LUTERO, I CATARI E LA MODERNITA’ – di Luigi Copertino

Benché, tra i tradizionalisti cattolici, Lutero continua ad essere considerato lo spartiacque tra medioevo e modernità la realtà storica è molto più complessa di certe semplificazioni. Le quali sono mosse senza dubbio da una esigenza di salvaguardare il deposito della fede ma, maldestramente, non facendo i conti con una migliore conoscenza storica dei fatti, finiscono per fare pessima apologetica, inutile anche allo scopo di difendere la fede cattolica.

Lutero, infatti, era un uomo intrinsecamente medioevale, non moderno. La domanda da porsi, anche per capire la parabola di Lutero, è, invece, un’altra ovvero se, piuttosto, la modernità, per questo “neopagana”, non sia altro che un ritorno, iniziato con l’umanesimo, al Platone “a” o “non” cristiano e, quindi, un rifiuto del Platone cristiano dei Padri della Chiesa. Lo aveva già intuito Henri-Marie De Lubac nel suo “L’alba incompiuta del Rinascimento”, un’opera che, esaminando, forse con eccessivo accreditamento, il pensiero di Pico della Mirandola, mette, incidentalmente, in luce la questione centrale del quattro-cinquecento ossia la difficoltà, dopo la grande sintesi patristica del primo millennio, di riannodare alla fede biblica il pensiero ellenistico in un momento nel quale esso tornava, per via della riscoperta anche filologica dei classici, alle origini pre-cristiane.

Cristianamente l’antica sapienza ellenistico-romana, che affondava le sue radici nel mito inteso come racconto sacro, è stata una praeparatio evangelica, una “propaideia Christou”. I Padri della Chiesa posero le basi della grandiosa architettura spirituale e culturale del miglior medioevo filtrando e selezionando i “semina Verbi” presenti nella sapienza ellenistica. A partire dallo sforzo della Patristica durante i secoli medioevali, tra mille tentennamenti, lotte, difficoltà, diatribe, si era raggiunto l’equilibrio, l’“et-et”, l’armonia tra Cielo e terra, Fides et ratio, Logos e mithos, superando le antinomie.

«L’anticristianesimo [dei primi secoli] fu polimorfo … – scrive Ennio Innocenti nel primo volume dell’opera “La gnosi spuria”, Roma, 1993, pp.32-35 – l’intellettuale anticristiano meglio attrezzato fu quello rivestito di panni platonici. (…). Unità originaria indistinta, carattere illusorio del molteplice, ricomposizione dell’unità nella conoscenza umana, carattere naturalistico dell’estasi che porta l’uomo all’unità … [questi i caratteri principali dell’ellenismo anticristiano]. (…). Gli intellettuali cristiani non si limitarono a contrapporre l’opzione soprannaturale di cui erano trasmettitori; fecero di più: riuscirono a presentarla utilizzando le categorie concettuali degli avversari, depurandole ed arricchendole di nuovi significati: così fu disarmata la gnosi spuria: la “gnosi” era possibile e non necessariamente essa era dominio di empietà. (…). Il complesso sforzo della paideia cristiana dei primi secoli culminò con l’Opus Dionysianum: la terminologia e gli schemi del neoplatonismo vi vengono purificati ed utilizzati con perfetta ortodossia. Dio è conosciuto non solo negando l’imperfezione creaturale, ma attribuendo a Lui la perfezione creaturale, proiettandola – però – all’infinito, con costante gratitudine per l’iniziativa amante di Dio. La negazione, così, riguarda solo la “finitudo”, la limitatezza, non la perfezione in sé. L’Infinito Iddio crea liberamente e ama ciò che crea e tutto risulta divinamente disposto in un ordine gerarchico che è collaborazione d’amore. Erano così gettate le basi sicure per la costruzione speculativa medievale».

L’edificio medioevale iniziò ad essere messo in discussione con la riscoperta umanistica del pensiero “pagano” allo stato puro. In tal senso la modernità è stata un tornare indietro per un sotteso rifiuto della fede cristiana come milieu nel quale Gerusalemme, Atene e Roma avevano trovato la loro sintesi. Da qui, in età moderna, il riapparire delle opposizioni irriducibili, degli aut-aut, dei contrasti e delle polarizzazioni radicali.

Vi furono, certo, tentativi, come quelli di un Nicola da Cusa, per salvaguardare la “coincidentia oppositorum” nella “Pace fidei” – fu questo uno dei migliori esempi di quell’alba incompiuta della quale parlava De Lubac –, tuttavia mancò l’intuito e l’acume, che a suo tempo mostrarono i Padri, per riformulare la grandiosa sintesi patristico-medioevale alla luce delle nuove acquisizioni filosofiche e filologiche. Ogni tentativo di aggiornamento naufragò e la scissione tra fede cristiana e sapienza filosofica si fece quasi incolmabile. Se la Chiesa si irrigidì in un tomismo scolastico, di bassa lega e sostanzialmente traditore dello stesso pensiero dell’Aquinate, la cultura umanistica e rinascimentale, poi quella scientifica sei-settecentesca, prese la strada di una autonomia intesa quale risposta alla rottura dell’armonia medioevale tra fede e ragione. Nel mezzo di tale scempio le correnti che oggi chiameremmo “perennialiste” – dimentiche della grande opera chiarificatrice dello Pseudo-Dionigi – riproponevano, dal canto loro, una spiritualità talmente apofatica, senza alcuna coeva catafaticità, da considerare il mondo una caduta dello Spirito nell’oscurità della materia, anziché un suo dono d’Amore, favorendo in tal modo lo sbandamento “occultistico” che avrebbe portato alle neo-gnosi, non più cristianamente ortodosse, del rosacrucianesimo, prima, della libera muratoria, poi, fino ad un certo olismo contemporaneo, di matrice orientale, che, tendendo al panteismo, risulta alla fine privo di vera trascendenza nel senso abramitico del termine.

Orbene – come ha dimostrato Theobald Beer in un libro molto importante purtroppo non tradotto in italiano – nella misura in cui Lutero applicò alla teologia cristiana i fermenti “teosofici” della nuova cultura umanistica (sono noti i suoi contatti con il circolo ermetico di Erfurt e con il ficiniano Johannes Reuchlin), egli può considerarsi non lo spartiacque tra medioevo e modernità, come erroneamente si pensa, ma senza dubbio un fondamentale traghettatore, oltre il medioevo, della spiritualità “neopagana” il cui nucleo profondo, come si è detto, era il rifiuto di un approccio cristiano, o preparatorio al Cristo, alla cultura antica. Questo modo non cristiano di approcciare la sapienza antica, d’altro canto, era carsicamente sopravvissuto anche nel medioevo ed il catarismo ne fu un esempio. Esso, in realtà, per quel che ne sappiamo, al livello dei “perfetti” aveva una visione delle cose d’origine indo-buddhista, passata attraverso il neoplatonismo non cristiano.

Attenzione! Non che Lutero, come teologo agostiniano, fosse “regredito” al giovane Agostino manicheo, perché un agostiniano convinto non avrebbe mai potuto sottacere la motivazione – esplicitamente rivendicata dallo stesso Ipponate – della svolta di Agostino dal manicheismo al Cristianesimo ossia il rifiuto dell’idea, gnostica, del mondo come caduta ontologica anziché come dono dell’Amore creativo. Proprio in questa idea del mondo quale caduta sta l’essenza concettuale comune ai neoplatonici pagani dei primi secoli, a quelli umanistico-rinascimentali, ai catari ed ai manichei.

Ora – sia chiaro! – anche nella grande tradizione bonaventuriana e in quella domenicana antiaristotelica, ovvero nel platonismo medioevale, che ha interessato lo stesso Tommaso d’Aquino la cui fonte spirituale principale era lo Pseudo-Dionigi Areopagita, è fondamentale l’idea, propria alla Rivelazione biblica, che il destino dell’uomo è spirituale, oltremondano. Ma insieme è affermata, in concordanza con il Genesi, la bontà della materia, la bontà della carne (ossia del sinolo psico-corporeo dello stato umano all’interno dei piani molteplici del Reale), in un disegno creativo-salvifico incentrato, non a caso, sull’Incarnazione del Verbo Divino quale momento primordiale ed assiale – in origine, prima del peccato, non necessitante anche della Passione – che mette in Luce il senso ultimo della creazione, sia di quella invisibile che di quella visibile.

Agostino, nella Città di Dio, ci ha lasciato pagine intense, contro gnostici e neoplatonici del suo tempo, in difesa della bontà del corpo umano e della creazione in genere, quale riflesso della Bontà del Creatore. Pagine che correggono altre sue inclinazioni pessimistiche, le quali seppur evidenti non lo hanno però mai portato all’idea del peccato quale radicale e totale corruzione dell’essere.

In un bel libro, apparso qualche anno fa, “I catari e il Graal – il mistero di una grande leggenda e l’eresia albigese” (San Paolo, Milano, 2007), l’autore, lo storico del catarismo Michel Roquebert, smontando tutti gli “esoterismi” d’accatto e le favole naziste in argomento, dimostra la piena ortodossia cattolica della letteratura medioevale intorno al mito del Graal. La letteratura graalica sottende – in una evidente polemica anticatara – un forte richiamo all’Eucarestia, alla bontà della creazione, alla santità non solo dell’anima ma anche del corpo, ponendosi perfettamente nel novero dell’ortodossia di fede cattolica. Mentre l’idea del disvalore del creato, e quindi anche del sinolo psico-corporeo umano, è ricorrente nella storia dell’eterodossia che, appunto, la riprende da apporti platonici (il Plato non christianus) ed anche da apporti di provenienza orientale, la saga cavalleresca del Graal mostra invece la sua profonda ortodossia laddove la Cerca è imitazione di Cristo ed affermazione del dogma Trinitario contro le rivolte in nome del “Libero Spirito”.

Se l’antropologia cattolica è equilibrata e fondamentalmente aderente alla realtà – l’uomo ha offuscato ma non completamente cancellato la sua santità e giustizia originarie e per questo, senza sottovalutare il peso del peccato (che ha necessitato la Passione ma non l’Incarnazione prevista ab origine nel Disegno creativo di Dio), egli è, tuttavia, ancora redimibile – il dualismo, cataro e neoplatonico, tra Spirito e materia porta all’assoluto pessimismo antropologico, sulla cui scia troviamo non solo Lutero ma anche Macchiavelli, Hobbes e persino lo Schmitt post-cattolico. Per reazione, poi, questo pessimismo genera, quale proprio contrappunto, l’assoluto ottimismo antropologico, quello alla Rousseau per intenderci. Secondo la fede cattolica, invece, l’uomo non è un angelo ma neanche un animale determinato dai suoi istinti. Fare dell’uomo il peccato per essenza o, al contrario, il buon selvaggio per natura sono entrambi due errori capitali. Errori spirituali e culturali con conseguenze politiche e sociali.

Nel Cattolicesimo c’è il peccato ma anche la redenzione, che è trasformazione interiore ossia la possibilità di recuperare la santità originaria perché la creazione, la materia, la carne non sono affatto il male. Nella Luce della Rivelazione, l’essere è buono, non malvagio. Solo il peccato, il rifiuto dell’Amore di Dio, ferendola, rende inabile allo Spirito la natura umana. L’essere, voluto per amore dall’Amore Infinito, è destinato alla glorificazione e non all’annientamento nel “Tutto-Nulla”.

Nella concezione antropologica negativa di Lutero, a nostro giudizio, ritorna una sorta di “pessimismo cataro”. L’idea che l’uomo è irrimediabilmente corrotto, non soltanto ferito, dal peccato comporta che la “carne”, ossia la realtà umana stessa, sia odiosa a Dio, quasi un opposto a Lui. Lutero non ammette l’analogia entis, per la quale l’immanenza riflette la Bellezza e Bontà della Trascendenza, ed usa la categoria paolina della “contrarietà di specie”, secondo cui la “carne” vuole cose contrarie allo Spirito, ma distorcendola ovvero sottraendola dal suo contesto, come appare evidente nella lettere apostoliche di Paolo. Infatti quest’ultimo usava tale categoria non in riferimento all’uomo quale creatura ma alla “carne” quale “concupiscenza” ossia alla natura umana ferita dal peccato e non alla natura umana in sé creata nella sua santità originaria. Nel dualismo luterano, sempre a nostro giudizio, risuona un eco dell’idea, demiurgico-platonica, che in qualche modo la “carne”, quindi la materia, la realtà creata, non sia da Dio, che nella sua purezza non potrebbe contaminarsi con essa, ma da qualcun’altro. Anche i catari, non a caso, riconducevano la creazione materiale all’opera del Nemico di Dio. Da qui la negatività del creato, il suo funzionare come “prigione” nella quale sarebbe caduta la scintilla spirituale dell’uomo che, in origine, era un puro spirito, non carnale, e, come tale, appartenente al mondo spirituale creato da Dio, manicheisticamente opposto a quello materiale del Nemico. Per questo in Lutero la Grazia diventa, come dice Brunero Gherardini, un teologo di scuola romana, una sorta di decreto esteriore con il quale Dio salva l’uomo nonostante esso rimanga irrimediabilmente peccatore ossia non trasformato interiormente. Lutero, ancora profondamente medioevale, usa un linguaggio già conosciuto prima di lui ed afferma che la Grazia “copre” il peccato. Tale affermazione la si trova, ad esempio, nel salmo 85. Però, tradizionalmente, non si interpretava questa espressione nel senso della sporcizia nascosta sotto il tappeto. Invece Lutero sembra intendere proprio questo.

Nella “Theologia crucis” il decreto con il quale Dio salva l’uomo è, certamente, l’Incarnazione, atto fondamentale, insieme alla Crocifissione, della Redenzione. Né poteva essere altrimenti dato che Lutero, pur contaminando il depositum fidei con apporti di problematica provenienza, resta, nominalmente e formalmente, cristiano. Tuttavia, al di là della forma, se in apparenza essa sembra un appello alla salvezza mediante la Croce, la sua teologia della croce nasconde, a ben vedere, una concezione “inoperante”, e quindi in ultimo “inesistente” in termini di efficacia interiore, della Grazia. Essa, per Lutero, ci è certo data dalla Croce ma non richiede alcuna risposta umana, restandone del tutto indipendente, ossia non richiede alcuna disponibilità dell’uomo a farsi cambiare dall’Amore di Dio e, quindi, non richiede alcuna azione trasformatrice in interiore da parte della Grazia. Perché – è evidente! – se siamo solo peccato non ci è possibile cambiare né porsi nella disposizione di cambiare, sicché la Grazia non opera alcuna trasformazione.

Mentre sembra valutare la Grazia in così alto grado da giungere all’idea della predestinazione – che è, in sé, una negazione dell’umano in quanto non lascia all’uomo alcuno spazio per scegliere tra salvezza e dannazione, giacché la scelta tra chi si salva e chi no sarebbe effettuata, in modo imperscrutabile e arbitrario, da Dio (egli dimentica che, invece, Dio vuole essere liberamente amato dall’uomo e non gli impone nulla) –, Lutero da un lato la riduce ad un decreto esteriore mentre dall’altro lato, essendo le due cose strettamente collegate, nega il libero arbitrio. L’uomo luterano non può nulla, determinato come è dal suo essere, essenzialmente, solo “peccato”, opposizione alla Grazia divina che gli resta sempre esterna. La Grazia per Lutero non può che agire come un atto esterno, quasi giuridico, senza trasformazione interiore del cuore umano. Per questo egli considera i segni della santità, le opere, come orgoglio, anziché come manifestazioni esteriori del cambiamento interiore del cuore. Per lui la Grazia non trasforma l’uomo ma lo lascia così come è, essenzialmente peccatore. Da qui la sua idea per la quale le opere sono soltanto vanagloria e non, appunto, la manifestazione esteriore di una trasformazione interiore.

La svalutazione dell’umano in Lutero è evidente anche nel suo anti-scolasticismo che non è solo una reazione agli eccessi della scolastica del suo tempo (perché fosse stato solo questo avrebbe avuto ampie ragioni) ma una vera e propria negazione della bontà della ragione umana, che infatti egli chiama ancella del diavolo. Sicché non gli resta che il “sola fides”, la fede fiduciale e cieca, proprio perché la natura essenzialmente negativa dell’uomo lo assoggetta al “servo arbitrio”, ossia al determinismo del peccato per il quale qualunque qualità umana, comprese quelle intellettive, è demoniaca. Insomma in Lutero c’è una tensione dualistica tra opposte ed irriconciliabili polarità che lo porta fuori dal tradizionale “et-et” cattolico, lo porta cioè a radicalizzare le opposizioni invece che a vedere in esse analogie. Con Lutero si rompe l’equilibrio faticosamente raggiunto nei secoli precedenti e si apre la dialettica moderna che procede per tesi ed antitesi. Senza mai trovare la sintesi. Se si tiene presente quanto sopra, le correnti “progressiste” della modernità possono leggersi come la reazione-risposta “pelagiana” a Lutero, il quale, sotto tale profilo, con il suo pessimismo radicale, apre la via alle correnti “conservatrici” della stessa modernità.

Quel che abbiamo rilevato in Lutero non è un portato dell’agostinismo ma dell’influsso esercitato su di lui dalla spiritualità neoplatonica tardo-medioevale, ossia umanistico-rinascimentale, che egli, uomo profondamente interno alle categorie di pensiero del suo tempo, non ha saputo riannodare alla sua fede cristiana in quel modo armonico, ma anche altamente selettivo, che mille anni prima era stato proprio dei Padri della Chiesa. In Lutero l’antico equilibrio raggiunto venne meno. Si trattò di una rottura che non fu solo sua ma che lui introdusse nella teologia cristiana in una modalità talmente dirompente che le conseguenze, immediatamente palesatesi, durano ancor oggi.

Questa medesima rottura riaffiorò più tardi, dopo di lui, anche in quella sorta di cripto-protestantesimo che fu il giansenismo, anch’esso palesatosi come un apparente agostinismo che, però, di Agostino prendeva soltanto certe tendenze pessimistiche trascurando al contempo – ecco appunto l’et-et – quelle che nell’Ipponate esaltano la positività della creazione, la bontà dell’essere. Fu proprio quando si avvide del pericolo anti-ontologico, un pericolo anti-umano, insito nel giansenismo, che Pascal, grande filosofo e scienziato, quindi uomo avvezzo a dare quel che è giusto all’umano senza opporlo alla santità di Dio, tornò ad una più chiara fede cattolica.

«Francesco, mentre un giorno cavalcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo, ma stavolta, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro, baciandogli la mano. E ricevendone un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal proprio egoismo, fino al punto di sapersi vincere perfettamente, con l’aiuto di Dio. Trascorsi pochi giorni, prese con sé molto denaro e si recò all’ospizio dei lebbrosi; li riunì e distribuì a ciascuno l’elemosina, baciandogli la mano. Nel ritorno, il contatto che dianzi gli riusciva repellente, quel vedere cioè e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza. Confidava lui stesso che guardare i lebbrosi gli era talmente increscioso, che non solo si rifiutava di vederli, ma nemmeno sopportava di avvicinarsi alle loro abitazioni. Capitandogli di transitare presso le loro dimore o di vederne qualcuno, (…) voltava sempre la faccia dall’altra parte e si turava le narici. Ma per grazia di Dio diventò compagno e amico dei lebbrosi così che, come afferma nel suo Testamento, stava in mezzo a loro e li serviva umilmente. Queste visite ai lebbrosi accrebbero la sua bontà».

Questa è una delle fonti storiche che parlano della conversione di Francesco d’Assisi. Si tratta della “Leggenda dei tre compagni di S. Francesco d’Assisi” (ca 1244) § 11. La cosa fondamentale da notare è il rilievo dato al processo di trasformazione interiore di Francesco. Il quale aveva ribrezzo per i lebbrosi, tanto da fuggirne persino la vista, ma, poi, per Grazia di Dio, quella Grazia che operava nel suo cuore trasformandolo, impara gradualmente ad amarli, fino a baciarli ed abbracciarli. Una trasformazione che non è possibile a nessun uomo per mero “training autogeno” e che manifesta chiaramente l’azione dello Spirito nel cuore umano. Esattamente quell’azione che Lutero nega, negando in sostanza la Grazia perché la considera interiormente inoperosa, in quanto ritiene l’uomo essenzialmente peccato e quindi irredimibile. Ma la storia della santità è lì a smentirlo.

Luigi Copertino