LIBIA. TORNARE ALLA GEOPOLITICA.

di Roberto PECCHIOLI

E’ tornato il tempo della geopolitica anche per l’Italia. Se non ora, quando? Le vicende del nuovo secolo, unite agli eventi dell’ultimo scorcio del millennio trascorso, hanno mostrato che la politica, la storia, non si sono mai arrestate, ma sono mutate in maniera rapidissima e profonda. Per capirle, non farsene travolgere e possibilmente orientarle, riappare una chiave interpretativa dimenticata: la geopolitica. Scienza poco frequentata in Italia, punto di congiunzione tra storia, geografia, economia e politica con incursioni nell’etnologia e nell’antropologia culturale, studia i fattori geografico-storici e fisico-ambientali che condizionano la storia. Sorse in area germanica ad iniziativa di geografi come Friedrich Ratzel e lo svedese Rudolf Kjellen, venne poi sviluppata come efficace forma di instrumentum regni dell’impero britannico ad opera di Halford Mackinder, teorizzatore del conflitto terra-mare e padre della teoria dell’Heartland. L’heartland, o cuore della terra, nel pensiero di Mackinder è il territorio delimitato ad ovest dal Volga, a nord dall’Artico, ad est dal corso del cinese Fiume Azzurro e a sud dall’Himalaya. Chi controlla quella porzione di terre emerse è di fatto padrone del pianeta. La teoria è stata poi integrata in area americana dal concetto di Rimland, l’immensa fascia costiera che circonda l’Eurasia.

Un uomo politico quasi dimenticato, Beppe Niccolai, esortava gli italiani a non ragionare di politica con le categorie della sociologia, delle ideologie o dell’etica corrente, ma a pensare in termini di storia. L’Italia dopo il 1945 ha pressoché dimenticato la storia, dunque la politica e la geopolitica. Ogni politica è innanzitutto politica estera, ma la nazione italiana e lo Stato, dopo la sconfitta militare, hanno rinunciato ad esercitare un ruolo qualsiasi. Ci siamo rifugiati in una sorta di ritorno all’ infanzia, un popolo regredito a Peter Pan collettivo bisognoso di tutela, protezione, felice di tornare colonia o provincia straniera, come nelle più infelici stagioni della sua storia.

Una lezione trascurata, quella di Niccolai, che torna di attualità nella confusione del presente, caratterizzato da fenomeni come la globalizzazione, le grandi migrazioni sull’asse Sud Nord, il predominio dell’economia e della finanza, il potere delle organizzazioni transnazionali, l’immensa capacità di controllo, indirizzo e formazione delle coscienze delle nuove tecnologie informatiche, elettroniche e della comunicazione.

In un quadro siffatto occorre una bussola, che la geopolitica individua nell’interesse permanente delle nazioni legato all’area geografica che occupano, allo sviluppo economico, ai soggetti vicini, alle emergenze storiche e culturali. L’Italia ha smarrito la bussola, inverando il grido di dolore di Dante Alighieri, il vero padre della nostra Patria: “ahi, serva Italia di dolore ostello/ nave sanza nocchiero in gran tempesta/ non donna di province, ma bordello“. Nazione a sovranità limitata con oltre cento basi straniere sul territorio, paese occupato, diviso per mezzo secolo tra filo americani e filo sovietici, poi sollevata alla prospettiva di dissolversi nell’ Europa dei mercanti.

La storia ci parla di continue dispute intestine a tutto vantaggio degli stranieri di turno, spesso invocati sul nostro territorio da una o più parti in causa, all’ombra del potere papalino avversario dell’unità nazionale. Il dopoguerra ci ha consegnato all’egemonia di due culture antinazionali, quella comunista e quella clericale, il cui unico avversario di rango animato da sentimenti di orgoglio italiano fu non un movimento, ma un uomo, Bettino Craxi, la cui disgrazia originò allorché nel 1987 si oppose agli americani a Sigonella.

Non c’è più tempo, tuttavia, per recriminazioni o indagini retrospettive sul passato; rischiano di trasformarsi in autopsie su un corpo morto. Prendiamo il caso della questione libica, le cui ripercussioni sulla crisi migratoria e sulla politica energetica sono evidenti. L’Italia, forte della vicinanza geografica e storica con quella che fu la “quarta sponda”, parteggia per la fazione capeggiata da Serraj. La Francia, maggiore responsabile del folle attacco contro Gheddafi per motivi di politica energetica e di consolidati interessi in Africa, sostiene le milizie di Haftar. La prima riflessione è che l’Europa non esiste, se due grandi nazioni alleate da 70 anni, entrambe fondatrici delle istituzioni europee, sono contrapposte in maniera tanto plateale nel decisivo scenario africano.

La seconda è che, nonostante l’Unione Europea, o magari a causa di ciò che essa è diventata, alcuni Stati (Francia e Germania innanzitutto, ma la Gran Bretagna in uscita non si comporta diversamente) continuano a svolgere politiche autonome, perseguendo interessi ed obiettivi in contrasto con altri paesi membri e con l’Unione nel suo complesso. Segno che pensano in termini nazionali e geopolitici. I tedeschi, assorbita dal punto di vista economico la disfatta bellica e recuperato (parte) del territorio perduto nel 1945, agiscono in termini di lebensraum, spazio vitale, la dottrina di Klaus Haushofer. Nell’impossibilità di conquiste territoriali, la Germania ha recuperato sotto forma di influenza economica e finanziaria sull’Europa centro orientale un’egemonia sconfitta due volte dalle armi.

Attraverso l’ordoliberismo, ovvero il sistema economico sociale giuridicamente ordinato, pratica il vecchio mercantilismo della Francia monarchica e dell’Inghilterra imperiale, declinato in termini tedeschi nel XIX secolo dall’opera di Friedrich List: esportazioni di prodotti industriali e di know-how tecnologici, scarse importazioni, l’istituzionalizzazione di un’economia politica del vivere al di sotto dei propri mezzi. La Gran Bretagna, nonostante l’ingresso nella CEE nel 1973, ha perseguito la tradizionale una politica di vicinanza agli Usa, ha sopperito alla crisi industriale puntando sulla finanza conservando il rango mondiale della piazza di Londra. Ha confermato il rapporto privilegiato con il proprio impero finito dopo il 1945 (Commonwealth) e mantenuto una politica di potenza, anche militare, attraverso la relazione ombelicale con gli Usa. Non più l’orgoglioso Rule Britannia del passato, ma i fedeli scudieri degli americani, con la scaltra diplomazia inglese e i suoi dipartimenti riservati intenta a mantenere il ruolo di guardiana di aree decisive del pianeta, come il Medio Oriente, oltre al controllo, da potenza talassocratica, dei poli marittimi strategici.

La stessa Spagna, pur con un modesto apparato industriale e indebolita dalle spinte al disfacimento interno (Catalogna, Paesi Baschi), ha conservato un profilo internazionale più alto del nostro, sfruttando il suo rapporto storico con quella che chiamano Iberoamerica, frutto della grande avventura colombiana. Tralasciando gli Stati più piccoli, solo l’Italia si è consegnata a un doppio destino negativo: colonia culturale e portaerei militare degli Usa, entusiasta sostenitrice dell’Unione Europea anche contro i suoi interessi concreti. Basta citare la PAC, la Politica Agricola Comune, che ci ha visti soccombere prima dinanzi alle produzioni del Nord Europa (quote latte e non solo) poi cedere terreno sul fronte dei prodotti mediterranei, perdendo reddito, distruggendo produzioni, cedendo mercati.

Esempio di geopolitica rovesciata fu l’appoggio all’entrata della Turchia nell’UE, con tutto ciò che significa in termini politici, etnici, culturali. La nazione anatolica guidò un impero secolare, aggressivo e nemico della parte di Europa che non riuscì a sottomettere. Una delle città simbolo della nostra civiltà, Costantinopoli, sede dell’impero romano d’oriente, poi Bisanzio, è diventata turca nel 1453 per inazione dell’Europa di allora. Nel Cinquecento, i turchi furono fermati a Lepanto dalle armate cristiane, ma ci riprovarono assediando Vienna nel 1683, respinti per l’intervento del re polacco Jan Sobieski. In quelle vicende, spiccò il ruolo ambiguo di stati italiani come Venezia, ma rifulse il ruolo attivo della Chiesa, simboleggiato da figure come Marco d’Aviano. Il dramma contemporaneo è il passaggio dalla parte del mondialismo e della distruzione della civiltà europea della neo Chiesa di rito argentino.

La Turchia resta un ottimo partner economico – il suo rapporto con l’UE è di grande favore – ma geopoliticamente non può essere un alleato permanente. Lo nega la storia, lo impedisce la geografia, che ha posto la penisola anatolica come un cuneo tra l’Europa orientale e meridionale, la Russia, il Caucaso e la Mesopotamia. La matrice islamica ne rende ancora più pericolosa la vicinanza, come sapevano gli abitanti delle nostre coste, soggetti ad attacchi e invasioni continue, sperimentate da greci, serbi e armeni in Europa, curdi in Medio Oriente.

Resta incredibile la follia geopolitica che ha espunto dall’Unione Europea le radici cristiane, consegnandoci a un destino esclusivamente rivolto all’economia e alla finanza. Uno dei grandi del romanticismo tedesco, Novalis, scrisse Cristianità, ovvero l’Europa, invano due papi provenienti dall’Europa centrale, il polacco Wojtyla e il bavarese Ratzinger hanno cercato di reagire. Ha vinto la finanza apolide amata da Voltaire, autore di un apologo delle transazioni di borsa, a suo dire simbolo di amicizia tra i popoli.

L’Europa, perduto il suo primato sulle trincee fratricide della prima guerra mondiale, ha poi commesso gravi errori nel secondo dopoguerra. Si è consegnata all’egemonia americana per inconsistenza politica e nullità militare, ha pensato se stessa unicamente nei termini di un’area di libero scambio, una zollverein senza l’unità culturale che i popoli tedeschi ostentavano nel secolo decimonono. Fu la Francia a rifiutare l’embrione di un esercito unico negli anni 50, temendo il riarmo tedesco. In tempi successivi, peraltro, Charles De Gaulle intuì le derive dell’idea di Europa imposta dalle élites finanziarie e culturali massoniche. Tuonò contro la sinarchia, il governo mondiale degli illuminati, di cui era agente un francese pessimo quanto osannato, Jean Monnet, lottò per un’Europa delle patrie di stampo confederale, non si inchinò alla Nato e fu all’origine del fallimento della finta convertibilità in oro del dollaro che durò da Bretton Woods al 1973.

Oggi la geopolitica europea è inconsistente, ognuno va per conto proprio, eccetto il potere monetario (Banca Centrale) e l’oligarchia finanziaria il cui braccio operativo è la Commissione dell’UE. Non esiste alcuna politica unitaria rispetto all’immigrazione e alla difesa dei confini, con il clamoroso fallimento del trattato di Schengen, tanto meno un sistema di difesa comune o una politica finanziaria condivisa, giacché la BCE è un potere autonomo e irresponsabile. Neppure esistono i buoni del tesoro europei per i quali si batté invano Giulio Tremonti.

In chiave italiana, l’evidenza geopolitica è chiarissima consultando un atlante. Abbiamo 7.000 chilometri di coste, l’ossatura del territorio è costituita da una lunga e stretta penisola che si insinua verso sud est, prossima a terre abitate da popolazioni assai diverse. Le invasioni, i pericoli sono venuti da nord est nell’Alto Medioevo, ma poi quasi sempre da sud, giacché le ricorrenti invasioni di eserciti stranieri da settentrione hanno avuto come primi responsabili i nostri dissidi intestini. La storia ci racconta dello spirito gregario che ci divise tra papato ed impero, guelfi e ghibellini. Il fondatore della scienza politica moderna Nicolò Machiavelli insorse contro l’Italia percorsa da stranieri alleati degli staterelli domestici. Famosa è la sua invettiva “a ognuno puzza questo barbaro dominio” (Il Principe cap. XXVI). Si sbagliò, il grande fiorentino, poiché agli italiani di ogni tempo piace il dominio altrui purché schiacci il nemico interno. Più realista fu il concittadino e contemporaneo Guicciardini, teorico del “particulare” degli italiani.

Pure, i veri pericoli vennero da Sud anche al tempo di Roma. I cartaginesi invasero la penisola dalle Alpi, ma erano africani e Roma impiegò tre guerre e patì sanguinose sconfitte e la disfatta di Canne prima di debellare il rivale punico, una sorta di potenza mondialista dell’epoca. Le scorrerie ottomane sono storia di tutta la costa della penisola e delle grandi isole. Per evidenze geografiche, il destino europeo dell’Italia non può essere disgiunto da quello mediterraneo, come compresero Benito Mussolini e financo Aldo Moro. Il politico pugliese fu artefice di un’operazione politica riservata, il cosiddetto Lodo Moro, che tenne al riparo l’Italia dalle conseguenze del conflitto arabo israeliano negli anni 70.

Non ci sembra casuale il destino dei due esponenti che, pur tra mille errori, osarono assumere autonome decisioni politiche, Moro e Craxi, uno ucciso e l’altro costretto alla fuga ad Hammamet. Ucciso fu anche Enrico Mattei, l’artefice della grande politica energetica nazionale. Sospetta fu la fine di Adriano Olivetti, la cui azienda inventò i primi computer e oggi è pressoché azzerata.

Nei fatti, al di là della storiografia ufficiale di facciata, la storia nazionale del secondo dopoguerra è una lotta sorda, ma non per questo meno reale, di potenze europee contro lo sviluppo italiano. Nazione di grandi capacità di invenzione e trasformazione, abbiamo raggiunto in pochi anni paesi di tradizione più consolidata, ma restiamo privi di materie prime. Per questo è autolesionistica ogni polemica contro i tentativi di innovazione energetica, a partire dal rifiuto assoluto del nucleare di fine XX secolo sino alle odierne resistenze contro ricerche, installazioni e prospezioni.

Dopo la lezione di Mattei, l’unico vero merito di Silvio Berlusconi fu il tentativo di assicurare all’Italia una certa indipendenza energetica attraverso accordi con Russia (gas) e Libia (petrolio). L’autonomia e lo sviluppo, evidentemente, non ci vengono perdonati dai concorrenti; il Cavaliere fu abbattuto con l’arma della guerra finanziaria provocata (lo spread) e la collaborazione proattiva delle oligarchie italiane, capitanate da un funzionario di lungo corso delle lobby mondialiste, Giorgio Napolitano.

Nel presente, l’arma atomica contro di noi è l’immigrazione incontrollata da sud. Fenomeni della specie non sono nuovi nella storia, in altre circostanze sono stati manovrati e provocati con piani precisi. Nell’attualità, la leva è la grave crisi demografica dei popoli bianchi, che nessun governo affronta, unita al falso umanitarismo diffuso a piene mani insieme con un pacifismo intriso di viltà, ipocrisia e decadenza mascherato da elevate virtù civili.

L’Europa non sa elaborare alcun pensiero geopolitico di lungo periodo. Pensiamo alla dottrina Monroe degli Usa del primo Ottocento, quell’ ” America agli americani” che abbatté il colonialismo iberico e francese per sostituirlo con il tallone nordamericano, sino alla guerra di Cuba e alle Filippine asiatiche sottratte agli spagnoli, la cui crisi nazionale dura dal 1898. Potremmo rammentare l’euroasiatismo e il panslavismo di matrice russa e il ricorrente sogno neo ottomano della Turchia. Nulla di simile emerge in area europea, se non costanti geopolitiche perseguite a livello nazionale.

C’è l’impegno tedesco a controllare le economie dell’Europa centrale e degli Stati confinanti, l’arma monetaria (prima il marco forte, poi l’euro a misura di Germania) dispiegata per abbattere la capacità produttiva dei concorrenti, in primis l’Italia. Resiste il disegno della grandeur francese fondato sull’egemonia in una parte significativa dell’Africa, attraverso l’uso spregiudicato dell’esercito, in particolare della legione Straniera, dei servizi di intelligence e il possesso dell’emissione monetaria del franco CFA utilizzato in 14 paesi.

La Gran Bretagna, antico impero, si è chiamata fuori e le sue politiche sono ormai lontane dall’Unione Europea. Restiamo noi, estranei a qualunque visione di lungo termine, incapaci di esprimere un progetto industriale, economico, nazionale volto al futuro. Prigionieri della gabbia finanziaria e giuridica dei trattati europei, abbiamo iniziato a comprendere quanto i nostri interessi siano distanti dalle oligarchie che determinano le politiche intraeuropee, ma non possediamo un piano alternativo. Tre punti almeno dovrebbero essere irrinunciabili: la difesa intransigente dei confini, una politica energetica flessibile che ci renda autonomi dagli interessi petroliferi (Usa, Gran Bretagna, Francia, mondo arabo loro alleato); il controllo pubblico sulle reti di telecomunicazione, nodo strategico di un mondo basato sulle connessioni.

Anche Germania e Giappone furono sconfitte, entrambe in maniera più rovinosa dell’Italia, ma non hanno perduto la pace. L’Italia reagì splendidamente dopo la tragedia, ma, esaurita la generazione dei ricostruttori, ha smarrito visione, speranza, concretezza. Le sue classi dirigenti sono ripiombate nella mediocrità e nella dipendenza da suggestioni straniere. Tornati servi disposti a ogni cambio di livrea pur di conservare il “particulare”, abbiamo perduto il senso di noi stessi. Il momento è favorevole, ma l’attimo è fuggente, l’ultima occasione di essere Italia è adesso. Padroni a casa nostra, sì, ma per realizzare qualcosa, riprendere un posto tra le nazioni che contano, restare in Europa con un occhio allo scenario africano e medio orientale tanto vicino e prossimo a travolgerci e cancellare tre millenni di storia e civiltà, riprendere il controllo di ciò che davvero conta, moneta, confini, politica estera, energia. In un mondo di reti, l’Italia è ridotta a mero hub, un’intersezione tra le tante in un sistema su cui non abbiamo influenza.

La geopolitica insegna, orienta, costruisce la cornice. Ma il quadro, l’Italia, esiste, vuole essere tale o si balocca nelle illusioni ammantate di menzogna dei poteri nemici, balla immemore sul Titanic fino al naufragio finale? Dalla risposta a questa domanda dipende il nostro futuro di popolo, nazione, Stato, civiltà. Anche nella geopolitica si può essere ai tempi supplementari, e l’Italia lo è. Tuttavia i popoli, se sono tali e non masse casuali, hanno riflessi di vita. Non resta che scommettere disperatamente su noi stessi.

ROBERTO PECCHIOL