deep State” in quanto Matteotti stava per denunciare un malaffare di corruzione nel quale erano coinvolti alcuni ministri di fiducia monarchica. Lo sdegno che ne seguì mise in crisi il governo di Mussolini, il quale fu spinto, quasi di controvoglia, al passo fatale dai ras del fascismo che non avevano gradito la svolta moderata del Mussolini governativo e soprattutto non intendevano tornare nell’anonimato nel caso di sue dimissioni.

Fino a quel momento quello di Mussolini era stato un governo di coalizione nel quale insieme ai fascisti sedevano liberali, nazionalisti, cattolici popolari, demosociali. Anzi, già nel 1921 Mussolini aveva tentato una riappacificazione con i socialisti, con l’intento di risolvere in modo condiviso la crisi nazionale. Non aveva trovato alcuna concreta risposta da parte del Psi, controllato dai massimalisti ossia dalle “sue creature”, mentre subì la forte ostilità da parte dei ras gelosi del loro potere locale e non disposti ad alcuna pacificazione. Mussolini, nell’Ottobre del 1922, non pensava ad alcuna dittatura. Né ci pensava negli anni immediatamente successivi. Se non fosse intervenuto il delitto Matteotti, probabilmente, non vi sarebbe stata la dittatura ma soltanto un governo decisionista, forte e tuttavia assolutamente interno all’alveo dello Statuto Albertino. C’era stato, del resto, un precedente esempio di governo autoritario ma legale, quello di Crispi.

Da dove arrivò il fascismo

Se quello sopra delineato è lo scenario degli eventi dell’ottobre 1922 restano da capire le cause di tali avvenimenti. Per capire, però, dobbiamo innanzitutto mettere in evidenza la falsità storica di due luoghi comuni ricorrenti ancora oggi, nonostante gli approfondimenti storiografici intervenuti, nei media e nell’insegnamento scolastico. Il primo luogo comune è quello per il quale la Marcia su Roma ed il fascismo stesso sarebbero state la reazione padronale contro il biennio rosso, che tra il 1919 ed il 1920, con l’occupazione delle fabbriche e delle terre, spaventò la borghesia italiana. Il secondo luogo comune, premessa del primo, è che il fascismo fu un movimento reazionario, mero squadrismo armato al servizio di industriali e latifondisti ma anche di mezzadri, fattori e piccoli proprietari terrieri, che non avevano alcuna intenzione di cedere alla prospettiva della collettivizzazione industriale e fondiaria.

In realtà il fascismo nacque il 23 marzo 1919 come concentrazione – a dire il vero a quella data ben poco numerosa – dell’interventismo di sinistra che tra il 1914 ed il 1915 aveva mobilitato le piazze per l’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale a fianco delle nazioni democratiche e contro gli imperi “reazionari”. Esso nasceva nel solco del socialismo post ed a-marxista, del sindacalismo rivoluzionario, del socialismo risorgimentale (non senza apporti dell’organicismo sansimoniano), del repubblicanesimo democratico mazziniano, del neo-idealismo crociano e gentiliano con la loro “riforma spiritualistica del marxismo”, delle correnti vitaliste ed irrazionaliste (sarebbe meglio definirle tuttavia post-razionaliste), dal futurismo al dannunzianesimo, che tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo avevano preso corpo in riviste come “La Voce”, “Il Leonardo”, “La Critica” (Papini, Prezzolini, Gobetti) e che, in un misto di pragmatismo e magismo, di stirnerismo e niccianesimo, inneggiavano ad una “Nuova Italia”, nella linea della Terza Roma mazziniana, che ponesse fine all’Italietta monarchica, borghese, capitalista e liberale ed inaugurasse una politica di potenza internazionale e di rivoluzione sociale interna. Si trattava di superare il marxismo integrando il socialismo con la nazione non intesa – attenzione! – come tradizione ma come mito politico atto a mobilitare le masse alla costruzione di una inedita città politica che inverasse il sogno rivoluzionario ed antitradizionale inaugurato dai giacobini tra il 1789 ed il 1793.
Non a caso il programma sansepolcrista del fascismo diciannovista, che sarà ripreso nel 1943 dalla Repubblica Sociale Italiana, era un programma dichiaratamente di sinistra, di una sinistra democratica, riformista e repubblicana ma socialmente molto avanzata tanto da delineare in prospettiva una democrazia sociale e ad un tempo nazionale. Esso prevedeva la partecipazione operaia alla gestione ed agli utili aziendali, il suffragio universale anche femminile, una imposta progressiva sulle proprietà e i profitti di guerra, la separazione Stato-Chiesa, la sindacalizzazione dei servizi pubblici. Nei quadri intellettuali e militanti del fascismo, tra 1919 e 1921, forte era la presenza di una folta schiera di sindacalisti rivoluzionari o mazziniani, come Alceste De Ambris (che era stato l’estensore della dannunziana, socialmente avanzatissima, Carta del Carnaro e che si poi sarebbe allontanato dal fascismo a causa della virata verso destra), di socialisti rivoluzionari, come il romagnolo Olao Gaggioli, di repubblicani mazziniano-socialisti, come l’altro romagnolo Pietro Nenni antico amico/rivale di Mussolini e con lui sodale nella organizzazione della “settimana rossa”, tra Romagna e Marche, nel 1911 contro la guerra di Libia e con lui, a seguito di quei fatti, ospite delle patrie galere dove forse Mussolini, dopo aver assistito in quell’occasione all’immobilismo parolaio del Psi, iniziò a maturare la convinzione che non sarebbe mai stato il partito socialista ufficiale a fare la rivoluzione italiana.

Lo stesso Mussolini – che secondo Augusto del Noce ebbe sempre fissa un’idea ossia la galvanizzazione rivoluzionaria del marxismo attraverso Nietzsche – travolto dai colpi di pistola esplosi a Sarajevo, che causarono il fallimento della Seconda Internazionale allorché tutti i partiti socialisti europei, ad eccezione di quello italiano, si schierarono con le rispettive nazioni in guerra, effettuò nel 1914 un bagno di realismo tale da portarlo a riconsiderare l’internazionalismo marxista, a scoprire la possibilità di un socialismo nazionale ed a prendere atto del fatto che la nazione non è un’astrazione borghese, secondo il cliché marxista, ma una concreta realtà “carnale”, ineludibile, della quale il socialismo dovrebbe tener conto se vuole realizzarsi mettendo al bando ogni utopia, per usare un linguaggio odierno, “globalista”. Quando nel secondo dopoguerra Palmiro Togliatti, che nel 1936 aveva pubblicato un appello comunista ai “fratelli in camicia nera” rivolto alla sinistra fascista, parlò di via nazionale al socialismo, non fece altro che ripercorrere il percorso anticipato da Mussolini nel 1914.

Prendendo atto del fallimento dell’internazionale socialista, Mussolini si avvicinò al socialismo eterodosso ed interventista scoprendo, come si è già detto, la nazione ma nella prospettiva del filone giacobino e risorgimentale. Benché una prospettiva del genere fosse destinata ad incrociare il nazionalismo “ateo” alla Maurras ed alla Taine, ovvero il versante destro della modernità – il quale con personaggi come Enrico Corradini e Filippo Carli, e per certi versi lo stesso Alfredo Rocco, stava volgendo anch’esso verso un nazionalismo sociale –, essa rappresentava la negazione della nazione intesa come storia, cultura, identità spirituale e tradizione. La “nazione” giacobina, infatti, è una auto-realizzazione volontarista, una costruzione del futuro, che rompe con la Tradizione spirituale e non ha nulla a che fare con la nazione quale retaggio ed appartenenza culturale da conservare e trasmettere integra alle future generazioni. Lo stesso mito della romanità, risalente a Robespierre (il fascio littorio fu adottato come simbolo dai giacobini francesi), è appunto, anche nella sua versione ottocentesca mazziniana, soltanto un mito filosofico-politico che non attingeva affatto alla realtà storica di Roma, quale essa fu, perché, con tutta evidenza, non poteva attingere a ciò che ormai era scomparso ed impossibile a restaurarsi nella sua effettività storica. Un mito, dunque, “neopagano” non a caso usato polemicamente, tra settecento e ottocento, dalle correnti rivoluzionarie illuministe e poi romantiche, contro la “Roma Cristiana dei Papi”, contro la Tradizione religiosa che per venti secoli aveva forgiato l’Europa, e, quindi, contro la nazione se intesa quale comunità politica di natura nel più vasto alveo di una Cristianità Universale.

Che il fascismo non si ascrivesse nel novero della “reazione antimoderna” ma, al contrario, nella punta avanzata della modernità, lo aveva ben compreso, nella sua iniziale posizione gentiliana, uno dei massimi intellettuali fascisti, Giuseppe Bottai, il quale, nella conferenza tenuta a Roma il 27 marzo 1924 sul tema “Il fascismo come rivoluzione intellettuale”, poneva un abisso tra fascismo e tradizione antidemocratica, ossia antimoderna. Infatti, criticando l’esegesi di Giovanni Amendola del fascismo, Bottai osservava “Se … la nostra rivoluzione intellettuale si innesta nel grande solco della critica alla Rivoluzione francese, ciò non significa … che il Fascismo si identifichi con la critica negativa d’un Bonald, d’un De Maistre, d’un Burk, di un Taine, corrodente la stessa idea dello Stato nazionale che è alla base della Rivoluzione Fascista. Tra quella critica e il Fascismo, sta la filosofia idealistica di Kant e di Hegel, che investe d’una nuova e più viva corrente critica i principi dell’89: sta sopra tutto, la critica profonda e rivoluzionaria di Giorgio Sorel, che preoccupato di rialzare i valori spirituali e morali, stabilisce la continuità della cultura positivistica sorta verso la metà del secolo XIX, corruttrice, diseducatrice e mediocrista, con l’illuminismo del secolo XVIII e reagisce così, in modo ben diverso dai De Maistre e Bonald, al culto delle utopie […]. […] lo … Stato Fascista … si oppone come stato etico, risolvente la democratica antitesi Stato-individuo in un rapporto produttivo, allo Stato liberale e democratico. Questa concezione moderna dello Stato etico, filosoficamente apparsa in Italia con Machiavelli, maturatasi con Vico, Spaventa, De Meis, politicamente promossa dal Nazionalismo, limpidamente formulata nella filosofia di Croce e di Gentile, è alla base del Fascismo…“. Bottai spiegava la critica fascista all”89 non come una critica antimoderna ma quale estensione ulteriore degli stessi principi della democrazia diretta di popolo rimasti incagliati nella gabbia liberale, borghese e moderata della democrazia liberale, priva del consenso e della partecipazione delle masse, che si era realizzata nell’ottocento proprio mentre andava maturando, sul piano filosofico del pensiero, il consequenziale sviluppo, uno sviluppo del moderno “principio di immanenza”, dei postulati rivoluzionari nella scia dell’idealismo e del post-razionalismo soreliano e sindacalista rivoluzionario.

Che, poi, diversi socialisti fascisti – senza dubbio lo stesso Bottai ma secondo taluni anche Mussolini nell’ultima fase della sua vita – sono passati dalla costruzione filosofica della nazione giacobinamente intesa alla (ri)scoperta della nazione quale tradizione identitaria, quale cultura storica di un popolo, e per questa via al ritorno alla fede religiosa cristiana dei padri, è vero – il che dimostra come tale passaggio è sempre possibile – ma si tratta di un altro discorso. Che ha a che fare con le scelte personali e con la Provvidenza. Un discorso che ci porterebbe lontano e che qui non facciamo.

Produttivismo

Il punto di convergenza tra socialismo e nazione, nella prima parte del XX secolo, fu trovato nel “produttivismo” che era una corrente fortemente presente nella sinistra europea, francese in particolare (quella con la quale Mussolini ebbe frequenti rapporti: furono i socialisti francesi a procurargli i fondi necessari ad aprire Il Popolo d’Italia “quotidiano socialista” nel 1914 che diventò nel 1918, non a caso, “quotidiano dei produttori”). Il produttivismo mirava alla integrazione socialista tra tutti i fattori della produzione, capitale tecnica e lavoro, in un’ottica organicista che garantisse la collaborazione, nel momento della produzione, tra i “produttori”, ossia imprenditori reali (con il bando del capitale finanziario ritenuto parassitario) e lavoratori, e quindi, sulla base di contratti collettivi tutelati dallo Stato, nella fase successiva alla produzione, l’equa redistribuzione tra tutti i ceti della nazione della ricchezza prodotta, in una solidarietà interclassista ma socialmente avanzata. “Lavoratori di tutte le classi della nazione unitevi!” recitava uno slogan fascista che rileggeva in chiave di socialismo nazionale il motto marxista “proletari di tutto il mondo unitevi!”.

Per questo – come messo in rilievo, tra gli altri, da Emilio Gentile, uno degli storici eredi di Renzo De Felice – Mussolini, tra il 1919 ed il 1922, era del tutto onesto e sincero quando perorava il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice in un contesto nazionale di modernizzazione dell’Italia. Il futuro “Duce”, finanziamenti a parte al fascismo, non ha mai complottato con industriali ed agrari per garantirne la continuazione del potere sociale. Mussolini non era un reazionario.

Il produttivismo, quale forma del socialismo nazionale, è un motivo che torna di continuo nei discorsi di Mussolini sin dal 1914. In quello di Bologna del 3 aprile 1921, ad esempio, egli dichiarò “Non si deve fare del contrabbando stolto, reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo. Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la maestà di sua maestà il proletariato. Noi partiamo da un altro punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere una grande nazione … se le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento. È necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una pratica che io chiamerei mazziniana, la quale concilii e debba conciliare il diritto col dovere, … questa massa enorme di decine di milioni di gente che lavora … sia portata sempre più ad un livello superiore di vita. È stolto ed assurdo dipingerci come i nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in ispirito con coloro che lavorano; ma non facciamo distinzioni assurde (…). (…). Per noi tutti lavorano: anche l’astronomo che sta nella sua specola a consultare la traiettoria delle stelle lavora; anche il giurista, l’archeologo, lo studioso di religioni; anche l’artista lavora, quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano; lavora anche il minatore, il marinaio, il contadino. Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda; noi vogliamo che tra spirito e materia … si realizzi la comunione, la solidarietà della stirpe. Ed allora questo fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più o meno piagnoni: andatevene da questi templi che minacciano rovina perché la nostra eresia trionfante è destinata a portare luce in … tutti gli animi“.

Nel discorso di Udine del 20 settembre 1922, parlando del sindacalismo fascista, Mussolini spiegava che esso si “diversifica da quello degli altri, perché noi […] Siamo per la collaborazione di classe […]. Quindi cerchiamo di fare penetrare ne[…]i nostri sindacati questa verità e questa concezione. Però bisogna dire, con altrettanta schiettezza, che gli industriali ed i datori di lavoro non debbono ricattarci, perché c’è un limite oltre il quale non si può andare; e gli industriali stessi ed i datori di lavoro, la borghesia, per dirla in una parola, … deve rendersi conto che nella nazione c’è anche il popolo, una massa che lavora, e non si può pensare a grandezza di nazione se questa massa è inquieta, oziosa, e che il compito del fascismo è di farne un tutto organico colla nazione…“.

Nel discorso a Cremona del 26 settembre 1922 Mussolini definiva “canaglie” coloro che tacciavano il fascismo di essere nemico delle classi lavoratrici e questo perché il futuro duce rivendicava l’estrazione popolare dei fascisti “figli del popolo” che hanno conosciuto “la rude fatica delle braccia” e che hanno sempre vissuto fra la gente del lavoro “che è infinitamente superiore a tutti i falsi profeti che pretendono di rappresentarla”. E tuttavia l’avanzamento sociale del lavoro manuale non poteva che avvenire nel quadro dell’integrazione organica tra capitale produttivo (non finanziario) e lavoro operaio, come ebbe a spiegare nel suo discorso in Parlamento del 16 novembre 1922: “Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici della città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle altre, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della Nazione“.

Proclami, certo, semplici a farsi ma difficili da realizzare e che infatti per tutto il ventennio costituirono l’oggetto della tensione tra le due anime del fascismo, per dirla con Giuseppe Bottai, quella conservatrice e quella rivoluzionaria mentre la Confindustria faceva di tutto per contrastarli laddove si manifestava la volontà del regime di applicarli seriamente. E capitò sovente, soprattutto negli anni ’30, nella fase dirigista del regime dopo quella liberista degli anni ’20, che tale volontà fascista di attuare il socialismo nazionale si manifestasse concretamente, sicché se non fosse intervenuta la guerra la “seconda ondata rivoluzionaria”, attesa dalla sinistra fascista, avrebbe probabilmente avuto uno sbocco concreto. L’applicazione effettiva del socialismo produttivista, infatti, almeno in parte ebbe un seguito tangibile nell’ambito del progetto di nazionalizzazione e, quindi, anche di socializzazione delle masse perseguito dal regime, in particolare, come detto, negli anni ’30.

Il Biennio Rosso, la piccola borghesia e il “fascismo di destra”

Alla luce di quanto sopra resta ora da comprendere perché il fascismo, tra il 1920 ed il 1922, abbia svoltato verso destra accettando l’accostamento di “fiancheggiatori” conservatori e di forze economiche interessate soprattutto, illusoriamente, a fermare qualsiasi riformismo sociale. In realtà, come abbiamo detto agli inizi, fu tutto un grande equivoco che durò vent’anni e si risolse, con la vittoria dei “fiancheggiatori”, soltanto il 25 luglio del 1943. Ma per capirne le dinamiche è necessario tener conto di cosa fu effettivamente il cosiddetto “biennio rosso”, del 1919-20, ed il grande spavento della borghesia italiana.

Il biennio rosso, con l’occupazione delle fabbriche e delle terre, non fu affatto una rivoluzione troncata poi dalla violenza squadrista come racconta la vulgata. Fu soltanto un moto sociale senza alcuna possibilità di sbocchi rivoluzionari, come in Russia, perché – nonostante il mito bolscevico alimentato dai massimalisti all’interno del Psi e dalla frazione comunista che poi nel ’21 a Livorno si staccò dal partito socialista – in Italia, paese molto più avanzato dell’impero zarista e dalla struttura sociale molto più complessa ed articolata, non sussistevano le condizioni necessarie per una rivoluzione. Il biennio fu il contraccolpo del malcontento seguito alla fine della guerra con la crisi economica esplosa nel riassetto di pace dell’economia italiana ed europea e, se certamente spaventò la borghesia, finì ben presto per sgonfiarsi insieme alla retorica rivoluzionaria e parolaia del socialismo ufficiale, quel “pussimo” (PUS ovvero Partito Socialista Ufficiale) che era l’oggetto della avversione della sinistra interventista ed eterodossa che andava maturando nel fiumanesimo e nel fascismo sansepolcrista. Tra i fascisti che, appena un mese dopo la fondazione nel marzo 1919 dei “fasci di combattimento”, assalirono la sede de “L’Avanti!” non vi era ombra di nazionalisti. Si trattava di futuristi, sindacalisti rivoluzionari, repubblicani democratici, socialisti interventisti i quali osteggiavano il socialismo ufficiale responsabile di non aver appoggiato lo sforzo bellico rivoluzionario, a fianco delle potenze democratiche, per l’estensione in Europa della democrazia nella prospettiva della rivoluzione sociale.

Quale era la costituzione sociale di questa sinistra interventista? Si trattava del ceto medio, della piccola borghesia, incastrata tra capitalismo e proletariato e, quindi, disposta ad allearsi con la destra o con la sinistra purché fosse garantita la sua egemonia politica e sociale. Il Psi non comprese le esigenze di questo ceto medio sia perché viveva nell’illusione parolaia della rivoluzione bolscevica sia perché nella piccola borghesia in divisa, che tornava dalle trincee, vedeva erroneamente la “reazione” laddove invece si trattava di ceti emergenti (non decadenti secondo l’errata e postuma interpretazione marxista incapace di scorgere la complessità delle società moderne) costituiti da professionisti, studenti, funzionari, maestri di scuola, giornalisti, impiegati, piccoli imprenditori ed artigiani, piccoli proprietari terrieri, comunque da fasce sociali più vicine al proletariato che al capitale. Ceti nuovi nati dalla stessa dinamica dello sviluppo industriale, che con l’esperienza della guerra avevano maturato la propria “coscienza di classe” nonché avevano scoperto di costituire l’asse portante della nazione e che, pertanto, rivendicavano un maggior spazio politico nella prospettiva di una “Nuova Italia”. Il mito della Nazione, infatti, diventò per questa piccola borghesia la bandiera della propria rivoluzione che era, a causa della chiusura del Psi, antisocialista ma senza essere pro-capitalista. D’altro canto il ceto medio – che, ripetiamo, non è il capitalismo – è stato la trave portante degli Stati nazionali anche in regime democratico. Solo negli Stati nazionali i lavoratori sono riusciti a conquistare diritti sacrosanti proprio perché il ceto medio ha imposto la “socializzazione” del capitalismo.

Mussolini nel 1919 aveva subito una sonora batosta elettorale con la lista dei fasci di combattimento. Non era stato eletto (ed insieme a lui neanche Arturo Toscanini candidato con i fasci), tanto che i suoi vecchi compagni de “L’Avanti!”, ancora inferociti per la sua svolta interventista del 1914, pubblicarono un editoriale nel quale lo sbeffeggiavano narrando di un cadavere politico in avanzato stato di putrefazione rinvenuto nei navigli milanesi. Ma, molto più acutamente dei suoi ex amici ed ora avversari, intuì, forse per primo, la portata rivoluzionaria del disagio del ceto medio, della piccola borghesia in divisa, titolando il 15 dicembre 1917 “Trincerocrazia” un noto fondo de “Il Popolo d’Italia” nel quale esaltava questa nuova “aristocrazia rivoluzionaria di combattenti” come la classe del futuro.

La piccola borghesia emergente del primo dopoguerra aderì al fascismo, inteso come socialismo nazionale, in quanto la sinistra ufficiale, internazionalista, la osteggiava. La chiusura del Psi alla piccola borghesia provocò il momentaneo slittamento di essa e del fascismo verso la destra nazionalista ma non l’abbandono del socialismo nazionale. La finalità ultima, pur nel compromesso, restava quella dell’implementazione di una “nazione sociale” egemonizzata dal ceto medio. Se al socialismo ufficiale, incapace di comprendere le dinamiche sociali in atto – quello che Mussolini chiamava “socialismo dottrinario” ed al quale opponeva la libertà di un movimento non sclerotizzato in schemi ottocenteschi precostituiti –, sfuggiva la realtà storica del momento, non così invece alle più avvedute intelligenze conservatrici che paventavano un esito non istituzionale del fascismo ma rivoluzionario. Come ad esempio, all’indomani della Marcia su Roma, nel 1923 Luigi Salvatorelli, editorialista della confindustriale “La Stampa”, che nel suo “Nazionalfascismo” (apparso a Torino per le edizioni di Piero Gobetti), individuando la base sociale di massa del movimento di Mussolini nella piccola borghesia rivoluzionaria, metteva in guardia gli industriali dall’anticapitalismo fascista.

Ma sebbene avvertiti dal Salvatorelli, industriali e proprietari terrieri, tra il 1920 ed il 1921, avevano poche possibilità di scelta. A fronte del dilagare dello “squadrismo rosso” iniziarono a guardare, anche in termini di concreti finanziamenti, ai soli che ad esso si opponevano nelle piazze, benché da sinistra come si è visto, ossia agli squadristi neri (il nero era stato scelto dal fascismo perché era il colore dei ferrovieri ed in genere dei lavoratori dei campi in quanto nascondeva meglio la sozzura di chi inevitabilmente si imbrattava lavorando). Furono per primi gli agrari a ricorrere agli squadristi fascisti contro le occupazioni delle terre organizzate dai socialisti massimalisti. Le attenzioni degli industriali arrivarono in un secondo momento, quando anche le fabbriche iniziarono ad essere occupate e la produzione a fermarsi, e maturarono pienamente soltanto con l’accordo di Palazzo Vidoni, nel 1925, tra Confindustria e Corporazioni Sindacali Fasciste di Edmondo Rossoni, già sindacalista rivoluzionario e socialista, che si riconobbero reciprocamente come unici interlocutori nella contrattazione collettiva. Prima di allora la Confindustria non si fidava della capacità rappresentativa del sindacalismo fascista e non lo prese in considerazione fino a che non si avvide della tumultuosa crescita di adesioni e consensi da parte dei lavoratori verso l’organizzazione sindacale di Rossoni.

Il biennio rosso, magnificato dalla narrazione marxista come un momento di “purezza rivoluzionaria”, fu invece un moto sociale che destabilizzò il Paese senza alcuna prospettiva politica. Esso espresse soltanto una esplosione di violenza, spesso gratuita, contro chiunque fosse considerato, nell’esaltazione dell’illusione bolscevica, quale nemico di classe. Era certamente anche l’esito del clima bellicoso imposto dalla guerra e che era penetrato nelle coscienze, pure di chi la guerra l’aveva osteggiata, ma senza dubbio aveva connotati di assoluta arbitrarietà e spesso di impoliticità anarcoide camuffata da prospettiva rivoluzionaria. Si trattò di un campionario di soprusi e prepotenze contro soldati e reduci aggrediti e vilipesi insieme ai simboli della vittoria, contro gli stessi lavoratori che non accettavano – se ne lamentava per prima la CGdL che si vedeva estromessa dalle relazioni contrattuali – la subordinazione “sindacale” alla volontà dei capi lega locali i quali li usavano come massa di manovra del proprio illegale potere territoriale, contro i preti impediti persino di celebrare Messa e di seppellire i defunti.

La violenza politica, come ha ben documentato lo storico Roberto Vivarelli (1), non fu inaugurata dal fascismo ma dalla sinistra. Quella di quest’ultima non fu soltanto una violenza fisica, con assassini ed eccidi rimasti sovente impuniti, ma anche sociale. Le figure principali prese di mira dalla violenza rossa erano i militari, in particolare gli ufficiali ossia il piccolo borghese in divisa, ed il prete. I treni e gli autobus non partivano quando a bordo c’era un soldato o un ecclesiastico, che venivano puntualmente picchiati e defenestrati. Chiese, oratori e parrocchie furono incendiate a centinaia, le processioni religiose profanate e si giunse anche allo stupro politico di suore e novizie come pure delle collegiali. Accadde, ad esempio, ad Ottobiano, in Lomellina, il 13 maggio 1920 (2), quando un gruppo di ragazze cattoliche di Lomello, che rientravano da un pellegrinaggio a Vigevano, furono ingiuriate ed aggredite da una folla di militanti della locale Lega socialista. Come scrisse, sebbene diversi anni dopo, padre Gilardi, all’epoca dei fatti testimone oculare degli stessi, “Quello che avvenne successivamente rasenta l’incredibile, se non si ha presente cosa rappresentò per l’Italia il Biennio Rosso: un gruppo di ragazze di S. Giorgio, accompagnate dal Parroco Don Gerosa e da tre Suore salesiane di Lomello, nel mentre si apprestava a salire sul tram che le avrebbe riportate a casa, fu raggiunto da un “manipolo di forsennati”. Tutte vennero aggredite e malmenate e a quelle che tentarono la fuga per le campagne il destino riservò sorte peggiore. […]. Ciò che avvenne è sommariamente disgustoso narrarlo, anche a quarant’anni di distanza. Spogliate dei loro abiti religiosi le Suore, buttate a terra e ferite. Le ragazze, disperse nei campi e sugli argini delle risaie, denudate e violentate. Un forsennato col bastone dello stendardo di Maria Ausiliatrice ferì profondamente l’occhio di una di esse. Lo stendardo fu poi bruciato sulla piazza“. Non si trattava di casi isolati. Cose analoghe avvenivano un po’ in tutta la Penisola, in particolare al nord, come ad esempio nei fatti dell’eccidio dell’Assunta ad Abbadia S. Salvatore il 15 agosto 1920 (3). Il 2 maggio 1920, a S. Agata (Firenze), i socialisti invasero una chiesa durante una festa religiosa e negli incidenti che ne seguirono furono feriti alcuni esponenti del PPI. Furono esplosi colpi anche contro il Santissimo Sacramento, in una anticipazione di ciò che si sarebbe visto in Spagna tra il 1931 ed il 1939 (perché le mattanze antireligiose ispaniche iniziarono non appena proclamata la Repubblica e non solo nel ’36).

Il clima era quello, in apparenza, di tipo pre-insurrezionale. L’imprenditoria intimorita, piccoli o grandi proprietari terrieri sotto scacco delle leghe socialiste che praticavano il boicottaggio economico contro chi non accettava le condizioni da esse imposte, militari consegnati nelle caserme, carabinieri inibiti dall’intervenire, ufficiali reduci dalla Vittoria nella Prima Guerra Mondiale derisi e malmenati. Assassini impuniti all’ordine del giorno, come quello, a Torino, durante l’occupazione delle fabbriche, del sindacalista fascista Mario Sonzini e della guardia reale Costantino Simula (4). Non ci fu soltanto il caso triste – e più noto perché “santificato” durante il regime – di Giovanni Berta, figlio di un piccolo imprenditore, non propriamente un fascista ma semplice simpatizzante con stretti rapporti con il fascismo fiorentino, che fu ucciso, in modo atroce, dai comunisti i quali, dopo averlo picchiato ed inseguito, gli mozzarono le mani mentre si aggrappava al parapetto di un ponte sull’Arno. Girò in quei mesi un’orrida canzoncina che recitava “hanno ammazzato Giovanni Berta, figlio di pescecani. Viva il comunista che gli tagliò le mani!”.

Nel 1920 (…) Nelle campagne padane emerge lo strapotere dispotico delle Leghe rosse, associazioni sindacali di mestiere che reggono le Camere del Lavoro. Chi non obbedisce alla Lega, padrone o bracciante che sia, è punito con il boicottaggio e non campa più. A volte gli ordini della Lega rossa rasentano la follia: “Il socio X.Y. sa ben poco del socialismo. Dovrà imparare a memoria questi dieci articoli dell”Avanti!’ e poi verrà a farsi interrogare nella sede della Lega”. Nel marzo 1920 … il nuovo concordato agricolo [prevede tra le] … richieste (…) che gli agricoltori, quando hanno bisogno di braccianti o salariati, devono rivolgersi soltanto alle Leghe della Federterra. (…). Gli agricoltori dicono di no. Sono pronti a trattare sugli aumenti di paga, ma non accettano di veder limitati il diritto di proprietà e la libertà d’impresa. La replica della Federterra e delle Leghe è immediata: un grande sciopero agricolo dal 5 marzo 1920, nell’area di Pavia, Vercelli, Novara e del Monferrato casalese. Migliaia di braccianti e salariati sospendono di colpo il lavoro. S’inizia una lunga fase di violenze, devastazioni, assalti alle cascine, bastonature di padroni e fittavoli, incendi dolosi, pestaggi di crumiri, blocchi stradali per impedire i trasporti di foraggio destinato al bestiame. Dopo un mese, per piegare la resistenza delle aziende, il sindacato rosso ingiunge ai bovari di non occuparsi più del bestiame. Devono smettere di governarlo, di nutrirlo e, soprattutto, di mungere le mucche da latte. Il divieto scatta dal 5 Aprile e ha una conseguenza estrema: lasciar morire stalle intere di buoi e di vacche. Ogni sera le Leghe timbrano le mani dei bovari. E ogni mattina il Capolega controlla le palme dei mungitori per accertarsi che non abbiano lavorato di nascosto durante la notte. La decisione di non mungere le vacche si rivelerà un boomerang. Il 21 Aprile 1920, gli agricoltori sono obbligati ad accettare tutte le richieste e firmano il nuovo concordato. Ma lo sciopero agrario, con i suoi eccessi, provoca un odio di classe potente. Sarà questo il concime che, neppure un anno dopo, farà spuntare la pianta dello squadrismo” (5).

L’imposizione del monopolio sulla manodopera, che può sembrare una difesa del lavoro, in realtà, avvenendo al di fuori di ogni quadro normativo statuale inteso a disciplinare la materia del collocamento (come più tardi farà il regime fascista affidandolo ai sindacati fascisti, a dimostrazione che non era il controllo sindacale ciò che creava problemi ma il fatto che esso veniva imposto da una forza privata agente al modo di uno Stato nello Stato), era finalizzata soltanto a stabilizzare, con la forza e la violenza, il controllo del partito socialista sulle masse per usarle quale leva politica. La stessa CGdL, come detto, che aveva obiettivi squisitamente sindacali, si lamentava di questo controllo e della pratica del boicottaggio che le sottraeva spazi di manovra nella contrattazione con la controparte. Non a caso, il biennio rosso cessò quando apparve chiaro che il moto sociale era soltanto una jacquerie senza alcuna possibilità di sbocco rivoluzionario.

Fine del sogno rosso e inizio dell’equivoco compromesso del Ventennio

Un altro fattore fondamentale per la cessazione del Biennio rosso fu lo sgonfiarsi delle speranze nella Rivoluzione mondiale che tra il 1917 ed il 1920 sembrò in procinto di realizzarsi, a seguito degli eventi russi. Quanto stava accadendo in Italia accadeva anche un po’ ovunque nel resto d’Europa. L’armata rossa, comandata da Michajl Tuchaçevskij, fu sul punto di occupare Varsavia e conquistare la Polonia. Il 16 agosto 1920 l’esercito polacco, comandato dal generale Jòzef Pilsudski, poi destinato a diventare capo assoluto della nazione instaurando un regime autoritario, contrattaccò e respinse i sovietici in una battaglia rimasta nota come “il miracolo della Vistola”, in quanto tutti davano per perduta la Polonia. Quasi contemporaneamente in Ungheria naufragava la rivoluzione comunista di Bela Kun, repressa dall’ammiraglio Horty (il traditore del beato Carlo d’Asburgo) il quale anche in tal caso instaurò un governo favorevole ai latifondisti. Un regime reazionario che negli anni trenta trovò la sola opposizione del movimento fascista di Ferenc Szálasi, detto delle “Croci Frecciate”, il movimento fascista più operaio e contadino d’Europa (se si eccettua quello di Codreanu in Romania). Bela Kun, inseguendo il suo sogno palingenetico, si alienò la simpatia delle masse contadine perché preferì la collettivizzazione delle terre anziché la loro ripartizione. Nella Germania, di quegli stessi anni, falliva la rivolta spartachista, repressa dai Corpi Franchi nazionalisti. Fu chiaro che i bolscevichi di Lenin non sarebbero arrivati, come la propaganda socialista e gli emissari moscoviti avevano dato ad intendere, in aiuto dei compagni italiani, e che il sogno della rivoluzione mondiale era definitivamente tramontato, mentre in Russia andava profilandosi all’orizzonte la soluzione “nazional-bolscevica” di Stalin.

Tra il 25 e il 30 settembre 1920, con estremo sconcerto da parte degli “insorti”, tutte le fabbriche vennero evacuate ed all’evacuazione seguì la stipula, il 1° ottobre, di un concordato tra la FIOM e la Confindustria migliorativo delle condizioni dei lavoratori. Il fatto era che i riformisti e la CGdL si rendevano perfettamente conto che l’occupazione, con il blocco della produzione per l’incapacità degli operai di condurre la fabbrica, si rivelava un danno di ritorno per gli stessi lavoratori i quali perdevano il salario e si ritrovavano nella miseria più nera.
Un esito delle occupazioni, questo, che Mussolini aveva già profetizzato sulle colonne de Il Popolo d’Italia denunciandolo, nella sua tattica intesa a separare la CGdL ed i riformisti dal Psi per creare una vasta area politica volta al socialismo realistico. Ne abbiamo una riprova in quel che scrisse sul suo quotidiano il 28 settembre 1920 pur riconoscendo al moto sociale una valenza trasformatrice delle relazioni industriali nel solco del produttivismo inteso ad integrare le masse proletarie nella nazione come unica via per migliorarne le condizioni sociali senza abbattere la produzione, la quale necessita di una visione organica di tutti fattori della stessa e non solo dell’operaio: “Quella che si è svolta in Italia, in questo settembre che muore, è stata una rivoluzione, o, se si vuole essere più esatti, una fase della rivoluzione cominciata da noi nel Maggio 1915. L’accessorio più o meno quarantottesco che dovrebbe accompagnare la rivoluzione, secondo i piani e le romanticherie di certi ritardatari, non c’è stato. Non c’è stata, cioè, la lotta nelle strade, le barricate e tutto il resto della coreografia insurrezionista che ci ha commosso sulle pagine dei Miserabili. Ciò nonostante, una rivoluzione si è compiuta, e, si può aggiungere, una grande rivoluzione. Un rapporto giuridico plurisecolare è stato spezzato. Il rapporto giuridico di ieri era questo: merce lavoro da parte dell’operaio; salario da parte del datore del lavoro. E basta. Su tutto il resto dell’attività industriale ed economica capitalistica c’era scritto: è severamente vietato l’ingresso agli estranei e precisamente agli operai. Da ieri questo rapporto è stato alterato. L’operaio, nella sua qualità di produttore, entra nel recesso che gli era conteso, e conquista il diritto a controllare tutta l’attività economica nella quale egli ha parte“.

Con ciò dicendo il Mussolini del settembre 1920 dimostrava di essere ancora quello del 20 marzo 1919 quando, tre giorni prima della fondazione a Milano dei Fasci di Combattimento, si recò nella fabbrica di Dalmine, nel bergamasco, occupata dai lavoratori che però avevano issato il tricolore, non la bandiera rossa, ed avevano continuato la produzione per non danneggiare l’economia aziendale dalla quale essi stessi dipendevano. Proprio mentre iniziava ad affermarsi lo squadrismo, nel Mussolini che si opponeva al biennio rosso non c’era alcuna “conversione a destra” se intesa quale passaggio alla reazione capitalista. In quegli stessi mesi aderiva al fascismo Silvio Gai, un singolare industriale marchigiano – era stato egli stesso operaio prima di diventare ingegnere – che sarebbe diventato un personaggio di rilievo nel fascismo regime, il quale aveva realizzato, nella sua impresa, una inedita forma di cogestione tra capitale e lavoro che così descrisse nelle sue memorie “I prestatori d’opera, educati per lunghi anni alla più intima e fattiva collaborazione, quando i tempi divennero torbidi, dopo la vittoria del 1918, ed i lavoratori venivano malvagiamente trascinati dai partiti sovversivi … chiesero di dare un opposto esempio di italianità. Poi proposi loro la diretta partecipazione al capitale sociale, con un posto nel collegio sindacale“.

Le radici di sinistra del fascismo non furono mai dimenticate da Mussolini, il quale quando nel 1914 ruppe con il Psi andò via dicendo ai suoi ex compagni che lui sarebbe sempre rimasto socialista ed in un certo senso mantenne quella promessa, ma neanche dai quadri migliori del fascismo che poi erano quelli i quali, al contrario di altri, non avevano disertato i ranghi nonostante il precario patto con i fiancheggiatori conservatori e che, guarda caso, provenivano dal sindacalismo. Nei giorni seguenti i fatti di Sarzana, località toscana dove i fascisti ebbero la peggio perché le forze dell’ordine in quell’occasione li fronteggiarono, Mussolini, che aveva deplorato pubblicamente l’eccidio dei suoi squadristi per mano dei carabinieri, in privato ebbe parole infuocate, come testimoniato dal suo amico Cesare Rossi, contro i responsabili delle azioni squadristiche da lui definiti “gli ufficiali pagatori delle varie agrarie che sognano la soppressione delle leghe operaie e l’annullamento delle conquiste sindacali”. Onde chiarire finalità e natura del fascismo, agli stessi fascisti, nell’occasione pubblicò un editoriale nel quale rivendicò che il vero fascismo era quello del 1919, nato per la difesa della nazione, e non di certi interessi di classe, perché le camicie nere erano un movimento per le masse e non la guardia bianca del capitalismo (6).

Il punto era che Mussolini più che guidare gli eventi li subiva, spesso anche contro le proprie reali intenzioni. Nel 1919, dopo la sconfitta elettorale della sparuta pattuglia fascista, stando a Margherita Sarfatti, la sua coltissima amante ebrea che contribuì in modo eminente a creare il mito del “Duce”, Mussolini era un uomo depresso che si sentiva politicamente sconfitto al punto da meditare il ritirarsi a vita privata dovendo pensare a sostenere una famiglia (era già padre di Edda nata dal matrimonio con Rachele Guidi). Poi all’improvviso i contraccolpi del biennio rosso riaprirono le sue chance politiche ma al prezzo dell’accettazione dell’alleanza, che gli andò sempre stretta, con i fiancheggiatori conservatori e con industriali ed agrari che ora finanziavano il suo movimento. Non bisogna tuttavia pensare ad un “tradimento” delle radici quanto piuttosto ad un compromesso, imposto dalle circostanze, in attesa di risolvere successivamente i nodi da esso comportati. Quel centinaio di socialisti interventisti, anarco-sindacalisti e sindacalisti rivoluzionari, futuristi e repubblicani mazziniani che affollavano la sala di Piazza San Sepolcro il 23 marzo 1919, tra il 1920 ed il 1922 diventarono migliaia mentre le file fasciste crescevano in modo impressionante ma anche incorporando gente di ben altra provenienza, nazionalisti e conservatori. Gli 88 fasci ed i 20.000 iscritti della prima ora diventarono, nel 1920, 834 fasci e 250mila iscritti. Né l’adesione al fascismo si fermò negli anni successivi. Questa crescita, tuttavia, non può spiegarsi soltanto con l’attenzione ed i finanziamenti di industriali ed agrari. La questione era che la jacquerie del biennio rosso, le occupazioni, il blocco dei servizi pubblici, la crisi economica indotta dalla guerra ma accresciuta dalla politica anarcoide della sinistra, la violenza rivoluzionaria rossa, aveva allarmato vasti strati sociali e non solo industriali ed agrari. Le simpatie per i fascisti che, nell’omertà dello Stato, si opponevano ai “sovversivi” andarono aumentando, nella popolazione, proporzionalmente all’aumento dell’insurrezionalismo socialista. Anche non fascisti, che più tardi sarebbero diventati antifascisti, come il cattolico Alcide De Gasperi, guardavano al fascismo come ad un provvidenziale movimento di salvezza nazionale a fronte del pericolo rosso

Il fascismo – scriveva il futuro statista democristiano su “Il Nuovo Trentino” il 7 aprile 1921 – fu sugli inizi un impeto di reazione all’internazionalismo comunista che negava la libertà della Nazione […]. Noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza. Ci sono delle situazioni in cui la violenza, anche se assume l’apparenza di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè legittima“.

Questa, dunque, la dinamica del grande equivoco che cento anni or sono, in quel 28 ottobre 1922, portò un movimento socialista nazionalista, con profonde radici giacobine e di sinistra, alla conquista di Roma e dell’Italia. E se questo movimento non riuscì a realizzare tutti i suoi obiettivi originari, nondimeno fu capace di imprimere alla nazione una modernizzazione autoritaria, con il consenso delle masse, e nel segno di un dirigismo economico alla ricerca, rimasta incompiuta, di una terza via oltre il marxismo ed il capitalismo. Il “dettaglio” che la Repubblica “nata dalla Resistenza” non trovò di meglio che conservare, democratizzandole, le strutture economico-sociali dirigiste del regime (Iri, Agip, Inps, Ina, Inail, nazionalizzazione della Banca centrale, etc.) e non trovò di meglio che inserire nella vigente Costituzione “antifascista” evidenti e profondi richiami all’esperimento sociale della terza via fascista (articoli 1, 2, 39, 46, 99, solo per citarne alcuni), è la dimostrazione tangibile che senza la “nazionalizzazione delle masse” del regime fascista non avremmo avuto neanche la democrazia di massa del dopoguerra. La rovinosa caduta del regime di Mussolini non ha rappresentato l’impossibile ritorno al liberalismo elitario prefascista ma la continuazione sotto altre forme, benché ideologicamente depotenziate, della “rivoluzione fascista”. Almeno fino agli anni novanta del XX secolo quando sono sopraggiunte la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia in rottura con la dinamica della nostra storia nazionale e con la conseguenza della dissoluzione dell’Italia nel mare magnum dei flussi monetari, oggi vieppiù cibernetici, che agitano perennemente il capitalismo transnazionale alla ricerca di profitti immediati, senza più alcun ancoraggio alla nazione e senza più alcuna responsabilità nazionale e sociale.

NOTE

  1. Cfr. R. Vivarelli “Storia delle origini del fascismo”, Vol. 3°, Bologna 2012, p. 176: “Del resto, sono molti i casi nei quali questa violenza (quella fascista) aveva il carattere di una rappresaglia, la risposta per un’offesa subita … Anche se la disparità delle forze faceva sì che … il numero delle vittime fosse maggiore tra i socialisti che non tra i fascisti, non corrisponde al vero che i socialisti fossero alieni dalla violenza. E si deve ugualmente tener presente che molte delle spedizioni fasciste incontravano una resistenza armata, e numerose furono le occasioni nelle quali gli squadristi subirono la violenza degli avversari. Anche quando si esercitava una rappresaglia, la violenza fascista non era mai fine a se stessa. E, poiché si mirava ad abbattere le strutture del potere socialista più che a colpire le persone … di massima non ci proponeva di uccidere … le uccisioni volontarie, cioè il frutto di azioni mirate sono più l’eccezione che la regola. Contro le persone, la principale arma della reazione fascista è l’intimidazione: sia verbale, sia … intimidazioni fisiche“.
  2. In proposito l’articolo di Pietro Cappellari su https://www.ereticamente.net/2020/07/pagine-di-gloria-del-biennio-rosso-gli-stupri-di-ottobiano-13-maggio-1920-pietro-cappellari.html
  3. https://www.academia.edu/43848667/_PAGINE_DI_GLORIA_DEL_BIENNIO_ROSSO_L_ECCIDIO_DELL_ASSUNTA_ABBADIA_S_SALVATORE_15_AGOSTO_1920
  4. si veda https://www.ereticamente.net/2020/09/pagine-di-gloria-del-biennio-rosso-siano-bruciati-negli-altiforni-loccupazione-delle-fabbriche-e-il-duplice-omicidio-sonzini-simula-torino-22-settembre.html
  5. Cfr. G. Pansa, “Vi ricordo la lezione fatale della Marcia su Roma”, su “Libero”, 28 ottobre 2012.
  6. Cfr. Lorenzo Del Boca. “Mussolini e la Marica su Roma – 1922 il fascismo va al potere”, La Verità Panorama, 2022, pp. 66-67.

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