Le ‘dogane’ dell’Aldilà, il Purgatorio, il Bardo Tödöl

Di Marco Toti

Quando penso che l’eternità deve                                                                                                               ricevermi, mi persuado allora che il                                                                                                             nascere è morire, il morire è la vita”

(S. Gregorio Nazianzeno).

 

 

 

 

In questo breve contributo tracceremo un profilo sintetico della dottrina cristiano-orientale delle ‘dogane’, termine che deriva dal greco telonia, attestato già presso i Padri della Chiesa fin dal IV secolo: Sant’Atanasio, San Giovanni Crisostomo, San Cirillo di Alessandria,[1] tentando di illustrare alcuni punti significativi in ordine alla dottrina in oggetto, da un punto di vista comparativo. Saranno discusse, in specie, alcune distinzioni tra questa e il dogma cattolico del purgatorio, oltre che tesi di ambito buddhista rinvenibili nel Libro tibetano dei morti.[2] Punto di partenza dell’analisi, oltre al testo appena menzionato, saranno due lavori di S. Rose e di C. Pozo, il primo ortodosso, il secondo cattolico; qualche ulteriore cenno sarà dedicato ad alcune rielaborazioni delle stesse dottrine sugli stati postumi studiati da R. Guénon, con particolare riferimento alla dottrina dell’immortalità dell’anima[3] e dell’eternità dell’inferno.

 

 

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Le dogane ‘aeree’ sarebbero attestate, secondo la tradizione cristiano-orientale, in Ef 2,2, ove si parla del “principe delle potenze dell’aria”: i demoni abitano infatti l’‘aria’, ossia lo spazio intermedio tra cielo e terra. Secondo il vescovo I. Brjančaninov, ne parla San Paolo in Ef 6, 12.[4] Esse sono menzionate anche nella liturgia, in alcune vite dei santi e presenti in molti esempi tratti dall’iconografia: ad esempio, in una icona russa del XVI secolo,[5] l’anima che dopo la morte ascende al cielo è ostacolata dai demoni, che cercano di trascinarla all’inferno. È evidente che una tale elevazione si opera come lungo una scala,[6] dalla quale si può cadere, con il contributo di un demone (uno per ogni dogana e, tendenzialmente, per ogni passione), ovvero si può salire, con l’aiuto di un angelo. Mentre quest’ultimo difende, il primo, in terra tentatore e lusingatore, accusa, provando l’anima su di un tipo particolare di passione/peccato.[7] La nozione di ‘dogana’, secondo un consenso relativamente comune in ambito cristiano-orientale, non è solo scritturistica ma anche, a rigore, tradizionale.

Secondo la dottrina ortodossa, il terzo giorno dopo la morte l’anima si diparte verso le dogane; questo viaggio dura circa sei giorni, dal terzo al nono a partire dalla morte,[8] dopodiché avviene l’introduzione autentica all’altro mondo.[9] I due sistematizzatori moderni delle tesi in questione sono stati i vescovi russi I. Brjančaninov, appena menzionato, e Teofane il Recluso, vissuti entrambi nel XIX secolo. Mentre il secondo, significativamente, descrive l’esperienza delle dogane come eventualmente ‘seducente’, oltre che ‘terrifica’,[10] il primo, pure citato da Rose,[11] afferma che “i cristiani inclini al peccato non sono degni di essere immediatamente traslati dalla vita terrena alla beatitudine eterna” a motivo della giustizia, per cui è necessario “pesare” e “valutare” queste “inclinazioni al peccato” (distinte dal peccato in sé), ossia ‘discriminarle’ al fine di separarsene ed essere così resi degni del Regno dei cieli.

L’immagine della dogana è dunque funzionale al simbolismo del pagamento, di un esattore, di un dazio, di un debito, che può anche essere percepito come bagaglio che appesantisce l’ascesa in oggetto. Questo punto di vista, che mostra la dogana come luogo in cui pagare una pena, potrebbe indurre, ma solo superficialmente, a ipotizzare una omologia tra dogane e purgatorio; tuttavia, un confronto più approfondito ne chiarisce le differenze. Infatti, nel purgatorio si sconta la pena temporale e non la colpa, che è stata rimessa, derivante dai peccati (ovvero si scontano i peccati ‘veniali’, che in qualche modo ancora macchiano l’anima); inoltre, il percorso relativo tende irreversibilmente al paradiso celeste. Nel caso delle dogane, invece, non si tratta necessariamente di una purificazione, ma di una sorta di battaglia che, da interiore qual era sulla terra, si esteriorizza – e che si può perdere![12] – e prosegue in uno stadio che non è ancora, come avremo modo di mettere in luce, quello puramente oltremondano.[13] Paradossalmente, un referente comparativo morfologicamente più vicino alle telonia è rappresentato dalle vicende che il defunto esperisce secondo le descrizioni presenti nel Libro tibetano dei morti.

Quest’ultimo, il cui titolo in lingua originale è Bardo Tödöl e che G. Tucci tradusse come “Libro della salvazione dall’esistenza intermedia”, costituisce una sorta di vademecum atto a “salvare” (terminologia forse troppo debitrice di un pur inevitabile influsso cristiano) il “principio cosciente” dalla trasmigrazione[14] (e non, per stare ai concetti espressi, dalla ‘morte dell’anima’, ossia dall’inferno, pure presente nel testo tibetano), una nuova rinascita che non è altro che “lo sprofondamento in un mare ondoso di pensieri, fantasie, imaginazioni”;[15] ciò, mediante la recitazione all’orecchio del moribondo/defunto del libro stesso. L’“esistenza intermedia” non è ancora, come si può rilevare, l’‘altra vita’, costituendo un periodo di quarantanove giorni tra la vita terrena e la rinascita (altra vita che corrisponde, in diverso ambito, al nirvâna). La continuità del “principio cosciente” (e del “corpo mentale”, “mayico”, con le “accumulazioni karmiche” del caso) è attestata anche nel Buddhismo tibetano, la morte non essendo intesa come una fine, ma come un inizio, una “porta”,[16] che introduce alla vera “vita”.[17] Fondamentalmente, è “salvo” chi riconosce la “luce-coscienza” informale per quel che è:[18] anche qui, come nel caso delle dogane, si tratta essenzialmente di una attività di discriminazione del Vero. Da questo punto di vista, come accennato, si può tentare forse più fruttuosamente una comparazione tra telonia e bardo. A differenza della dottrina cattolica inerente al purgatorio, che pure ha una estensione temporale (si parla infatti di soddisfazione della pena temporale, e del purgatorio come luogo), dogane e esistenza intermedia sono periodi di prova, laddove il purgatorio costituisce in certo senso una continuazione della vita terrena sempre situantesi sul piano intermedio (tra la vita terrena e la beatitudine eterna), caratterizzata da grande sofferenza dell’anima (a motivo del fuoco purgante e ‘reale’), ma irreversibilmente orientata verso il paradiso celeste. Se il bardo non è, in questo senso, affine al purgatorio, l’esito negativo che vi si può manifestare (la ‘rinascita’) può essere accostato all’inferno cristiano, pur all’interno di un universo spirituale difforme; il nirvâna sarebbe invece accostabile al paradiso (il primo mettendo in luce l’aspetto dell’’estinzione’ della coscienza, di per sé non ontologicamente sussistente secondo il Buddhismo,[19] il secondo l’aspetto della ‘fusione senza confusione’ dell’anima/persona con/in Dio, variamente declinata a seconda degli autori). Pure, mentre le esperienze che l’anima prova nel purgatorio (e nell’ascesa per le dogane) sono ritenute reali, quelle inerenti allo stadio intermedio nel Buddhismo tibetano sono considerate “proiezioni” indotte dalla “paura”.[20] La paura, che presuppone per l’appunto una prova irta di ostacoli (anche nel bardo sono descritti vari tipi di demoni), è presente anche nelle telonia: secondo San Diadoco (metà V secolo),

 

Se non confessiamo come dovremmo i nostri pensieri, scopriremo di provare una paura indefinita al momento della morte. Noi che amiamo il Signore dobbiamo pregare che possiamo non aver paura in quel momento: perché, se avremo paura allora, non saremo in grado di superare i principi del mondo inferiore. Questi avranno quale strumento per attaccarci la paura che la nostra anima prova a causa della sua debolezza. Ma l’anima che gioisce nell’amore di Dio, all’ora della sua dipartita, è sollevata insieme agli angeli della pace sopra a tutte le armate delle tenebre.[21]

 

L’amore è quindi la forza da opporre alla paura (in altri termini, l’abbandono, l’arrendersi alla ‘resistenza’, secondo il principio del ‘dare’/‘darsi’ per ‘riavere’: cfr. la parabola della samaritana al pozzo [Gv 4, in particolare vv. 4-15]).[22] Per tornare all’ambito buddhista, secondo Tucci, la cessazione del respiro,[23] su cui poggia la coscienza psicofisica, determina l’ingresso nello stato di esistenza intermedia, una “proiezione karmica” che ha tre possibili sbocchi: il primo è l’estinzione nella luce, “coscienza essenziale”, se il defunto riconosce la “Luce essenziale” entro i quarantanove giorni di durata del bardo; il secondo è la rinascita, causata dalla “brama” [pali tahnâ] di esistere (cfr. la concupiscenza, specie nel Cristianesimo occidentale) nei “mondi inferiori” della “coscienza psicofisica”, che mette in moto la legge karmica e la ruota del samsâra;[24] infine, il terzo sbocco è una rinascita temporanea nel “Paradiso di Occidente”.[25] Afferma inoltre Tucci: “[…] L’eternità è sospesa ad un istante, perché in un istante avviene la revulsione del mondo della mâyâ all’ineffabile pienezza della coscienza essenziale”.[26] Su questo punto, la escatologia cattolica concorda seppure, ovviamente, in una prospettiva teistica: come insegna la vicenda del buon ladrone (Lc 23, 39-43), un istante decisivo in cui l’anima si orienta sinceramente a Dio può ribaltare anche una intera esistenza contrassegnata dal peccato. Continua Tucci: “[…] in un istante la separazione avviene, in un solo istante uno diventa Buddha perfetto”.[27] Si tratta quindi, per l’appunto, di operare un ‘riconoscimento’, distinguendo tra ‘sé’ (‘grande’ âtman) ed ‘ego’ (‘piccolo’ âtman: sostanzialmente, i cinque ‘aggregati’ [khandhas]):[28]

 

[…] nello stato di bardo il lama, con le parole sussurrate all’orecchio del moribondo o del morto, può evocare nel principio cosciente di quello le istruzioni e le esperienze avute in vita, da mettere a profitto in questo periodo di rischio particolarissimo.[29]

 

Secondo Tucci, l’idea di riconoscimento e quella di discriminazione risultano strettamente connesse:

 

In questo riconoscimento è la salvezza, perché insieme a queste imagini [delle varie “divinità”] compaiono sei luci che corrispondono alle sei specie di esistenza: dei, uomini, demoni, bruti, lemuri, esseri infernali: sono luci dilettevoli e vaghe: chi cede alla loro lusinga […] sarà travolto nel flusso dell’esistenza la cui luce maggiormente lo attrasse e colpì. E ciò avviene perché in questo intrico di imagini e di volizioni […] il desiderio si incorpora, e si invera: ciò che noi siamo è l’effetto di ciò che volemmo o delle idee nelle quali credemmo.[30]

 

Al di là di questo orientamento volontaristico, non affine alla dottrina cristiana sul post mortem, che ovviamente risente della dottrina inerente al peccato [originale e attuale], anche l’idea del giudizio, presente nel Buddhismo tibetano, si distacca da quella cristiana per essere, in ultima analisi, ontologicamente inconsistente: esso costituirebbe infatti “una visione” e non “un accadimento reale”.[31] Tuttavia, è lecito cogliere nella dottrina tibetana, ripresa dall’Induismo, una certa analogia con la tesi cattolica della ‘puntualità’,[32] fatto salvo l’accento sulla meditazione: “su quale che sia forma d’essere uno medita, sul punto di abbandonare il corpo, verso quella solo egli fluisce perché da quella sempre la sua natura sarà influenzata”;[33] e, quindi, “ognuno otterrà quella forma di esistenza sulla quale il suo cuore è concentrato quando muore”.[34] Risalta qui la particolare efficacia della meditazione, per cui la conoscenza della “natura del Buddha” determina la rinascita “suprema, mediana o inferiore”.[35] Presso gli iniziati, essa è volta anche alla conoscenza dei segni premonitori della morte, per non esserne poi ingannati (si parla in questo caso di “riti di elusione della morte”);[36] gli iniziati cercano la “liberazione” proprio appoggiandosi sul “principio cosciente”, rammemorando le esperienze avute in vita.[37]

Il quarto capitolo del Bardo Tödöl presenta il tema del giudizio di fronte alla “divinità della morte”, con il relativo “sdoppiamento” della coscienza e la “pesa delle opere”;[38] a ciò si lega la nozione di “inferno”.[39] La “sacra rappresentazione” del giudizio, con il “Dio della morte” ed i suoi accoliti, il corpo mentale di un peccatore e di un sant’uomo, il “Dio innato” che difende e il “demone innato” che accusa (rispettivamente “il prender forma […] delle opere buone e […] dei peccati”),[40] implica l’esteriorizzazione delle opere, ora evidenti di fronte al principio cosciente del defunto, che “a questo punto non può più tornare indietro o pentirsi”.[41] Sorprendenti, in questo caso, risultano le analogie con la escatologia cristiana tradizionale, sempre all’interno del principio universale che ogni azione produce un frutto reale, visibile o invisibile, il cui esito ‘finale’ darà luogo a un giudizio ‘definitivo’.

In contesto cattolico è messo luce, in particolare, l’aspetto del dogma concernente il carattere decisivo della opzione libera della persona in questa vita.[42] Il frutto di questa scelta è il paradiso o l’inferno, che nella dottrina tradizionale sono intesi, oltre che come stati eterni,[43] come luoghi: per ciascuno di noi esiste ed è stato preparato, nell’aldilà, un luogo che gli è perfettamente consono. Similmente, la Chiesa ortodossa afferma che “il luogo del paradiso è in cielo e il luogo dell’inferno è nelle viscere della terra”;[44] da questo punto di vista, quindi, la terra, intesa come il suo ‘centro’, è in un certo senso l’inferno (ossia un mondo ‘inferiore’), e quindi è possibile ipotizzare una analogia tra rinascita buddhista e inferno cristiano.[45] Si tratta, ad ogni modo, di luoghi invisibili agli occhi del corpo, poiché al di fuori delle ordinarie coordinate spazio-temporali,[46] ossia, in ultima analisi, di altre ‘dimensioni’: infatti, “visto che angeli e anime sono limitati dal punto di vista spaziale […], essi debbono essere sempre in un luogo preciso – paradiso, inferno o terra”.[47]

 

 

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Per quanto riguarda il purgatorio, uno dei testi di riferimento sulla escatologia intermedia è il lavoro di C. Pozo, Teologia dell’aldilà.[48] Poeticamente, ma anche con ottima precisione, Pozo definisce il purgatorio come “amore, [che] ritardato nel possesso della persona amata, produce sofferenza, che purifica”.[49] Il purgatorio, secondo le definizioni de fide del Concilio di Firenze (1439) e del Tridentino (1545-1563),[50] è uno stato ed un luogo temporaneo,[51] ma anch’esso, come inferno e paradiso, connesso alla dottrina della puntualità sopra menzionata: la bolla Benedictus Deus di Benedetto XII (1336) definisce l’eternità[52] della retribuzione e il purgatorio quale “purificazione ultraterrena”;[53] a differenza della dottrina cristiano-orientale delle dogane, in contesto cattolico il purgatorio è quindi un dogma di fede, la cui sussistenza è attestata, secondo la esegesi cattolica, in 2Mac 12,45 e in 1Cor 3,15, oltre che in S. Cipriano (m. 258 d.C.), il primo padre da cui il termine è utilizzato. Fino ad allora, probabilmente, le testimonianze erano state molto scarse,[54] poiché “la Chiesa non usò concedere la pace (l’assoluzione), se non dopo una penitenza che veniva considerata piena”;[55] inoltre, già nei primi due secoli si usava pregare per i defunti,[56] uso che Tertulliano definisce “cosa ricevuta per tradizione”;[57] infine, S. Agostino parla di “fuoco purgatorio” o “fuoco emendatorio”, e, a partire dal IV secolo, presso i latini la dottrina del purgatorio è comune. Anche alcuni padri greci affermano, fin dal IV secolo, l’esistenza del purgatorio; è anche significativo notare come gli orientali non ebbero alcuna controversia in materia coi latini fino al XIII secolo.[58] Come si sarà intuito, i primi non hanno mai negato, senza averla mai formalizzata, per ragioni fondamentalmente ecclesiologiche, una escatologia intermedia;[59] ma l’escatologia cattolica afferma chiaramente la retribuzione piena di ciascuna anima subito dopo la morte, ciò che riguarda anche il purgatorio, poiché il termine utilizzato da Benedetto XII sul punto è infatti “mox”. L’uomo, diversamente da quanto è sostenuto dalla dottrina cristiano-orientale e tibetano-buddhista, non ha più la possibilità di decidere della sua sorte dopo la morte; ma ciò che forse è ancor più interessante notare è che egli, secondo la dottrina cattolica, ha “la possibilità di una piena decisione […] nello stesso istante della morte”, ciò che coincide col “primo atto pienamente personale dell’uomo circa il suo destino”.[60] Il cattolicesimo riconosce quindi che tra la morte e gli stadi postumi definitivi vi può essere un breve lasso di ‘tempo’, se così ci si può esprimere per analogia, in cui ad ogni modo l’anima non può più decidere del suo destino.[61] L’estrema possibilità per l’uomo è data dall’intersecarsi dell’ultimo momento della vita presente, in cui si può ancora operare una scelta in modo umano, ed il primo momento in cui l’anima può agire ‘in modo angelico’, fissando il suo stato per l’eternità; questo punto di intersezione è l’istante non temporale della morte.[62] Tale dottrina echeggia quanto detto sopra, in riferimento all’ambito buddhista, sull’“istante” in cui si può divenire un “Buddha perfetto”.[63]

 

 

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Per concludere, tra la dottrina delle dogane e il bardo vi è un punto di convergenza abbastanza evidente: in entrambi i casi si tratta di un periodo in cui si protrae la milizia della vita terrena, ma in uno stato che può essere considerato tra cielo e terra, all’interno di un lasso temporale sospeso tra la vita stessa e, eventualmente nel caso del Buddhismo, lo stato ‘eterno’ che si conseguirà dopo la morte. Dogane e purgatorio rimandano quindi piani che sembrano distinti: se la separazione dell’anima dal corpo, cioè la morte ‘reale’, avviene entro il terzo giorno dalla morte,[64] e se, come affermano alcune fonti cristiano-orientali, il percorso nelle dogane dura ulteriori sei giorni, ovvero trentasette circa, l’introduzione all’aldilà vero e proprio[65] avviene orientativamente tra il nono ed il quarantesimo giorno dalla morte ovvero, nella seconda possibilità, direttamente al quarantesimo.[66]

In relazione agli stati postumi, ed in specie al mutamento di stato che vi è implicato, R. Guénon ha scritto che, dopo la morte, l’essere

 

[…] è passato a un altro stato, che può essere individuale oppure no; così, l’essere che prima era umano non lo è più ed è diventato qualcos’altro, così come, con la nascita, esso era diventato umano, passando da un altro stato a quello che adesso è il nostro.[67]

 

In questo senso, la morte (oltre che la stessa nascita!) implica davvero una trasformazione, in senso etimologico, e una resurrezione, che è anche una vita sublimata. In ultima analisi, si può dire che morte e nascita sono speculari, essendo concatenate in una successione temporale caratterizzata dai suddetti passaggi di stato. Ciò non appare in contrasto con la formula classica “finis est initium”.

 

 

 

MARCO TOTI

 

 

[1] Il nome di dogana è presente solo in fonti orientali, ma l’idea relativa sarebbe presente anche in Occidente (San Colombano: v. Rose, 1986, pp. 76-78).

[2] Citeremo dall’edizione della SE a cura di G. Tucci (Milano 1998).

[3] Cfr. il tema del giudizio, presente, ad esempio, anche in Platone.

[4] Rose, cit., p. 70 (Brjančaninov, 1883).

[5] Le venti stazioni delle dogane, riportato in Rose, cit., p. III. Sulle suggestive rappresentazioni popolari delle dogane si può vedere Andreesco-Bacou, 1986, pp. 95-148.

[6] La scala è evidentemente la croce e Cristo (“Io sono la via” [Gv 14,6]); all’asse verticale (cfr. i totem indiani), il Cristianesimo aggiunge quella orizzontale (amore per il prossimo, fino all’amore dei nemici).

[7] Rose, cit., pp. 65-66.

[8] Larchet, 2001, p. 99. Secondo altri, questo viaggio durerebbe trentasette giorni (ibidem, p. 186: Arcivescovo J. Maximovitch [m. 1966]), che, sommandosi ai tre precedenti, andrebbero a costituire un ben significativo totale di quaranta.

[9] Rose, cit., p. 186. Sulla introduzione all’altro mondo cfr. infra.

[10] Rose, cit., p. 87 (nostra traduzione [Teofane il Recluso, 1891]). Sulla “paura” e le “luci ingannevoli” nel bardo cfr. infra.

[11] Rose, cit., p. 65 (nostra traduzione).

[12] V. ad es. quanto afferma Teofane, ibidem, p. 87, interpretando Sal 118.

[13] “In the layers of the underheaven” afferma Brjančaninov (Rose, cit., p. 65): ovviamente, visto che i demoni non possono essere in purgatorio (nozione peraltro, nella sua formalizzazione, estranea all’ortodossia); tuttavia, il carattere temporale di quest’ultimo (v. infra) e il suo essere anch’esso caratterizzato da “stazioni” o “stadi” (http://www.radiospada.org/2016/02/chi-morra-vedra-i-vari-stadi-o-stazioni-del-purgatorio/) lo avvicinano alle dogane orientali.  D’altra parte, è dottrina comune della Chiesa che un angelo buono ed uno cattivo compaiano al morente (Rose, cit., p. 32 ss.), del quale si contendono l’anima, e che preghiere e suffragi siano particolarmente benefiche per l’anima ‘in via’.

[14] La trasmigrazione dell’anima sembrerebbe attestata anche nel Corano (2,28).

[15] Tucci, 1998, p. 12.

[16] Ibidem, p. 61. Per quanto concerne una variante del simbolismo della porta, Santa Caterina da Siena 1998 (Dialoghi 26-30) parla di Cristo come il “ponte”, inteso quale una scala verticale (forma della croce: si tratta di una “dolce fatica”), che porta al paradiso e che bisogna salire, con l’aiuto della Grazia, pur essendo ostacolati dall’avversario luciferino (mentre nelle acque che scorrono sotto il ponte si “annega”; Santa Caterina nacque nel 1347 e morì nel 1380): ciò pare adombrare un elemento di “prova” anche nell’escatologia cattolica. In ambito nativoamericano (Ojibwa), nel postmortem “Improvvisamente […] Qualcosa che assomiglia a un tronco d’albero [in realtà, un grande serpente, sulla cui testa, più vicina alla sponda opposta a quella che introduce al Paradiso, bisogna saltare] è posto di traverso […] Le anime [vi] devono saltare al di sopra. Il tronco, inoltre, si muove continuamente. Le anime che, saltando, mantengono l’equilibrio, si salvano. Le altre […] cadono nel fiume e si trasformano in rospi e pesci” (Zolla 2015, pp. 140-141); integrando i dati delle due tradizioni, pertanto, si potrebbe dedurre che inferno = metempsicosi (in un’altra forma vivente). Nei primi secoli della Chiesa – oltre che, come figura, nell’AT (Num 21,4-9) – Cristo, che ingiunge di essere puri come colombe e astuti come serpenti (Mt 10,16), fu associato al serpente (peraltro presente sui pastorali pontificali), emblema della Sapienza del Logos (nella tradizione cinese, ciò è rappresentato dal Dragone). Ringrazio l’amico L. Copertino per le informazioni inerenti a Cristo/ponte in Santa Caterina da Siena.

[17] Si può qui pensare alla definizione di ‘dies natalis’, concernente la data di morte del santo cristiano.

[18] Tucci, cit., pp. 11-12.

[19] Ma sul tema si veda infra.

[20] Tucci, cit., p. 37

[21] Rose, cit., 247-248 (corsivi e traduzione nostri).

[22] L’angoscia provata da Cristo in croce appena prima di morire (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” [Mc 5,34; cfr. Sal 22]) – che è l’esito naturale del Suo assoluto offrirSi – costituisce l’ultimo stadio della umana sofferenza, che Egli ha voluto provare per compiere la Sua opera di redenzione. Questa angoscia, evidentemente, non è la disperazione, “malattia mortale”. Nell’uomo santo, l’abbandono a Dio misteriosamente compendia fede in Dio (nell’anima spirituale) e angoscia (nelle parti inferiori dell’anima, o psichiche).

[23] Cit., pp. 49-50 e 53.

[24] Tucci, cit., pp. 19-20

[25] Ibidem, p. 59. Si potrebbe ipotizzare una analogia tra questi tre sbocchi ed il paradiso, l’inferno ed il purgatorio.

[26] Ibidem, p. 23.

[27] Cit., p. 23. L’A. si riferisce alla p. 121 dell’edizione da lui curata. D’altra parte, “basta il peccato di un istante ed uno resta per un evo intero nell’inferno Avici” [il peggiore possibile; corsivi nostri] (Bodhicaryavatara, 4,21; il cap. II di questo testo è dedicato alla confessione dei peccati).

[28] Sulle incomprensioni ‘nichilistiche’ ed ‘ateistiche’ del Buddhismo si può vedere http://www.studiesincomparativereligion.com/public/articles/Atta_and_Anatta.aspx (in particolare p. 2). Lo stesso fatto che il nirvâna, nel suo senso più autentico, sia la “estinzione di una fiamma” non indica di per sé la cessazione assoluta dell’âtman (ossia di una ‘sostanza personale’: alla relativa domanda, il Buddha rimase significativamente in silenzio [ibidem]), ma un suo ‘cambiamento di stato’. Che la morte implichi, per l’appunto, un ‘cambiamento di stato’ è esplicitamente affermato nel prefazio del rito romano per i defunti: “vita mutatur, non tollitur”. Sul tema cfr. quanto affermato da Guénon infra.

[29] Tucci, cit., p. 26.

[30] Ibidem, p. 35 (corsivo nostro). Per quanto concerne il contesto cristiano-orientale, cfr. supra sulle ‘seduzioni’ demoniache nel post mortem (Teofane).

[31] Tucci, cit., p. 39.

[32] Secondo la tesi cattolica della puntualità, l’anima verrà sostanzialmente giudicata in base allo stato in cui si trova al momento della morte, e non in base ai peccati commessi o ai meriti accumulati in vita (“opere buone”).

[33] Ibidem, p. 39 (Bhagavadgîtâ VIII,6).

[34] Kathâsaritsâgara 69,159, da Tucci, cit., p. 39.

[35] Ibidem, p. 52-53.

[36] Ibidem, pp. 49-50.

[37] L’iniziazione assume qui il valore di una morte anticipata, e la vita quello di una esperienza che si può far fruttare a posteriori (cfr. ibidem, pp. 46-47).

[38] Ibidem, p. 55. La nozione di ‘pesa delle opere’ è presente anche nei Brâhmana (ibidem, p. 66 n. 19).

[39] Cfr. ibidem, pp. 161-162 (cfr., a p. 161, l’analogia con la ‘sinderesi’ cattolica).

[40] Ibidem, p. 54.

[41] Ibidem. Si noti che il “Dio della morte” che retribuisce è anche il “Dio della giustizia”.

[42] Sulla connessione tra approfondimento della coscienza della individualità e drammatizzazione della morte, avvenuta in Occidente nel secondo medioevo (a partire dall’XI secolo), si può vedere l’istruttivo Ariès 1975, ad esempio alle pp. 48-49: in questo senso, “la morte è il luogo della presa di coscienza dell’individuo” (p. 225). Soprattutto, “nel secondo Medioevo […], in cui sono state costruite le basi di quel che diventerà la civiltà moderna, un sentimento più personale e più intimo della morte, della morte di sé, traduce l’intenso attaccamento alle cose della vita, e anche – è questo il senso dell’iconografia macabra del XIV secolo – il senso amaro del fallimento, confuso con la natura mortale: una passione di essere, un’inquietudine di non essere abbastanza” (p. 83). Il XIV secolo costituisce, quindi, un autentico turning point nella storia dell’Occidente cristiano (cfr. Toti, 2012, pp. 102-114); si potrebbe anche pensare all’angoscia che emerge in relazione al rapporto diretto tra scelte dell’uomo (peccato, tempo che passa) ed eternità dell’inferno.

[43] Sui problemi che il termine può implicare v. infra.

[44] Rose, cit., p. 130 (L’A. cita  Brjančaninov).

[45] Sul tema v. anche supra.

[46] Rose, cit., p. 130.

[47] Ibidem.

[48] Pozo 1968.

[49] Ibidem, p. 331. Una delle più significative esposizioni della dottrina cattolica del purgatorio si può trovare in Caterina da Genova 2012 (la santa visse tra il 1447 ed il 1510).

[50] http://www.treccani.it/enciclopedia/purgatorio_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[51] A rafforzare l’idea dell’ascesa, si ricordi, ad es., come Dante rappresenti il purgatorio come una montagna, che prelude al paradiso terrestre.

[52] ‘Eternità’ implica, etimologicamente, una durata indefinita (non necessariamente ‘infinita’ in assoluto), e quindi può costituire una ‘perpetuità’; essa si apparenterebbe, in tal caso, al latino aevum ed al greco aion, per definizione perpetui (ma non eterni, per come questo termine è inteso da noi moderni). Relativamente al “ciclo” di cui si interessa il Cristianesimo, l’inferno è dunque ‘eterno’; si ricordi, però, che esso, come l’anima, fu anche creato (cfr., sul tema, Guénon, 1925, p. 120, nn. 1 e 2). È anche vero, da un lato, che nell’aldilà le categorie ordinarie di spazio-tempo non sussistono (si pensi al “tarlo [che] non muore” ed al “fuoco [che] non si estingue” [Mc 9,48]), e che, nell’analisi di tematiche di questo genere, non si dovrebbe eccedere coi filologismi.

[53] http://www.papalencyclicals.net/Ben12/B12bdeus.html

[54] Ma v. Tertulliano, De anima, 58.

[55] Pozo, cit., p. 328.

[56] Ibidem, p. 329

[57] Ibidem.

[58] Ibidem, 328-329. Al Concilio di Firenze, ove vi fu un accordo quasi immediatamente ritrattato, i greci rifiutarono il sostantivo ‘purgatorio’, non intendendolo come un luogo, e non ammettendo l’idea di un fuoco reale che purgasse le anime penitenti: tutto ciò venne omesso dal testo conciliare, che parla però di “pene purgatorie”. È anche significativo che gli orientali iniziarono a rigettare recisamente la nozione di purgatorio nel XVII secolo, paradossalmente su influsso protestante.

[59] Ibidem, pp. 329-331.

[60] Ibidem, p. 258.

[61] Ibidem, p. 284, n. 30.

[62] Ibidem, pp. 286-287.

[63] V. supra.

[64] Ciò è attestato in maniera cronologicamente simile anche nel Buddhismo tibetano: v. Tucci, cit., p. 29 (si parla di uno stato di “torpore” del “principio cosciente”).

[65] In termini cattolici: giudizio particolare, inferno o purgatorio/paradiso.

[66] È chiaro che l’utilizzo di categorie temporali per l’aldilà va inteso in senso analogico. Cfr. Guénon, cit., pp. 119.

[67] Ibidem, p. 112.