L’INCOMPRENSIONE EBRAICA PER L’ESEGESI SCRITTURALE DI GESU’ – prima e seconda parte

L’INCOMPRENSIONE EBRAICA PER L’ESEGESI SCRITTURALE DI GESU’. Di Luigi Copertino – Parte prima

feb 20, 2019

Verità cristiana dell’Antico Testamento nella prospettiva escatologica della storia

Prima Parte

Un tentativo di linciaggio

La scena è questa e si svolge dopo l’incontro con il Battista ed i quaranta giorni nel deserto.

Tornato nel suo villaggio, Nazareth, Gesù è in sinagoga. L’evangelista Luca (4, 16-30) ci dice che Gesù era solito andare in sinagoga. Da buon e pio ebreo. Qui, nell’assemblea sinagogale, Egli si alza per leggere la Scrittura e gli fu dato il rotolo del profeta Isaia (Is. 61,1s).

Gesù legge con voce chiara, forte, autorevole. Il passo isaiano recita: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore».

Arrotolato il volume e restituitolo all’inserviente, si mette a sedere mentre tutti lo fissano. Ed egli disse: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».

Luca ci dice che «tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» ma ci informa che, al tempo stesso, essi iniziarono a domandarsi «Non è il figlio di Giuseppe?». I presenti sembrano, dunque, dividersi. Alcuni sono affascinati da Gesù, altri iniziano ad irritarsi nei suoi confronti.

Passato l’iniziale momento di fascinazione, perché Gesù era uno che “parlava con autorità”, la piccola folla, o almeno una sua parte, ricordandosi della sua origine familiare cambia atteggiamento. Per questo Gesù, dopo averli apertamente sfidati – «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!», segno che la Sua fama si era già diffusa nella regione –, replica loro «Nessun profeta è bene accetto in patria».

Il confronto si conclude, in un crescendo di avversione verso di Lui, con la Sua espulsione dalla comunità in un tentativo di ucciderlo nel modo che era riservato ai blasfemi. La  folla, convinta di eseguire l’esecuzione di un condannato, tenta di giustiziarlo

«All’udire queste cose, – ci dice Luca – tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò».

Il fatto che il tentativo vada a vuoto attesta che la folla, la quale inferocita contro il “blasfemo” vorrebbe giustiziarlo, ne è al tempo stesso intimorita, ne sente, ne avverte, l’autorevolezza, la superiorità spirituale. Tanto è vero che essa si ritrae quando Gesù fa per andarsene passando in mezzo ad essa.

Ma – questa è la domanda che dobbiamo porci per capire quale era il motivo dell’indignazione ebraica – cosa Gesù disse da spingere la folla a tentare di linciarlo? O meglio, qui sta il punto focale, quali cose Gesù non disse?

La vedova ed il generale

Il racconto di Luca ci informa che i fedeli presenti in sinagoga reagiscono con sdegno non quando Gesù annota che “nessun profeta è ascoltato in patria” – la storia di Israele era piena zeppa di profeti ripudiati dal popolo eletto, per poter essere stato questo il motivo scatenante dell’ira contro di Lui – ma quando Nostro Signore, dopo la lettura del brano di Isaia sulla liberazione degli oppressi e l’anno di grazia del Signore, ossia la profezia dell’inizio dell’era messianica, dell’era della Misericordia che Dio offre agli uomini prima di applicare la Sua Giustizia, aggiunge queste parole

«Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Serapta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Nàaman il Siro».

Il primo dei riferimenti veterotestamentari di Gesù è relativo all’episodio, narrato nel Primo Libro dei Re (17, 7-24), del profeta Elia inviato in tempi di carestia ad una vedova fenicia, la quale nonostante non avesse quasi nulla da mangiare per sé e suo figlio condivide quel poco che aveva con il profeta. Elia l’aveva rassicurata promettendogli, a nome del Signore, che «La farina della tua giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà finché il Signore non farà piovere sulla terra». Ed infatti «Mangiarono essa, lui e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia».

Nell’episodio c’è una anticipazione della miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci che Gesù avrebbe operato (Mt. 14,13-21) quale segno di salvezza messianica. L’era messianica è, infatti, quella della gratuità e dell’abbondanza, quella nella quale il Padrone, dopo aver convocato a cena gli invitati inizialmente designati ottenendone un rifiuto, sdegnato invia i servi affinché raccolgano dalle strade poveri, storpi, ciechi e zoppi onde riempire la Casa perché «Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena» (Lc. 14, 15-24). Elia otterrà da Dio, per la vedova di Serapta, anche la resurrezione del figlio ammalatosi e morto, prefigurando in tal modo i miracoli che Gesù compirà quando riporterà in vita il figlio della vedova di Nain (Lc. 7, 11-17) e la figlia di Giàiro (Mt. 9, 18-26).

Il secondo episodio biblico al quale Gesù fa riferimento, nel suo confronto con i nazaretani, è quello narrato nel Secondo Libro dei Re (5,1-27). Vi si parla di Eliseo, discepolo di Elia e profeta come lui (questa discepolanza evidenzia l’esistenza, in Israele, di vere e proprie scuole “iniziatiche” di profeti), che guarisce dalla lebbra il generale siriano Nàaman. Questi, dapprima contrariato dall’ordine del profeta di bagnarsi per sette volte nelle acque del Giordano, infine, per fede nella promessa di guarigione, fa quanto richiestogli e guarisce.

Nell’uno e nell’altro caso, si tratta di pagani, ossia, agli occhi degli ebrei, di gente idolatra e fuori dell’Alleanza, dunque destinata, secondo l’esegesi che era prevalsa tra essi, a non avere parte nel futuro regno messianico. Ed è proprio questa esegesi che Gesù contesta ai nazaretani: Elia e Eliseo furono inviati non ad israeliti ma ai pagani, i quali, benché non appartenenti per etnia al popolo ebreo, risposero alla chiamata di Dio. Il racconto di Elia, infatti, si chiude con una professione di fede della vedova pagana: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (17,24) mentre Nàaman, che avrebbe voluto ricompensare Eliseo con denaro, dal profeta rifiutato fermamente, comprende che l’unica ricompensa che può offrire all’uomo di Dio è la sua conversione: «Ecco, io riconosco adesso che non c’è nessun Dio in tutta la terra, fuorché in Israele … il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Signore» (15,17). Al contrario, sarà il discepolo infedele di Eliseo, l’israelita Ghecazi, a farsi donare, con un inganno, il denaro da Nàaman, per essere poi punito dal maestro che fece ricadere su di lui e la sua discendenza la lebbra tolta al pagano (19,27).

Cani pagani

Non dobbiamo dimenticare che Gesù, in un’altra occasione, si accreditò come un ebreo radicale, “fondamentalista” per usare un termine moderno, proprio per dimostrare ai suoi correligionari l’inconsistenza dell’esegesi esclusivista che essi avevano erroneamente derivato dalla Scrittura. L’episodio è in Mt. 15,21-28 ed è quello della madre siro-fenicia, della zona di Tiro e Sidone, la cananea venuta ad implorarlo per la guarigione della figlia. Ai discepoli che intercedevano per lei, fino a quel momento ignorata da Nostro Signore, Gesù obietta, esattamente nel modo nel quale avrebbe obiettato il messia secondo le aspettative ebraiche, «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della Casa di Israele … Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini». Allorché, però, la madre pagana, implorandolo, osserva che tuttavia «anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni», Gesù si spoglia dell’immagine precostituita del messia come lo aspettavano gli ebrei, per lodare pubblicamente la fede della donna non ebrea. Lo stesso farà più tardi con il centurione romano del quale dirà non aver incontrato nessuno tra gli ebrei con una fede più grande di quel pagano (Mt. 8, 5-13).

Alla luce di questo episodio della vita terrena di Gesù, e di tanti analoghi episodi evangelici, sarà l’ebreo Saulo di Tarso a spiegare, nella Lettera ai Romani 11, 1-36, che nel disegno salvifico di Dio, affinché i gentili potessero avere parte all’Alleanza, era necessaria la  momentanea recisione degli israeliti dall’Olivo Santo di Israele, per esservi riammessi solo alla fine dei tempi quando essi riconosceranno la Divino-Umanità di Cristo. Saulo era un zelante fariseo, discepolo del saggio rabbi Gamaliele, ma anche, non casualmente, cittadino romano. Dopo la folgorazione sulla via di Damasco, a Paolo fu chiaro che l’Israele carnale, respingendo Cristo, stava adempiendo al disegno divino. Mediante i profeti, Dio, in vista dell’Incarnazione del Suo Verbo nel Cristo Venturo, aveva proclamato  “luce delle genti” proprio Israele: ma quello, come vedremo, teologale. Citando agli astanti israeliti un passo biblico a loro ben noto e che essi interpretavano come profezia del futuro primato di Israele sulle genti, senza però alcun riferimento all’adempimento in Cristo della profezia, Paolo, insieme a Barnaba suo discepolo, come testimoniano gli  Atti degli Apostoli 13, 46-49, non esitò con estrema franchezza a disincantare l’errata esegesi biblica dei suoi correligionari: «“Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra”. Nell’udir ciò i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva in tutta la regione».

Va notato che nell’episodio evangelico della donna cananea trapela l’idea ebraica, poi passata anche nella letteratura post-esilica raccolta nel Talmud, per la quale i non ebrei, i goym, sono sì uomini ma, dal punto di vista spirituale, non nel senso pieno del termine, sono cioè, sotto il profilo spirituale, “animali parlanti”. Uomini, in altre parole, senza lo Spirito e quindi più vicini all’animalità che alla spiritualità. Una idea che, benché senza espresso riferimento all’ebraicità ma all’elitarismo esoterico, sarà ripresa dallo gnosticismo il quale, infatti, distingue gli uomini in “pneumatici”, ossia spirituali, “ilici”, ossia psichici, e “somatici”, ossia corporei: i primi destinati alla salvezza, i secondi di incerto destino, ed i terzi già condannati.

In linea con la convinzione ebraica, nell’episodio della cananea, Gesù usa il termine “cagnolini” per indicare i pagani. Lo stesso termine era stato usato anche nella profezia messianica di cui al Salmo 21,17 «Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi». La profezia del Salmo si compirà con la Passione di Cristo quando i soldati romani – “il branco di cani” cioè di pagani – eseguendo la sentenza di Pilato, emanata sotto pressione del Sinedrio, lo inchiodarono alla Croce forandogli le mani ed i piedi. Eppure lo stesso Gesù, che dice di essere stato inviato soltanto per le pecore sperdute della Casa di Israele, altrove, invece, afferma «offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv. 15,16). Segno che le “pecore sperdute di Israele” non possono identificarsi soltanto con gli ebrei ma con tutti gli “uomini di buona volontà” eredi dell’umanità adamitica cacciata dall’Eden e dispersa dal Diluvio, ossia dell’umanità che ha perduto il contatto con la Rivelazione Primordiale.

Ciò che quel giorno Egli non disse

Dunque, come detto, lo sdegno dei nazaretani esplode quando Gesù richiama gli episodi della vedova di Serapta e di Nàaman il Siro, per spiegare loro che l’elezione non è legata al sangue, all’appartenenza etnica. Luca descrive una situazione in crescendo. La tensione sale, fino al tentato linciaggio, non solo per quanto Gesù dice ma, soprattutto, perché c’è qualcosa che Egli non ha detto e che era ben noto ai suoi ascoltatori che avrebbero voluto sentirgliela dire.

Nel racconto lucano, Gesù legge il passo di Isaia 61,1s. Rileggiamolo

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore».

Per la nostra sensibilità  “umanitaria”, di uomini moderni che hanno sviato dal sentiero della Rivelazione, questo passo biblico appare come un generico appello alla solidarietà universale. In realtà nella profezia isaiana, presa nel suo complesso, si proclama che la salvezza, per colpa degli uomini, non è né sarà per tutti. Il punto, quindi, quello che divideva Gesù ed i suoi compaesani, sta nel capire se questa salvezza esclude o include i non ebrei, se cioè ci sono pagani graditi al Signore ed ebrei invece a Lui sgraditi. In altri termini se la salvezza è questione dipendente dall’appartenenza etnica ad un popolo oppure se essa è altro.

Gesù dopo aver letto l’incipit della profezia di Isaia si ferma e non va oltre, non continua nel proclamare quel che i suoi ascoltatori ben conoscevano ed avrebbero voluto sentire, avrebbero voluto fosse loro ripetuto. Gesù lette quelle prime parole si limita a dire «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». Gli astanti, sconcertati (“Non è costui il figlio di Giuseppe?”), comprendono che Egli sta proclamando sé stesso quale Messia, perché quel brano era riferito proprio al Messia venturo. Ma il loro scandalo non sta tanto nel fatto che Gesù si proclama Messia – Egli, dice Luca, parlava in modo da suscitare meraviglia per la grazia che traspariva dal suo dire e, del resto, prima o poi il Messia doveva pur venire e quindi perché mai non avrebbe potuto essere proprio Lui? – ma per il fatto che, nel proclamarsi tale, Gesù non annuncia anche quanto è detto nel seguito della profezia di Isaia, secondo l’interpretazione ebraica, mostrando così un volto messianico inedito ed inatteso per gli israeliti che lo ascoltano.

La profezia di Isaia, infatti, prosegue definendo l’anno di misericordia del Signore come «un giorno di vendetta per il nostro Dio».

Isaia fu profeta che visse ai tempi della pressione dell’Assiria su Israele. L’impero assiro espandendosi aveva preso di mira la Palestina. Il profeta annuncia agli ebrei che, per i loro peccati, subiranno la deportazione ma al tempo stesso infonde loro la speranza del ritorno penitenziale alla terra dei padri. Ecco perché, a seguire, egli canta che l’anno di Misericordia è «per consolare gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto. Essi si chiameranno querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria. Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni».

L’anno di Misericordia, al contrario, per i pagani persecutori sarà una vendetta di Dio, sicché «Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli. Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti. Vi godrete i beni delle nazioni, trarrete vanto dalle loro ricchezze». Fino alla proclamazione, in Isaia 63, 1-6, del momento culminante della “vendetta”, contro i pagani persecutori di Israele, allorché Dio si presenta nelle vesti un vendemmiatore che stritola i popoli nemici dell’eletto nel suo torchio, una immagine che tornerà nel Libro dell’Apocalisse

«Chi è costui che viene da Edom, da Bozra con le vesti tinte di rosso? Costui, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza? – “Io, che parlo con giustizia, sono grande nel soccorrere”. – Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel tino? – “Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti, poiché il giorno della vendetta era nel mio cuore e l’anno del mio riscatto è giunto. Guardai: nessuno aiutava; osservai stupito: nessuno mi sosteneva. Allora mi prestò soccorso il mio braccio, mi sostenne la mia ira. Calpestai i popoli con sdegno, li stritolai con ira, feci scorrere per terra il loro sangue».

L’intera storia biblica di Israele è la storia dell’affermarsi della fede nel Dio unico in mezzo ai culti pagani circostanti. Una storia costellata di pagine violente con il sangue che scorre dall’una e dall’altra parte. Il profeta Samuele fa passare a fil di spada l’aristocrazia amalecita, il re Saul, consacrato proprio da Samuele, è punito per non aver sterminato le primizie dei pagani, compresi i figli primogeniti, per offrirle al Signore, che per questo gli preferirà Davide dalla cui stirpe nascerà il Messia.

Tutto questo può apparire l’esaltazione visionaria di un insignificante popolo feroce, barbaro e rozzo, in preda ad una follia religiosa che legittima lo sterminio come volontà divina. Un po’ come  i jihadisti moderni. Un popolo sulla cui follia messianica nessuno avrebbe mai scommesso. Israele, infatti, piccolo come era, rappresentava un granello di sabbia tra gli ingranaggi delle grandi potenze imperiali dell’epoca. Un popolo politicamente impotente eppure in preda all’esaltazione per una promessa divina di dominio mondiale.

Il Mistero nascosto nei secoli

In realtà, la Scrittura nasconde una verità teologica molto più alta che gli stessi ebrei hanno ripetutamente frainteso e distorto. Per questo Gesù in Mc. 7, 8-13 rispose a scribi e farisei: «“Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da Me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini (Is. 29,13). “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. E aggiungeva: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. (…) annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi».

Nella Scrittura è tramandata la Rivelazione primordiale della caduta dell’umanità, a causa del peccato, e della irredimibilità di quella caduta a motivo proprio della Giustizia Divina. Essa, infatti, richiede, a riparazione, un Olocausto talmente alto che per l’uomo è impossibile offrire. Soltanto Dio poteva offrirlo e lo fece incarnandosi per la Passione. Nell’impossibilità per l’uomo di riparare al suo peccato, ossia all’offesa metafisica, spirituale, all’Amore di Dio, la Giustizia imponeva l’immediata applicazione della pena. La Giustizia di Dio esigeva che fosse immediatamente emessa la sentenza definitiva di condanna per l’umanità caduta, per “le pecore perdute”.

Dio stava per attuare la Sua Giustizia mediante il Diluvio (un evento che per essere memoria universale dell’umanità, in quanto presente in tutte le culture, non può essere ridotto semplicemente ad un “mito”): «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e … si pentì di aver fatto l’uomo e … disse “Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato …”» (Gn. 6,5-7), ma avendo trovato, tra gli uomini, Noé il giusto, dopo la catastrofe, «pensò: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo …”» (Gn. 8,21).

Dio, dunque, esita, frena la Sua Giustizia, perché è Lento all’ira. E’ Clemente e Misericordioso. Vuole dare tempo all’uomo. Egli è Padre che, sebbene offeso ed irato, ama il figlio. Addirittura  promette, già al momento dell’allontanamento dell’uomo dal Luogo Primordiale della Sua Grazia, un Salvatore nella Stirpe di Colei la quale, con il suo piede, avrebbe schiacciato la testa della gnosi ofidica, insidia del suo calcagno (Gn. 3,15).

Con l’annuncio genesiaco della «Donna vestita di sole» dell’Apocalisse (Ap. 12,1) – la Donna messianica dei Tempi Ultimi –, la Salvezza fu promessa ad Adam, ossia a tutta l’umanità. E’ Salvezza Universale, per tutti gli uomini aperti all’Amore di Dio, a qualunque popolo essi appartengano. Al momento della Promessa il popolo ebreo non esisteva ancora. Tuttavia, per entrare nella storia dell’umanità dispersa, ed operarvi, Dio, nel rispetto della libertà umana che ha provocato la dispersione in lingue e popoli diversi, non poteva, in una prima fase, che penetrarvi attraverso la scelta di un popolo il quale a Lui, e solo a Lui, nel mezzo della generale idolatria causata dal rifiuto dell’Amore Infinito, tributasse il Culto Originario. Una elezione, quella ebraica, che, nel disegno salvifico divino, era in vista di Colui che, in una seconda fase, avrebbe abbattuto ogni barriera tra israeliti e pagani per fare di essi un unico popolo teologale. «Non c’è più giudeo né greco … poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28)

L’antico Israele, infatti, unico tra tutti i popoli, nacque non da vicende antropologiche, culturali o per eventi politici ma per l’elezione di Abramo ossia per una vocazione teologale. Israele è un popolo che si forma intorno al Culto monoteista in polemica con i culti pagani degli altri popoli circostanti. L’appartenenza ad Israele, nell’Antica Alleanza, era contrassegnata dalla circoncisione nella carne ma essa era soltanto la prefigurazione della Vera Circoncisione che è quella del Cuore, dello e nello Spirito. Questa Autentica Circoncisione sarà resa operante dalla Passione e Resurrezione di Cristo. Essa ha sancito, realmente e non per mera prefigurazione, l’ingresso definitivo di tutti i popoli, dei pagani che attendevano anch’essi la salvezza e che ora la accettano per fede, nell’Alleanza Nuova. Alleanza che è tale, ossia Nuova, non perché diversa dall’Antica ma perché di Essa è il compimento ed il rinnovamento, ovvero propriamente, per il senso letterale della parola “rinnovare”, il Ristabilimento nella Sua Forma Originaria Adamitica. Quella così ristabilita altro non è che l’Alleanza Eterna, l’Alleanza Perenne, che Dio aveva stipulato con Adam e che l’uomo aveva infranto nella presunzione, suadente, ofidicamente suggeritagli, di farsi Dio da sé, senza il dono della Grazia, dello Spirito, deificante (Gn. 3,5).

Nella profezia di Isaia, il Signore annuncia il perdono per gli israeliti benedicendoli come stirpe in vista di un’Alleanza Perenne, ancora di là da venire: «Poiché io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia: io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza perenne. Sarà famosa tra i popoli la loro stirpe, i loro discendenti tra le nazioni. Coloro che li vedranno ne avranno stima, perché essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto».

Nel corso del tempo, è però accaduto che gli israeliti abbiano sposato una sorta di sviamento esegetico nella comprensione della Scrittura. Esaltati dalla promessa di eccellenza universale, hanno iniziato a fraintenderla conferendo ad essa il senso di una promessa di dominio mondiale, etico e/o politico a seconda delle diverse interpretazioni elaborate dalle loro variegate scuole e correnti religiose. Essi non possedevano esplicitamente la vera chiave interpretativa dell’intera Scrittura. Prima dell’Incarnazione, tale chiave era come nascosta – si tratta del “mistero nascosto da secoli nella mente di Dio” cui fa riferimento san Paolo in Efesini 3,9 e in Colossesi 1,26 – e quindi era per essi soltanto implicita nella Scrittura, mentre era quasi del tutto ignota ai pagani. Dopo l’Incarnazione gli israeliti, a causa del loro rifiuto, non hanno accettato questa unica chiave interpretativa ora resa esplicita da Nostro Signore. In tal modo essi si sono da soli posti una benda davanti gli occhi dello spirito. Hanno rigettato l’Unico che – parlando la Scrittura esclusivamente di Lui – può rendere esplicita l’autentica esegesi scritturale della Rivelazione, il suo significato primo ed ultimo. Quella di Gesù è l’Esegesi Autentica perché Egli è il Vero Esegeta in quanto Fonte della Rivelazione ed Autore della Scrittura.

La chiave esegetica per la comprensione autentica della Rivelazione tramandata dalla Scrittura è, dunque, Gesù Cristo. Agli ebrei, di ieri e di oggi, manca completamente la “prospettiva cristologica” nell’approccio alla Rivelazione. Questa mancanza è foriera di gravissimi equivoci e distorsioni esegetiche. Nella sua predicazione terrena, Gesù non ha fatto altro che esegesi della Scrittura indicando Sé stesso come il compimento delle promesse in Essa contenute. Un compimento che, confermando quanto era già chiaro nell’Antico Testamento (gli episodi, e non sono certo gli unici, della vedova di Sarepta e di Nàaman il Siro, sono lì a dimostrarlo), apriva definitivamente quelle promesse anche ai pagani e questo sconcertava i nazaretani ed i sinedriti, chiusi nella loro esegesi esclusivista della Scrittura.

L’esegesi ebraica si rivela, infine, settaria. Essa oscura la teologalità del popolo ebraico e porta gli israeliti ad interpretare l’elezione in termini etnici, dato che l’Alleanza è da essi concepita come intrinsecamente connessa alla trasmissione del sangue, all’appartenenza razziale. Non si poteva, e non si può nella loro prospettiva ancora oggi, essere figli di Abramo, e quindi graditi a Dio, se non per nascita ebraica. Ai farisei e sadducei che venivano al suo battesimo senza mostrare segni di pentimento, Giovanni il Battista, Vero Ebreo, per mettere in chiaro che l’Elezione non è dal sangue, non è una questione etnica ma teologale, urlò con veemenza: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre» (Mt. 3,7-9). All’interno del mondo ebraico, per i gentili si era giunti, in tarda età biblica, a concedere tutt’al più la possibilità di adorare il Dio di Israele ma soltanto quali “proseliti” ammessi a presenziare ai riti nella parte profana del Tempio ma non nella zona più prossima al Sancta Sanctorum, luogo dell’Alleanza nella Presenza (Sekinah) di Dio. Quella dei goym restava comunque una posizione subordinata al primato etnico ebraico.

La convinzione della trasmissione ereditaria dell’Alleanza si perpetuerà anche nell’ebraismo postbiblico. Con l’unica differenza che, strada facendo, visto che il Messia liberatore politico di Israele dal dominio delle nazioni pagane tardava ad arrivare, il rabbinato ha iniziato a reinterpretare la figura stessa del Messia promesso in termini “collettivi” fino a fare dello stesso popolo ebreo, perseguitato e sofferente per mano dei pagani, dei goym, il Messia deputato a portare al mondo l’era messianica della Pace Universale. Con quali conseguenze anche politiche, partorite da questa esegesi, si può ben immaginare, dal momento che le vediamo attualmente in opera in tutto l’Occidente, apostata dal Cristo, e non solo nel Vicino Oriente. Il sionismo non nasce come un qualunque movimento nazionalista laico ma è intrinsecamente, sin da subito, espressione di una escatologia che proclama la superiorità morale di Israele e quindi il suo presunto diritto non solo al possesso esclusivo della terra santa ma anche al primato etico, che facilmente può farsi politico – nel senso di un influsso ed indirizzo politico –, sull’intero orbe.

(CONTINUA)

Luigi Copertino

Da www.domus_europa.eu

 

L’INCOMPRENSIONE EBRAICA PER L’ESEGESI SCRITTURALE DI GESU’. Di Luigi Copertino – Parte seconda

feb 20, 2019

Verità cristiana dell’Antico Testamento nella prospettiva escatologica della storia

Seconda Parte

Il Tempio del Signore

L’escatologia ebraica postbiblica è legata all’idea della ricostruzione del Tempio in Gerusalemme, unico luogo dove, per la prospettiva ebraica, la Sekinah, la Presenza Reale, di Dio, può manifestarsi. Il Tempio, quello costruito da re Salomone e distrutto per responsabilità degli ebrei zeloti durante l’assedio romano dell’anno 70 d. C., era situato nel punto dove oggi sorge la Cupola della Roccia, la terza moschea per santità del mondo islamico. L’islam è annunciato nel Genesi ma non nella linea messianica dell’Alleanza che, invece, si sviluppa dalla figliolanza legittima di Abramo in Isacco tra la cui discendenza nascerà Gesù: «Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne» (Gn. 17,19). Ismaele, il figlio illegittimo di Abramo e della schiava egiziana Agar, è il capostipite biblico degli arabi, tra i quali nascerà Muhammad, profeta post-litteram al quale, non essendo la sua la linea dell’Alleanza, non è stata concessa la visione dell’al-Ghayb, cui fa riferimento la sura 7 del Corano, ossia il Logos di Dio, il Mistero Divino per eccellenza. Nel disegno divino di salvezza, il ruolo di Muhammad sembra essere quello di una preparazione dei discendenti di Ismaele alla Seconda Venuta di Cristo che essi, come gli ebrei, riconosceranno nella Sua Divino-Umanità soltanto nei tempi escatologici. Il Signore benedice Ismaele dicendo «Lo renderò fecondo e molto, molto numeroso: dodici principi egli genererà e di lui farò una grande nazione» (Gn. 17,20) ed ancora «Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar … e le disse: “… Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo (…). Alzati, prendi il fanciullo … perché ne farò una grande nazione” (…). E Dio fu con il fanciullo che crebbe ed abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco» (Gn. 21,17-20). Sembra dunque che i seguaci della fede islamica stiano svolgendo, oggi, il ruolo di custodi dei Luoghi Sacri di Gerusalemme onde impedirne la profanazione da parte dei fondamentalisti ebrei, in attesa che anche i mussulmani si convertano a Cristo scoprendo che di Lui, quale Logos Figlio di Dio, parla il Corano.

La Cupola della Roccia è così chiamata perché situata nel luogo dove, secondo la Tradizione, Abramo è stato trattenuto dall’angelo del Signore nell’atto di sacrificare il figlio legittimo Isacco  in olocausto a Dio. Il Patriarca, fedele al Signore che lo aveva ordinato, benché con dolore, aveva accettato di obbedire al comando dell’offerta sacrificale del suo unico figlio legittimo, Isacco. Ma il Signore lo fermò additandogli quale vittima un ariete. Evidente il messaggio di Dio: ad Abramo che non ha esitato all’idea di dare in olocausto il figlio, il Signore donerà in Sacrificio Perpetuo il suo Unico Figlio, l’Ariete/Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo, per la salvezza sua e di tutte le famiglie umane sparse sulla terra.

Quando, subito dopo la cacciata dei mercanti dal Tempio, rispose ai farisei con Lui indignati, che gli chiedevano con quale autorità avesse fatto quel gesto, «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv. 2,19), Gesù non ha profetizzato soltanto la Sua Resurrezione ma ha identificato Sé stesso con il Tempio, con la Sekinah di Dio. Ha proclamato, in altri termini, la Sua Divinità. E i farisei, che lo ascoltarono, compresero benissimo il senso del suo discorso. Compresero perfettamente, anche se rifiutarono di accettare, che se il Tempio è Lui allora non c’è più necessità del Tempio di pietra ed il Santo Sacrificio può essere attuato ovunque, come infatti accade nell’Eucarestia cristiana. La Presenza Reale di Dio, la Sekinah, non dipende da un luogo geografico – «E’ giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv. 4,21) – ma è universale e si manifesta ovunque perché Essa è la Sua Persona che si rende presente eucaristicamente in qualsiasi luogo venga celebrata la Santa Messa ossia rinnovato il Santo Sacrificio della Croce.

La Casa di preghiera per tutte le genti

Nell’episodio evangelico della purificazione del Tempio, Gesù legittima la cacciata dei mercanti citando la Scrittura: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri» (Mc 11,17). Nostro Signore, come detto, durante il suo peregrinare terreno non ha fatto altro che esegesi. La sua citazione mette insieme due passi della Scrittura. La prima parte è un richiamo di Isaia 56,7 mentre la seconda parte richiama il passo del profeta Geremia nel quale Dio dice «È forse una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me?» (Ger 7,11) rimproverando gli Israeliti che venivano da tutte le parti a prostrarsi al Tempio di Gerusalemme ma che non seguivano con il cuore la Sua Volontà.

Il testo di Isaia 56,7 è straordinariamente chiarificatore. Fa parte di una serie di oracoli di salvezza legati al  quarto carme del Servo del Signore (Is. 52-13; 53,12). In quel testo il profeta annuncia che nella futura comunità dei redenti saranno inclusi anche due tipologie di persone, gruppi marginali nella società del tempo, che per la Legge Mosaica erano tenuti separati dalla comunità degli Israeliti. Si tratta degli stranieri e degli eunuchi: «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: “Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!”. Non dica l’eunuco: “Ecco, io sono un albero secco!”. Poiché così dice il Signore: “Agli eunuchi che osserveranno i miei sabati, preferiscono le cose di mio gradimento e restano fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome meglio di figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato. Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio santo monte e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,3-7).

Questo testo si comprende ancor meglio alla luce dei versetti iniziali del c. 56. Nei versetti iniziali –  «Così dice il Signore: “Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché prossima a venire è la mia salvezza; la mia giustizia sta per rivelarsi”» – , Dio, ammonendo gli israeliti affinché sia fatta la Sua Volontà, pronuncia una beatitudine: «Beato l’uomo che così agisce, e il figlio dell’uomo che a questo si attiene, che osserva il sabato senza profanarlo, che preserva la sua mano da ogni male» (Is 56,2). In questi versetti è detto “uomo/figlio dell’uomo” e non giudeo o figlio di Israele. Ai due gruppi marginali sono chieste né più né meno che le stesse cose richieste ad un israelita, amare il prossimo e praticare la giustizia. Nessuna distinzione tra l’ebreo ed il non ebreo.

E’ stato uno studioso israelita, il Prof. Greenberg, a notare come di fronte all’apertura universale del passo di Isaia, per contrasto, l’interpretazione che ha prevalso nella letteratura rabbinica è in genere totalmente restrittiva. Il passo di Isaia 56,7 è citato una ventina di volte nel Talmud, sia in quello Babilonese che in quello Palestinese, e nei vari Midrashim (interpretazioni omiletiche della Scrittura) eppure, secondo Avigdor Shinan, Professore dell’università ebraica di Gerusalemme, ogni volta l’espressione “Gerusalemme casa di preghiera per tutti i popoli” è riferita esclusivamente al popolo ebraico. La spiegazione offerta dal Prof. Shinan guarda alla polemica tra giudei e cristiani che nei secoli ha condizionato le reciproche posizioni teologiche, ebraica e cristiana. In altri termini, i rabbini consideravano la santità di Gerusalemme una cosa esclusiva per il popolo ebreo e non volevano condividerla con cristiani ed islamici. E’ interessante notare che questa pretesa è quella che anche oggi ha ispirato la proclamazione della Citta Santa quale esclusiva capitale dello Stato sionista di Israele, con l’appoggio del presidente americano Donald Trump (gli Stati Uniti sono il braccio armato della politica sionista). Eppure la spiegazione dell’autorevole studioso israeliano non coglie l’essenza del problema ed è quindi riduttiva. Troppo facile dire che lungo i secoli la polemica ha orientato l’interpretazione dimenticandosi del senso escatologico che traspare dall’intera Scrittura e che vediamo, soprattutto oggi, svolgersi sotto i nostri occhi.

Intorno al Tempio di Gerusalemme si stanno esplicitando, da quasi un secolo, vicende della storia della salvezza che fanno comprendere come mai quella attuale nel Vicino Oriente non è una guerra geopolitica ma implica realtà di ordine superiore connesse con l’adempimento finale del destino di Israele. Che non sarà di trionfo mondiale come pensano oggi gli ebrei religiosi, i sionisti e gli evangelici cristiano-sionisti americani. Ma sarà il compimento salvifico del percorso spirituale e storico del “resto di Israele” mentre le speranze pseudo-messianiche dell’ebraismo postbiblico, e del suo parto politico sionista, naufragheranno. Tutto sembra dire che questo naufragio avverrà con una catastrofe finale per l’Israele sionista. Il discorso escatologico di Gesù – «quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina» (Lc. 21,20) – non è riferito solo agli eventi dell’anno 70, debitamente adempiutisi secondo la sua predizione, ma va oltre il momento contingente ed è rivolto anche all’orizzonte escatologico finale. Infatti, le profezie devono essere sempre lette come rivolte al futuro anche se occasionate da eventi specifici e circoscritti nel tempo. Israele sta correndo, con velocità sempre più forte, verso la sua catastrofe finale ma il suo “resto” si salverà: nella Scrittura quella del “resto di Israele” è una teologia ben fondata che richiama la forza dei soli israeliti fedeli a Dio nel riprendere il cammino dopo ogni dolorosa purificazione storica.

In 1 Re 8,41-43 è riportata la bella preghiera di Salomone in occasione dell’inaugurazione del Tempio da lui ricostruito: «Ugualmente uno straniero, che non è del tuo popolo Israele, qualora venga da un paese lontano per amore del tuo nome… tu ascoltalo dal cielo, dal luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo…». La preghiera è stata esaudita, benché in modo inaspettato per lo stesso Salomone. In Cristo, infatti, anche gli stranieri sono giunti al Tempio – che è la Sua Persona, eucaristicamente presente ovunque – e sono stati ammessi nell’Alleanza.

Ciononostante, l’ebraismo postbiblico, o almeno alcune sue correnti politicamente armate, si ostina nell’idea della ricostruzione del Tempio di Gerusalemme per ripetervi l’olocausto della giovenca rossa e lo sgozzamento pasquale degli agnelli, affinché Dio mantenga la sua promessa di innalzare Israele al primato etico-politico sul mondo. I rabbini più pii, legati alla pura tradizione ebraica ed avversi alla deriva sionista dell’ebraismo, denunciano da tempo l’essenza blasfema di questi progetti riedificatori covati dal sionismo religioso. Alcuni gruppi dell’ebraismo tradizionale, come ad esempio i “Neturei Karta” (Guardiani della Città), additano i progetti sionisti come un prometeico “forzare la mano a Dio”. Un prometeismo che essi, sulla scorta delle proprie tradizioni talmudiche, temono foriero di disastri per il popolo ebreo.

Il “tempo dei pagani”

Il grande scrittore e filosofo russo Vladimir Sergeevič Solov’ëv, nel suo “Il racconto dell’Anticristo”, scritto nell’anno 1900, pochi mesi prima della morte, richiamò una antica tradizione cristiana, che ha il suo fondamento nelle parole di Gesù in Gv. 5, 43 «Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste». Secondo questa tradizione cristiana il regno dell’Avversario di Cristo, ad imitazione di quello del Redentore, sarà universale e alla sua realizzazione coopererà allegramente il popolo ebreo, tornato in Palestina, nella convinzione di collaborare all’avvento dell’era messianica come la immagina la prospettiva propria del giudaismo. Nel racconto di Solov’ëv solo una minoranza di cristiani – anche qui un “resto” – guidati dal Papa Pietro II si opporrà al dominio globale dell’Imperatore del Mondo, nonostante ogni sua profferta anche allettante. Tuttavia, con evidente connessione con la teologia della storia di matrice paolina, Solov’ëv assegna proprio agli ebrei, che lo avevano accolto come loro Messia, il ruolo di smascheratori dell’Anticristo, quando scoprono che egli non è circonciso. Dopodiché essi riconoscono nel Cristo della Seconda Venuta il Vero Messia.

In Solov’ëv risuona la profezia di Paolo di Tarso: «Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una resurrezione dai morti? (…) l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato …» (Romani 11,15; 11, 25-26). Il convincimento di san Paolo, a riguardo dell’indurimento di una parte di Israele fino a che tutte le genti non saranno entrate in Cristo nell’Alleanza, per giungere alla salvezza di tutto Israele, ossia dell’Israele teologale che è composto sia da ebrei che da gentili, deriva direttamente dalle parole profetiche di Gesù riportate da Luca in 21,24 nel discorso escatologico di Nostro Signore «Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti».

E’ innegabile che la Città Santa sia rimasta in mano dei gentili per duemila anni fino al dopoguerra, quando essa è tornata in possesso degli ebrei nello Stato sionista. Ma sarebbe errato giungere ad interpretare questi avvenimenti come l’annuncio della restaurazione del regno di Davide secondo la prospettiva dell’ebraismo postesilico che è stata mutuata, con adattamenti in senso pseudo-cristiano, dai predicatori cristiano-sionisti americani come, ad esempio, Lewis David Allen per il quale «Il Messia regnerà dal trono ristabilito di Davide a Gerusalemme. Risorto, Re Davide sarà co-reggente assieme a Cristo. Israele occuperà una posizione di gloria e dominio sulle nazioni del mondo. I Cristiani rinati si uniranno al Messia e ai dirigenti di Israele nell’amministrare il regno di Dio sulla terra» (“Can Israel Survive in a Hostile World?”, New Leaf Press, Green Forest, AR, USA 1994, p. 150).

Il giungere a compimento del “tempo dei pagani” è, in verità, il sopraggiungere della fine dell’Anno di Grazia del Signore durante il quale la Porta dell’Ovile Santo – ossia Gesù Eucaristico «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9) è rimasta aperta per tutti gli uomini di buona volontà, siano essi gentili o ebrei. Con il compimento del tempo dei pagani – che è quello nel quale l’Israele carnale è stato reciso dall’Olivo affinché vi fossero innestati i gentili – si chiuderà l’Anno Sabbatico della Misericordia che precede il tempo della Giustizia. Non si tratta affatto della restaurazione del Tempio di Gerusalemme e del Regno di Israele, che invece è manifestazione dell’Iniquo, quanto piuttosto del trionfo salvifico di “tutto Israele” ovvero della Chiesa – la Chiesa degli ebrei, tali sono infatti Maria e gli apostoli e tanti israeliti giunti a Cristo nel corso dei secoli, e dei gentili ex pagani – che è il Nuovo Israele continuazione dell’Antico Israele nella sua realtà ed essenza teologale, quindi non etnica né politica.

Piuttosto vi sarebbe da notare che è proprio la sicumera riedificatoria sionista, ovvero la prospettiva millenarista sottesa all’idea della ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, ad esporre gli ebrei a gravi pericoli, perché Dio non si fa forzare la mano dall’uomo e respinge da Sé i superbi e gli orgogliosi. Ricostruire il Tempio ebraico nella Città Santa significa abbattere l’islamica Cupola della Roccia, con quali conseguenze belliche in termini geopolitici e di sconvolgimento epocale ben si può immaginare.

Non solo. La Tradizione cristiana ha sempre interpretato le parole di Gesù in Lc. 21,24, nella loro connessione con quelle in Gv. 5,43, quale annuncio del sopraggiungere dei tempi della manifestazione dell’Impostore. Tempi dunque messianici ma nel senso di quel che deve precedere la Parusia di Nostro Signore  ovvero l’“impostura anti-cristica”, rammentata dal Catechismo della Chiesa Cattolica ai paragrafi n. 675, 676 e 677. Il fatto che il ritorno degli ebrei in Terra Santa sia avvenuto mentre il mondo andava globalizzandosi in una organizzazione umanitariamente totalitaria, respingendo al contempo la fede in Cristo – «Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc. 18, 8) – ci mostra il segno dello svolgimento storico delle parole profetiche di Gesù nel quadro escatologico, annunciato nel Libro dell’Apocalisse, del dominio mondiale dell’Umanità Autodeificata (Gn. 3,5). Ossia ciò che oggi chiamiamo globalizzazione: «le fu dato potere sopra ogni stirpe, popolo, lingua e nazione. L’adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello immolato» (Ap. 13,7-8) ed ancora «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei» (Ap. 13, 16-18).

Il Tempio escatologico, quello Vero

Se, dunque, la ricostruzione del Tempio di pietra  in Gerusalemme lungi dall’essere l’annuncio dell’arrivo del Messia sarebbe piuttosto, laddove fosse realizzata, un inquietante segno del manifestarsi dell’Iniquo, dell’islamico Al-Dajjal, non bisogna pensare che escatologicamente sia irrilevante la questione templare. Ma come la Vera Gerusalemme è quella celeste così anche il Vero Tempio è trascendente. Esso coincide con la Persona dell’Agnello che siede sul trono della Gerusalemme celeste all’atto della sua kenotica manifestazione, ovvero della sua discesa dall’Alto, per trasfigurare la creazione che le andrà incontro guidata dalla schiera festante dei santi, dei salvati, inneggianti a Dio. Come gli israeliti accolsero acclamanti Gesù, al momento del suo ingresso messianico nella Gerusalemme terrena all’inizio della settimana santa della Sua Pasqua di Dolore, così alla fine dei tempi gli eletti acclameranno l’Agnello intronato e glorioso nella Gerusalemme celeste di cui Egli in Persona è il Tempio.

Il Libro dell’Apocalisse, richiamando le immagini dell’Albero della Vita e dell’Acqua Viva già del Libro del Genesi nonché l’immagine della Gerusalemme messianica delle profezie messianico-escatologiche dei profeti di Israele – da Isaia a Daniele, da Zaccaria ad Ezechiele –, che l’ebraismo postbiblico interpreta erroneamente come riferite alla Gerusalemme terrena, lo attesta

«Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparse e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà ‘Dio-con-loro’. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”; e soggiunse: “Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. Ecco sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio. Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. E’ questa la seconda morte» (Ap. 21, 1-8),

ed ancora

«Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: “Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello”. L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. (…). Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello. Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dall’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni» (Ap. 21, 9-27; 22, 1-2);

in contrapposizione al marchio, senza del quale non si potrà né vendere né comprare, chiaro riferimento ad un potere finanziario globale, che l’Impostore imporrà ai suoi adoratori sulla mano e sulla fronte, come segno della loro appartenenza alla città terrena trans-nazionale e trans-frontaliera, la “Cosmopolis” unificata sotto il suo dominio universale, anche gli abitanti della Gerusalemme celeste porteranno un marchio sulla fronte ma tale marchio sarà il Nome dell’Agnello da essi adorato

«E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap. 22, 3-5).

Lo “sterminio delle nazioni”

Perché, dunque, per tornare da dove abbiamo iniziato, quel giorno, nella sinagoga di Nazareth, Gesù alla lettura della prima parte della profezia messianica di Isaia non fece seguire, per lo sdegno e lo scandalo dei suoi ascoltatori, anche le altre parti? La Bibbia fa spesso riferimento allo “sterminio delle nazioni”, dei popoli pagani ed idolatri. Anche nell’Apocalisse di Giovanni ritroviamo questa immagine. Presso gli israeliti, privi della consapevolezza della prospettiva cristologica, intrinseca alla Scrittura ma non ancora palese prima dell’Incarnazione – solo i Patriarchi ed i Profeti ebbero accesso per via mistica alla Verità del Cristo Venturo, come attesta Gv. 8, 56 «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» – era prevalso un approccio esegetico secondo il quale il Regno futuro di Israele sarebbe stato il dominio politico universale del popolo ebraico, quindi l’affermazione del primato mondiale di Israele su tutti gli altri popoli e del diritto ebraico ad “attuare la Vendetta del Signore nel Giorno della Giustizia del Dio di Israele” sui goym che non si fossero piegati al “regno di Dio sulla terra”.

Per questo, presso gli ebrei del suo tempo, l’immagine dello “sterminio delle nazioni” non era cristologicamente interpretata in riferimento al futuro Giudizio Escatologico Universale, all’Ottavo Giorno ossia quello nel quale i capri e le pecore, il grano e la zizzania, saranno separati sulla base dell’amore profuso nella vita di ciascuno: «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt. 25, 31-46).

Gesù, dopo i primi versetti, non andò oltre nella lettura di Isaia perché sapeva benissimo quanto l’esegesi invalsa presso gli ebrei avesse frainteso quella profezia, come tanti altri passi biblici. Egli non volle aggiungere, nelle intelligenze traviate, confusione a confusione.

Il paradosso sta nel fatto che, come abbiamo detto, effettivamente l’idea di un “giudizio” che è “vendetta” di Dio, “punizione” dell’idolatria conseguente al peccato, e quindi l’idea di un “supplizio” o “sterminio” degli idolatri, dei pagani, è biblicamente fondata, proprio perché essa ha a che fare con il Giudizio Universale dell’Ultimo Giorno. Ma non ha nulla a che vedere con presunti primati, morali o anche politici del popolo ebraico, bensì con la sentenza definitiva di salvezza o di condanna in conseguenza del giudizio cui tutti gli uomini e tutti i popoli, non esclusi gli ebrei, saranno sottoposti. Sicché i salvati come i dannati saranno “una grande moltitudine di ogni popolo e lingua”. Sterminio delle nazioni pagane, certamente, ma inteso come il giudizio escatologico di condanna per chiunque, ebreo o gentile, rigetti l’Alleanza in Cristo con Dio o di salvezza per chiunque, ebreo o gentile, in quella Alleanza vivrà e morirà per l’Amore Divino.

Lo attesta, ancora una volta, il Libro della Rivelazione, richiamando l’immagine isaiana di Dio “vendemmiatore” che stritola i popoli pagani nel torchio della Sua Giustizia

«Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava “Fedele” e “Verace”: egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. E’ avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori. Vidi poi un angelo, ritto sul sole, che gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volano in mezzo al cielo: “Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re, le carni dei capitani, le carni degli eroi, le carni dei cavalli e dei cavalieri e le carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi”. Vidi allora la bestia e i re della terra con i loro eserciti radunati per muover guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la bestia fu catturata e con essa il falso profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Tutti gli altri furono uccisi dalla spada che usciva di bocca al Cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni» (Ap. 19, 11-21).

Ma allo sterminio degli idolatri, alla vendetta di Dio sull’idolatria ossia sulla falsa gnosi ofidica che sedusse l’Adamo nel Giardino dell’Eden (Gn. 3,5), si contrappone la salvezza universale riservata agli eletti provenienti da ogni parte e da ogni popolo ed ora membra vive del Corpo Mistico dell’Agnello ossia cittadini della Gerusalemme celeste

«Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”. (…). Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”. Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”. E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap. 7, 9-17).

L’Anno di Grazia e la Misericordia di Dio

Prima del Giorno della Giustizia, tuttavia, ci è stato concesso in Gesù Cristo un Anno di Grazia, un Anno di Misericordia, corrispondente al tempo tra la Prima e la Seconda Venuta del Verbo. Chi non vorrà approfittare di esso dovrà poi passare per la porta dura e stretta della Giustizia Divina. Ed è questo che intendeva dire Isaia nella sua profezia messianica, ai suoi tempi non ancora adempiuta, e che gli ebrei, ancora ai tempi di Gesù, non avevano compreso e tuttora non comprendono.

Rivelandosi ad una umile suora polacca, vissuta nella prima parte del XX secolo, suor Faustina Kowalska, oggi canonizzata ed universalmente conosciuta, Nostro Signore ha chiesto l’istituzione, nella Domenica in Albis, la prima domenica dopo la Santa Pasqua, della Festa della Divina Misericordia e, avvicinandosi, stando alle sue parole, i tempi della Giustizia, ha dettato le norme del Culto della Divina Misericordia che consta della omonima Coroncina e dell’Adorazione di Cristo nell’immagine che riproduce la forma nella quale Egli è apparso alla Kowalska e dalla stessa fatta dipingere, sotto sua guida, da un pittore. Un’immagine, attualmente molto nota, che raffigura Gesù in tunica bianca, con il braccio destro semi-elevato in segno di benedizione e la mano sinistra che scosta leggermente l’apertura della tunica all’altezza del Suo Cuore facendone sgorgare due raggi, uno rosso, corrispondente al Suo Sangue, ed uno bianco, corrispondente all’Acqua, che scaturirono dal Costato Trafitto sulla Croce.

«Questa Festa – ha detto Gesù a suor Faustina, come lei stessa ha riportato nel suo diario – è uscita dalle viscere della mia misericordia ed è confermata dall’abisso delle mie grazie. Ogni anima che crede e ha fiducia nella mia misericordia la otterrà. (…). Le anime periscono, nonostante la mia dolorosa passione. Concedo loro l’ultima tavola di salvezza, cioè la Festa della mia Misericordia. Se non adoreranno la mia Misericordia periranno per sempre. (…). Desidero che alla mia misericordia venga reso culto: do all’umanità l’ultima tavola di salvezza, cioè il rifugio nella mia misericordia. (…). Le fiamme della misericordia mi bruciano, desidero riversarle sulle anime degli uomini. Oh, che dolore mi procurano quando non vogliono accettarle! … Dì all’umanità sofferente che si stringa al mio cuore misericordioso e io la colmerò di pace. L’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla mia misericordia. Figlia mia parla al mondo della mia misericordia. Che conosca tutta l’umanità la mia insondabile misericordia. Questo è un segno per gli ultimi tempi, dopo i quali arriverà il giorno della giustizia. Fintanto che c’è tempo ricorrano alla sorgente della mia misericordia, approfittino del Sangue e Acqua scaturiti per loro. Prima che io venga come Giudice giusto, spalanco la porta della mia misericordia. Chi non vuole passare attraverso la porta della misericordia, deve passare attraverso la porta della mia giustizia».

Giovanni Paolo II – la cui elevazione al soglio pontificio fu predetta da Gesù a suor Faustina facendo riferimento ad una guida per la Chiesa che sarebbe uscita dalla Polonia prima del Suo ritorno – è stato il Papa che ha canonizzato la mistica polacca adempiendone anche il mandato divino di istituire la Festa voluta da Gesù. Per raggiungere questo scopo, Papa Wojtila dovette superare l’opposizione del Sant’Uffizio che aveva posto all’indice gli scritti della suora con l’erronea motivazione che dietro il culto da lei proposto si nascondesse una ideologia cristiano-nazional-polacca (il rosso ed il bianco dei raggi, nell’immagine del Gesù Misericordioso, furono ritenuti un riferimento ai colori della bandiera polacca). Una delle prime encicliche scritte da Giovanni Paolo II, che già da giovane praticava il culto diffuso da suor Faustina, è non a caso la “Dives in Misericordia” (1980), dedicata alla storia teologica della Verità della Misericordia Divina a partire, va sottolineato, dall’Antico Testamento approcciato con la giusta chiave esegetica cristologica.

Senza la chiave interpretativa fornitaci da Gesù Cristo, la Scrittura è suscettibile – come più volte purtroppo accaduto nel corso dei secoli – di pericolosissime distorsioni dalle tragiche conseguenze spirituali e storiche. Anche e soprattutto per i distorsori.

Luigi Copertino

Da www.domus_europa.eu