LEGALITA’ E LEGITTIMITA’ (una nota a margine della crisi del governo giallo-verde) di Luigi Copertino

LEGALITA’ E LEGITTIMITA’

(una nota a margine della crisi del governo giallo-verde)

 

Il difficile normativismo kelseniano

La crisi di governo di quest’estate ha riproposto una antica questione di filosofia politica. Quella del rapporto tra la legalità formale e la legittimità sostanziale. In un sistema politico-giuridico liberal-democratico, ossia kelseniano – il riferimento è ad Hans Kelsen il filosofo della “dottrina pura del diritto” –, prevale una concezione normativista che assegna alla legalità formale un primato del tutto indipendente dal radicamento sostanziale della legalità stessa. Quel che conta è la “Grundnorm”, la Norma fondamentale, ovvero la Costituzione, dalla quale discende tutto l’impianto normativo ordinario ad essa subordinato. Sicché il giudizio ultimo inappellabile non è la volontà popolare ma il parere di “costituzionalità” della Suprema Corte adibita a Giudice delle Leggi. Non importa se la Costituzione è una norma sostanzialmente vuota ovvero priva di fondamento nell’identità popolare. La ragione addotta in difesa del normativismo è di evitare la “democrazia plebiscitaria” ossia diretta ovvero l’assetto leaderista dell’organizzazione statuale fondata sul rapporto diretto tra il Capo ed il Popolo.

Per questo Matteo Salvini, benché forte dell’appoggio popolare, nel caso non si dovesse andare al voto avrà fatto male i suoi conti avendo dimenticato che la nostra Repubblica è parlamentare, non presidenziale. L’impianto demo-liberale della nostra Costituzione prevede che i governi sono sostenuti dalle maggioranze che si formano nel parlamento, tra i partiti, e non direttamente dalla volontà popolare.

D’altro canto è incredibile il cedimento ideologico dei grillini. Essi nascono sulla base di una piattaforma politica favorevole alla democrazia diretta di stampo rousseviano ma hanno dimostrato di essere del tutto proni alla democrazia indiretta kelseniana. Se fossero stati conseguenti, con la filosofia del ginevrino alla quale si ispirano e che dicono di voler implementare mediante le nuove tecniche digitali ed informatiche, avrebbero dovuto immediatamente accettare la sfida elettorale senza tergiversare in prassi parlamentaristiche di matrice legalistico-formale. Ma si sa che parlare è facile, però quando poi si tratta della propria poltrona … . A nessuno piace, dopo aver assaporato il potere e la notorietà, tornare ad una vita blanda ed ordinaria.

Orbene, il legalismo formalistico finalizzato ad impedire derive plebiscitarie e pericolosamente autoritarie, ha un gravissimo peccato originale ovvero l’astrattismo e l’irrealismo. Finisce per naufragare inevitabilmente nel vuoto nichilista che esso stesso produce. Le democrazie liberali muoiono innanzitutto per mancanza di legittimità sostanziale ovvero di riconoscimento da parte popolare delle istituzioni pubbliche come “proprie”, come espressione di un radicamento spirituale, culturale e storico. Per questo, seguendo gli indirizzi ed i consigli di pensatori non kelseniani, diversi Stati si sono dati una organizzazione che introduce nella legalità costituzionale elementi fondamentali di legittimità sostanziale.

Le Repubbliche presidenziali o semi-presidenziali o quelle basate sul premierato – ad esempio gli Stati Uniti d’America, la Francia, la Germania – sono una sorta di “monarchia laica” nella quale il Presidente o il Premier sono espressione diretta della volontà popolare, con forte radicamento nazionale. Certo, onde evitare derive plebiscitarie, nelle Repubbliche di tal genere il potere quasi assoluto presidenziale è circondato da contrappesi costituzionali al fine di delimitarlo ma non annullarlo. Tuttavia questo potere diretto resta l’architrave dell’ordinamento statuale.

Il travaglio politico di questi giorni in Italia ha la sua causa principale nel fatto che nella nostra vigente Costituzione non esistono meccanismi per i quali, durante una crisi di governo, si deve tener conto principalmente degli orientamenti popolari e non di quelli dei partiti. I “padri costituenti”, del resto, non conoscevano affatto lo strumento dei sondaggi ed erano, inoltre, ancora sotto l’effetto del recente ricordo della dittatura fascista per preferire un sistema presidenziale ad uno puramente parlamentare. Essi, però, ci hanno lasciato in eredità il grande, irrisolto, problema di come coniugare legalità formale e legittimità sostanziale. Infatti, un governo parlamentare può essere del tutto legale sotto il profilo costituzionale e contemporaneamente del tutto illegittimo sotto il profilo sostanziale. Un eventuale governo M5S-PD sarebbe certamente legale in termini costituzionali ma tremendamente illegittimo in termini di legittimità sostanziale, perché privo, come sarebbe, di consenso popolare renderebbe palese il baratro esistente tra Paese legale e Paese reale. Non basta dire che un governo nato in parlamento rispecchia il rapporto di forze determinatosi al momento dello spoglio elettorale se detto rapporto di forze nel frattempo è completamente cambiato e non è più conforme a quello realmente ed effettivamente esistente in questo momento nella Nazione. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, farebbe bene a tener conto di questa evidenza anche laddove si formasse una arrangiata maggioranza alternativa in parlamento.

Da Jean Jacques Rousseau a Carl Schmitt

Abbiamo parlato di legittimità sostanziale intesa come espressione della volontà popolare. Si tratta dunque di “legittimità popolare”. Bisogna, però, intendersi cosa, da un punto di vista filosofico-politico, si intende con detto concetto, dato che anche sul piano legale-formalistico quella della maggioranza parlamentare è ritenuta una legittimazione, seppur mediata, popolare.

Uno dei modi di interpretare detto concetto è quello, cui come si diceva si ispirano i grillini, elaborato da Jean Jacques Rousseau nei termini della “volontà generale” della Nazione. Il pensiero di Rousseau è stato il fondamento del giacobinismo e delle sue pratiche terroristiche. Un grande filosofo della politica come Jacob Talmon ha intravisto nella filosofia politica di Rousseau la radice di tutti i successivi totalitarismi neri e rossi (1). Rousseau si muoveva all’interno della tradizione filosofica contrattualista. In altri termini apparteneva alla stessa famiglia filosofica di Thomas Hobbes e di John Locke. Se in età medioevale la Comunità politica era considerata una realtà di natura, ossia nascente non dall’accordo tra gli uomini ma dalla stessa natura sociale dell’uomo come Dio l’ha creata – sicché quando si parla, per il medioevo, di sistema politico “pattizio” bisogna stare bene attenti a non cadere nel tranello anacronistico confondendo il giusnaturalismo classico-cristiano con il contrattualismo moderno – al contrario tanto Rousseau che Hobbes e Locke considerano l’Autorità politica nascente da un “contratto sociale”, quindi dalle volontà individuali che si accordano per dare vita allo Stato.

Laddove Hobbes è fautore di una esegesi autoritaria del contrattualismo, per cui onde evitare il “bellum omnium contra omnes” i singoli individui plenipotenziari di tutto il potere, nel presunto “stato di natura”, lo delegano ad uno di essi affinché egli, il “Leviathano”, si ponga come indiscutibile arbitro e garante della “pace civile”, e laddove Locke propende, invece, per una esegesi liberale del contrattualismo, sicché agli individui resta quasi tutto il potere mentre all’Autorità deve essere delegato soltanto quello minimo e sufficiente a garantire i beni della vita, della proprietà e della libertà, dal canto suo Rousseau è il padre filosofico dell’interpretazione totalizzante del “contratto sociale” che generando la “Volontà Generale” determina la cessazione di ogni distinzione tra Stato e cittadino, pubblico e privato, in un unicum onnifagocitante, appunto totalitario.

Poste queste premesse diventa evidente, per chi è capace di vedere oltre le apparenze, l’utopia dell’endiadi “liberi ed eguali”. Tale endiadi si fonda sul concetto contrattuale del Politico ed esprime la teoria della coesistenza, su base convenzionale, dell’individuo libero e della collettività egalitaria. Il collettivo altro non sarebbe che la somma sinallagmatica degli individui formalmente eguali. Da qui la “Volontà Generale”. Ma – ecco il punto! – nei termini del contratto è impossibile tenere insieme la libertà, ossia il primato dell’individuo, con l’eguaglianza, ossia il primato del collettivo. Questo perché la sintesi è possibile soltanto nella fratellanza ma, mentre individualismo e collettivismo hanno fatto la loro prova storica, la “fratellanza” del trinomio rivoluzionario, che in realtà si riferiva alla fratellanza interna alle logge massoniche, non ha mai trovato, storicamente, conseguente concretizzazione in quanto essa, nella sua formulazione contrattualista, presume l’assenza del Padre comune, negato o deisticamente reso ininfluente e lontano.

Sulla linea di Hobbes, Carl Schmitt, il più grande filosofo del diritto e della politica del XX secolo, ha dimostrato la fondamentale importanza, per lo Stato moderno, del confronto tra legalità e legittimità. Lo fece durante la tragedia della Repubblica di Weimar, quando per rafforzare le deboli istituzioni del parlamentarismo tedesco postbellico propose, nel suo libro del 1931 “Il Custode della Costituzione” (2), la rifondazione della Repubblica sulla base del “führerprinzip” ovvero del presidenzialismo. Non fu ascoltato. Il grande giurista poi credette – per subito rimanere disilluso dai suoi esiti criminali – che l’ascesa del nazismo potesse inverare il suo auspicio di legittimità sostanziale del Politico. Infatti, il nazionalsocialismo portava avanti una concezione di comunità politica fortemente radicata nell’identità nazionale e nella cultura storica del popolo tedesco. Esattamente quel che secondo Carl Schmitt mancava alla Repubblica parlamentare weimeriana come manca ad ogni Repubblica parlamentare.

Dopo quello del 1931, tuttavia, il testo nel quale il grande filosofo tedesco affrontò in modo esaustivo il problema fu “Legalità e Legittimità” pubblicato nell’estate del 1932, nella fase finale dell’agonia della Repubblica di Weimar (3). Anche in questo testo Schmitt indicò alla classe politica del suo tempo la via per salvare la Germania dalla paralisi parlamentare e dall’assalto delle forze antisistema rosse e brune. Al di là delle circostanze nel quale fu scritto, in questo libro sono chiaramente evidenziate le cause in generale della crisi della democrazia liberale ovvero il suo formalismo e la sua mancanza di legittimità ossia di radicamento nella storia concreta e quindi nella cultura e nell’identità dei popoli.

Il Carl Schmitt di questi testi era già lo Schmitt hobbesiano allontanatosi, almeno in parte, dal suo giovanile cattolicesimo politico, senza tuttavia ripudiarlo del tutto (tanto è vero che ad esso ritornerà, quale “Epimeteo cristiano”, dopo la tragedia nazista). Uno Schmitt che guardava più al decisionismo, auto-costruttore dell’Ordine Politico, quindi alla “dittatura”. Colta tuttavia nel senso classico romano ma letta attraverso l’hobbesiano “Auctoritas, non Veritas, facit legem” ed un certo mal tollerato esoterismo rosacruciano nascosto dietro l’immagine stessa, pur di origine biblica, del Leviathan. Non più la Comunità politica di natura, in senso cattolico, ma la decisione che costruisce lo Stato totale. Per questo egli non si accorse, immediatamente, che l’identità popolare rivendicata, quale legittimazione dello Stato, dal nazismo faceva riferimento, come spiegato da Giorgio Galli (4), al sottobosco neopagano ed occultista del romanticismo tedesco e della teosofia ottocentesca. O meglio, Schmitt se ne accorse strada facendo ma non ebbe mai il coraggio di passare all’opposizione aperta, neanche quando fu pubblicamente attaccato, come “cattolico-romano”, dalla rivista ufficiale delle SS, restando fino all’ecatombe finale del 1945 soltanto un “esule in patria”.

Quali radici per la “legittimità”?

Rimane tuttavia il problema della legittimità sostanziale dell’Autorità politica che, al di là del tellurismo panteistico e razzista del nazismo, non può non trovare nelle radici storiche e religiose di una nazione – non dunque nel “contratto sociale” – il suo fondamento basilare. Non per il fatto che il nazismo, in questo erede dell’ermetismo luterano che preparò in Germania la Riforma anti-romana, si è abbeverato alla poltiglia neopagana ed occultista, dobbiamo oggi arrenderci al contrattualismo e obliare l’autentica radice delle nazioni europee  che sta nella Cristianità medioevale fondata sulla Rivelazione cristiana. Anche le radici della Vera Germania, dell’altra Germania della quale ultimo esponente è l’attuale Papa Emerito Benedetto XVI. Le identità specifiche dei popoli europei, infatti, storicamente germinano in seno alla Cristianità e, almeno fino al XVI secolo, hanno in Essa formato “confederalisticamente” una realtà spirituale e politica unitaria, tenuta insieme dall’Impero romano-cristiano. Le nazioni europee si sono riconosciute sorelle – il che non significa che all’interno della medesima Cristianità tra di esse non ci fossero conflitti come accade in ogni famiglia – senza assurgere, appunto fino al XVI secolo, alla forma dello Stato nazionale il quale nasce all’insegna del contrattualismo moderno come secolarizzazione di Dio. Hobbes, non a caso, definiva lo Stato “dio mortale”.

L’intera storia dell’Europa dal XVI secolo in poi è la storia del graduale scollamento delle nazioni europee dalla loro matrice romano-cristiana. Un percorso che segue l’itinerario di una spiritualità gnostica, di segno luciferino, riemersa a partire dalla crisi umanistica del XV secolo e che è contrassegnato dal prevalere, sotto apparenti sembianze laiche, di una religiosità spuria, panteista. Una religiosità ambigua che prese forma concreta nelle religioni civili secolari espresse dai nazionalismi anticattolici fuoriusciti dagli alambicchi esoterici delle logge massoniche tra XVIII e XIX secolo. Dopo una prima fase occultista, ed anzi quale versione apparentemente “razionale” di questa radice occultista, l’ambigua spiritualità panteista, soggiacente al moderno, assunse rango e dignità filosofica soprattutto grazie all’idealismo tedesco nel quale, dietro i sofismi della dialettica, si coagularono le estreme propaggini di antiche spiritualità orientali e tardo-pagane con quelle della gnosi eterodossa riemersa con l’umanesimo. Un coagulo di correnti pseudo-sapienziali che già avevano agito dietro il contrattualismo seicentesco attraverso la mediazione delle sette rosacruciane, con le quali lo stesso Thomas Hobbes aveva rapporti.

In Italia l’idea religiosamente panteistica della Nazione fu introdotta sul piano politico dalle logge rivoluzionarie e su quello filosofico dai fratelli Bertrando e Silvio Spaventa importatori dell’idealismo tedesco. In verità i due fratelli abruzzesi, più che importare sic et simpliciter l’idealismo hegeliano, tentarono il recupero delle origini “ereticali” dell’hegelismo che essi giustamente avevano individuato nell’Italia umanistico-rinascimentale prima che, per i meriti – diciamo noi – della Riforma Cattolica Tridentina, la risorgente spiritualità gnostica non ebbe bloccata la strada in Italia ed in Spagna e fu costretta a trasmigrare nella Germania già dissodata da Lutero e quindi terreno favorevole per lo sviluppo del moderno principio di immanenza assoluta. Gli Spaventa furono i maestri di Giovanni Gentile il quale continuò lungo la linea già tracciata dai due fratelli. La filosofia attualista di Gentile, come ha messo in evidenza Eugenio Garin (che, anch’egli iscritto al Partito Nazionale Fascista sin dal 1931, di Gentile fece nel 1944 la commemorazione funebre), è stata un ben riuscito tentativo di enucleare una specifica “tradizione filosofica italiana” precorritrice dell’idealismo tedesco che di tale linea italiana sarebbe succedaneo e succube.

La stessa lettura “spiritualista” che Gentile fa del pensiero moderno – a partire dalla sua opera giovanile “La filosofia di  Marx” (5) fino a quella senile “Genesi e struttura della società” (6) – non è immediatamente intesa ad accreditare, come comunque poi fece nel suo “Discorso agli italiani” al Campidoglio di Roma nel 1943, il comunismo come un corporativismo impaziente delle more di sviluppo dell’idea in atto (7) ma in primo luogo a costruire una narrazione filosofica della storia nazionale italiana che movesse dalle correnti eterodosse umanistiche per giungere – non senza coinvolgere, distorcendone però il pensiero, autori cattolici come Gianbattista Vico ed Antonio  Rosmini – allo stesso idealismo nella forma attualista proposta da Gentile medesimo intesa a recuperare anche il marxismo allo “spiritualismo”. Una narrazione che non escludeva affatto il Cattolicesimo ma riducendolo ad un infantile sentimento religioso popolare adatto alle fasi iniziali e poi superato dal successivo sviluppo “adulto” dell’autocoscienza nazionale (8).

La nazione, nella filosofia gentiliana, è Atto, ossia Volontà, in movimento e in sviluppo verso l’approdo finale e totalizzante dello Stato etico ossia del “noi” che prevale sull’“io”. O meglio, del noi come espressione potenziata dell’io. Da qui l’adesione di Gentile al fascismo, un movimento politico rivoluzionario che pur provenendo da altri percorsi, socialisti e sindacal-rivoluzionari, additava la nazione, dinamicamente ovvero storicisticamente e non tradizionalmente intesa, quale vero ambito di trasformazione e modernizzazione del popolo italiano che, attraverso lo Stato, sarebbe diventato padrone del suo destino per, finalmente, assurgere alla coscienza di essere nazione.

L’ultimissimo Gentile, Sciacca e la riscoperta della autentica “tradizione italiana”

Gentile, al momento della stipula dei Patti Lateranensi, non esitò pubblicamente a criticare la decisione di Mussolini e la Conciliazione in nome della “tradizione italiana”. Fu quella la fase nella quale la frattura tra l’attualismo, che fino ad allora aveva dominato la scena culturale ufficiale del Regime, e le tendenze cattolico-nazionali, che nel frattempo erano emerse in seno al fascismo, raggiunse il suo apice con reciproche polemiche e scomuniche.

Tuttavia lo stesso Gentile ha dato segni, nell’ultimissima fase della sua vita, di un ripensamento del Cattolicesimo quale autentica “tradizione nazionale italiana”. Un ripensamento che secondo alcuni  preludeva anche ad un riaccostamento alla fede cattolica. Non se ne hanno prove certe ma soltanto indizi. Tra i quali la testimonianza di un suo celebre corrispondente ovvero il filosofo Michele Federico Sciacca (9) il quale partendo dall’attualismo si era imbattuto in Antonio Rosmini. Sciacca, nell’approccio diretto, comprese che l’esegesi gentiliana di Rosmini era fuorviante e che non è possibile separare il pensiero del filosofo di Rovereto dalla fede cattolica nella quale visse e scrisse.

Attraverso Rosmini, Sciacca iniziò un percorso di graduale riavvicinamento al Cattolicesimo quale via spirituale della nazione che lo portò ad educatamente contestare il suo vecchio amico Gentile e l’impostazione attualista dominante in quegli anni nella filosofia italiana. Lo stesso Sciacca ebbe a raccontare che un giorno Giovanni Gentile lo redarguì paternamente dicendogli: «Rosmini la sta portando via da me». Un apprezzamento per la riscoperta che Sciacca aveva fatto dell’autentico pensiero di Rosmini, uno scusarsi per la forzata esegesi “idealistica” che egli, Gentile, aveva proposto del Roveretano o che altro? Il fatto ha indotto alcuni a pensare che Gentile, probabilmente intuendo una luce trascendente fino ad allora trascurata, avesse iniziato ad interrogarsi sulla effettiva sostenibilità del suo sistema filosofico di impianto idealistico. L’assassinio per mano partigiana comunista, su mandato probabilmente inglese, gli impedì di ampliare la primigenia intuizione che gli si era fatta incontro attraverso il Rosmini riscoperto dal suo amico filosofo.

Antonio Rosmini, pensatore stimato e difeso da Papa Pio IX nonostante la parziale condanna del Sant’Uffizio, oggi rimossa, fu accusato di “ontologismo” e quindi di “liberalismo”, un’accusa quest’ultima che ai suoi tempi pesava in termini politici oltre che religiosi. Rosmini, pur soffrendo dell’incomprensione, rimase fedele ed obbediente alla Chiesa ed accettò il giudizio negativo su alcuni passaggi delle sue opere. La condanna subita è stata oggi annullata essendosi dimostrato che essa cadde su alcune espressioni del roveretano che prese a sé, ossia estraniate dal loro contesto, sono suscettibili di una esegesi ontologista ma che nell’insieme del suo sistema teologico non evidenziano alcuna eterodossia (10).

Ebbene proprio Rosmini nel XIX secolo fu lo strenuo difensore della radice cattolica dell’identità nazionale italiana intesa come sviluppo millenario dell’inculturazione della fede nella vita dei popoli della Penisola in seno a Santa Romana Chiesa. Questa “tradizione italiana”, tuttavia, non era letta da Rosmini come un  monolite perché il Roveretano non mancava di sottolineare la pluralità dell’italianità e, per questo, era assertore della via confederale all’unificazione, attraverso la riunione dei legittimi regni della Penisola italiana sotto la Presidenza pontificia. Rosmini, nel XIX secolo, fu l’esponente dell’approccio religioso al progetto confederale così come Carlo Cattaneo, grande avversario del centralismo sabaudo, lo fu della versione laica intrisa di positivismo filosofico (11).

Le filiali critiche di Rosmini alle “piaghe” della Chiesa del suo tempo erano soprattutto intese a smuovere Roma dal suo arroccamento nel sistema della Restaurazione non più sostenibile intorno alla metà del XIX secolo. La principale preoccupazione rosminiana era quella per la quale se non fosse stato il Papa a prendere in mano il moto unitario lo avrebbero fatto le logge massoniche. Che erano non solo le nemiche della Chiesa ma anche, nonostante l’uso strumentale del patriottismo, dell’Italia, quella vera, reale, non quella legale ed “ereticale” cui guardavano i rivoluzionari.

La posizione rosminiana non nasceva dal nulla ma affondava le sue radici nell’esperienza delle insorgenze antifrancesi del triennio 1796-99 quando, come hanno messo in rilievo gli storici più accreditati, le popolazioni italiane, incomprese dall’intellighenzia del tempo influenzata dall’illuminismo parigino e collaborante con lo straniero, mentre combattevano gli invasori transalpini, maturarono, in un processo purtroppo interrotto e non giunto a piena maturazione, un pluralistico sentimento unitario nazionale. Ne è dimostrazione il caso del generale Giuseppe Lahoz, militare della Repubblica Cisalpina e filonapoleonico, il quale, di fronte all’insorgenza in armi delle popolazioni italiane, comprese che l’Italia reale era dalla parte degli insorgenti e non dei giacobini collaboratori dei francesi e passò al campo antifrancese organizzando un piccolo ma disciplinato esercito popolare le cui bandiere inalberavano, significativamente, i vessilli del Papa, del Sacro Romano Impero e del Regno d’Italia (quest’ultimo esisteva formalmente come “corona” sin dall’alto medioevo). Volendo con ciò simbolicamente rappresentare l’ideale di una Italia unita nella fedeltà al Papa ed all’Impero.

Per concludere tornando all’origine

Il percorso storico-filosofico fin qui effettuato è inteso a mettere in rilievo che quando si cercano le basi di una legittimità sostanziale sulla quale fondare l’ordinamento giuridico e costituzionale dello Stato italiano non è possibile prescindere da questa misconosciuta storia che l’intellighenzia a servizio dell’establishment, oggi diventato globale, continua a nascondere. Inutilmente se è vero che le radici profonde non gelano, come insegnava John Ronald Reuel Tolkien. Infatti queste radici cattolico-nazionali riemergono continuamente nella storia italiana, che lo si voglia o meno. Da ultimo, ad esempio, nei rosari agitati da Matteo Salvini ma anche nelle citazioni evangeliche di Matteo Renzi nel suo intervento al Senato durante la seduta parlamentare di ufficializzazione della crisi del governo giallo-verde.

In queste radici profonde, benché bistrattate e continuamente offese dagli agenti dell’establishment finanziario apolide, come Monica Cirinnà, Laura Boldrini o Emanuele Fiano, sta l’unico fondamento di legittimità possibile per l’Italia. Senza di esse, bisogna ammetterlo anche se non si è cristiani, il popolo italiano non si è mai sentito veramente nazione come dimostra la sua storica debolezza internazionale, coeva all’unificazione statuale del 1861.

Mario Esposito, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Lecce, ha recentemente spiegato le cause di questa debolezza, che si è manifestta anche nella presente crisi di governo. L’introduzione costituzionale di vincoli esterni e di controlli da parte di entità estranee alla nostra sovranità, asseverate da una classe politica irresponsabile, ha reso in pratica i nostri governi e la stessa Presidenza della Repubblica dipendenti dalla volontà egemonica altrui, sia essa quella dei partner europei più forti, ossia Francia e Germania, o quella dell’eurocrazia di Bruxelles o, ancora, quella dei “mercati finanziari”. La questione, sotto il profilo della formalità giuridica, sta tutta nel fatto che: «Tocchiamo con mano – afferma Esposito – gli effetti della riforma costituzionale approvata tra il 2011 e il 2012. Grazie alla riforma degli articoli 81 e 97 della Costituzione, gli organi Ue fanno parte integrante del nostro circuito di indirizzo politico. (…) in caso di scioglimento (delle camere parlamentari), si voterebbe non prima di 60 giorni, tenuto conto dei tempi necessari per il voto all’estero: saremmo già in piena sessione di bilancio, nella quale il governo nazionale è costituzionalmente subordinato alle direttive impartite dagli organi Ue. Ogni scelta istituzionale relativa alla crisi dovrà quindi essere orientata alla formazione di un esecutivo che abbia … la fiducia di Bruxelles. (…). Quali che possano esserne le giustificazioni, la nuova organizzazione costituzionale – quale risulta dalla legge costituzionale 1/2012 – subordina la dinamica rappresentativa nazionale agli obiettivi di equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito per come – si badi – concretizzati di tempo in tempo in sede europea. Ecco la fedeltà all’Ue. (…). In realtà, sembra quasi essersi realizzato un antico sogno di alcuni Paesi europei: governare gli italiani col loro consenso. Oggi siamo un Paese costituzionalmente soggetto, per propria “libera” determinazione costituzionale, ad un “concerto” di Stati stranieri. (…). Lo scenario è simile a quello un tempo ben noto al diritto internazionale, di Paesi che si affidavano al governo di sovrani stranieri: se il comitato esecutivo nazionale non piace, lo si cambia. (…). Se si tiene presente che, secondo un principio del diritto costituzionale generale, non è ammissibile che un popolo rinunci alla propria indipendenza, … (si) impone una riflessione radicale» (12).

Sì! Si impone una riflessione ed è quanto abbiamo cercato di fare riproponendo l’antica questione del rapporto tra legalità e legittimità e recuperando le basi storiche e culturali di una possibile ed attualmente del tutto mancante legittimazione nazionale delle nostre Istituzioni statuali e politiche. Perché, come ci ha ricordato Esposito, un popolo privo di coscienza di sé è destinato, magari con il suo apparente “libero” assenso espresso legalmente ma non legittimamente dai suoi rappresentanti, a diventare colonia o terra di conquista finanziaria.

L’Italia – checché ne pensino molti settori dell’attuale Gerarchia ecclesiastica che confondono l’Universalità romano-cristiana con il globalismo umanitario puntello della finanza cosmopolitica e nichilista – avrebbe urgente bisogno di riscoprire le sue radici identitarie che affondano nella sua millenaria storia cristiana onde scoprirsi o ritrovarsi nazione (13).

La nostra vigente Costituzione, all’articolo 99, ha previsto un organo come il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) espressione della nazione reale, che non è rappresentata soltanto dai partiti nel parlamento. I “padri costituenti”, in detto articolo, ripresero, benché timidamente, l’antica tradizione corporativista italiana. Non a caso, questo organo non ha mai trovato effettiva valorizzazione quale camera rappresentativa dei corpi intermedi, camera di canalizzazione della legittimazione popolare e di contrappeso all’Autorità politica. Se esistesse un organo effettivamente operativo della rappresentanza reale, e non solo legale, del popolo italiano, non sussisterebbe alcun pericolo di deriva plebiscitaria neanche in un quadro costituzionale che contemplasse una più forte Autorità politica sulla base di una democrazia plebiscitaria e diretta di tipo presidenziale. Solo per vie istituzionali di tal genere è possibile, infatti, conciliare legalità e legittimità facendo della prima non un guscio vuoto, a disposizione di forze irresponsabilmente a servizio delle lobby finanziarie e dell’inferenza estera, ma l’espressione normativa di una autentica legittimazione sostanziale.

                                                                                       Luigi Copertino

 

NOTE

1. Cfr. Jacob L. Talmon “Le origini della democrazia totalitaria”, Il Mulino, Bologna, 2000.

2. Cfr. Carl Schmitt “Il Custode della Costituzione”, Giuffré, 1981.

3. Cfr. Carl Schmitt “Legalità e Legittimità”, Il Mulino, Bologna, 2018.

4. Cfr. Giorgio Galli “Hitler ed il nazismo magico – le componenti esoteriche del Reich millenario”, Rizzoli, 2001.

5. Cfr. Giovanni Gentile “La filosofia di Marx”, Scuola Normale Superiore, 2014. L’opera pubblicata nel 1899 individua nel nucleo profondamente storicista del pensiero marxiano, e non nel materialismo, l’essenza del marxismo che pertanto diventa recuperabile all’idealismo in una accezione “spiritualista” e “volontarista”. La stessa che portò Gentile alla filosofia gentiliana dell’Atto Puro e che influenzò di sé tutta la successiva esegesi di Marx in Italia, anche di quella del dopoguerra. Il testo di Gentile fu pubblicamente elogiato da Lenin.

6. Cfr. Giovanni Gentile “Genesi e struttura della società”, Le Lettere, Firenze. Pubblicata postuma nel 1946 l’opera fu scritta tra l’agosto e i primi di settembre 1943 a Troghi (Firenze) rielaborando le lezioni tenute nell’anno accademico 1942-43 presso l’Università di Roma inerenti la dottrina trascendentale del volere e della società. In essa Gentile enuclea l’effettiva dimensione esistenziale del soggetto singolo non nello spazio e nel tempo ma nell’essere che sussiste nello spirito autocosciente. Per questo, secondo Gentile, la realtà dell’individuo si presenta come quella del socius all’interno della società trascendentale in una sorta di interiorizzazione della società stessa da parte del singolo. Di questa interiorizzazione l’espressione esterna come volere comune e universale è lo Stato, la cui volontà è il diritto. Ma lo Stato non è inteso come economicità al modo del liberalismo e del liberismo. Esso ha per Gentile un carattere “religioso” derivante dalla moralità, dall’eticità, che gli è immanente. Lo sviluppo storico dello Stato è un processo nel quale i cittadini si riconoscono, per interiorizzazione, nella comune Res publica attraverso il lavoro. È questa la tesi gentiliana dell’umanesimo del lavoro, rivendicata nel dopoguerra del neofascismo di sinistra. In quanto interna allo Stato etico l’attività dell’uomo è per definizione attività etica. La migliore opera per approcciare, criticamente, da un punto di vista cattolico, il pensiero del grande siciliano è senza dubbio il testo di Augusto Del Noce “Giovanni Gentile – per una interpretazione filosofica della storia contemporanea”, Il Mulino, Bologna, 1990.

7. Cfr. Giovanni Gentile “Discorso agli italiani”, 24 giugno 1943, pp. 71-72: «Tutti i popoli, si può dire, si orientano ormai verso questo ideale dello Stato corporativo, che è in cammino [e] che oggi è appena al suo inizio (…) tornare indietro non è possibile. Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie di sviluppo di una idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo».

8. Per questo la stampa cattolica degli anni ’30 orchestrò una assordante campagna mediatica contro il filosofo di Castelvetrano qualificandone l’opera come “Lo spaccio della Bestia trionfante” con chiari riferimenti anticristici.

9. Dobbiamo allo Sciacca l’importante distinzione tra “Occidente”, nel quale egli identifica l’Europa di ascendenze cristiane, ed “Occidentalismo” termine con il quale indica la fagocitazione americana dell’Occidente nell’anglosfera atlantista e modernista ossia relativista, individualista, nichilista. Di Michele Federico Sciacca si possono utilmente consultare le opere “Sant’Agostino”, Morcellania, 1949, Brescia; “Atto ad essere”, Roma, 1991; “Interpretazioni rosminiane”, Marzorati, Milano, 1958; “L’oscuramento dell’intelligenza”, Marzorati, Milano, 1970; “Ontologia triadica e trinitaria. Discorso metafisico teologico”, Marzorati, Milano, 1972; “In Spirito e Verità”, L’Epos, Palermo, 1993; “L’ora di Cristo”, L’Epos, Palermo, 1993.

10. Chi volesse approfondire la questione ontologica in Rosmini, per verificare che il Roveretano non è riconducibile alle ambiguità di un ontologismo immanentista ed introspettivo, può utilmente leggere le opere rosminiane di Pier Paolo Ottonello, allievo di Michele Federico Sciacca e cattedratico di filosofia all’Università di Genova, in particolare “L’ontologia di Rosmini”, Marsilio, 2013.

11. Significativo il fatto che Cattaneo all’inizio fosse soltanto l’assertore di una maggiore autonomia del Lombardo-Veneto all’interno della compagine imperiale asburgica. Famosa la sua frase: «Siamo i più ricchi dell’impero, non vedo perché dovremmo uscirne». Successivamente, in occasione della Cinque Giornate di Milano, rappresentante della borghesia lombarda non comprese la mancanza di appoggio popolare alla rivolta anti-austriaca. Chi invece capì perfettamente l’inconsistenza politica, in termini di appoggio popolare, della borghesia liberale fu il Generale Joseph Radtezsky il quale infatti da governatore del Lombardo-Veneto puntò al favore del popolo che vedeva nei ceti borghesi non l’avanzante “progresso” ma il futuro peggioramento delle proprie condizioni sociali.

12. Cfr. Mario Esposito, intervista, “Perché non si vota – decide l’Europa per noi, lo dice la Costituzione” in www.ilsussidiario.net, 23.08.2019.

13. Su La Verità del 25.08.2019 lo psicologo ed antropologo Claudio Risé ha spiegato alla inadempiente Gerarchia ecclesiastica odierna perché “Il sacro non sparirà più dalla politica nonostante l’imbarazzo del Vaticano” osservando che “Quando Salvini ha mostrato per la prima volta il crocifisso al popolo lo scenario è cambiato. L’illusione di relegare la religione nella sfera privata è fallita. Mandando in fumo la tregua di comodo tra preti e laicisti” e ricordando che “Wojtila sapeva che l’Unione sovietica sarebbe implosa per mancanza di Dio”.