La”dottrina economica” della Meloni

1. Meloni: Non è lo Stato che crea ricchezza, ma le aziende con i lavoratori

12 Marzo 2024

(Agenzia Vista) Bolzano, 12 marzo 2024 “Noi dobbiamo sempre ricordarci che non è lo Stato a produrre, a produrre ricchezza. Lo Stato non crea ricchezza, la ricchezza la producono le aziende con i loro lavoratori. Quello che compete allo Stato è mettere queste persone nelle condizioni di lavorare il meglio possibile”, le parole di Giorgia Meloni a Bolzano per la firma dell’accordo sviluppo e coesione.

Riferimento:

https://www.ilgiornaleditalia.it/video/politica/588987/meloni-non-e-lo-stato-che-crea-ricchezza-ma-le-aziende-con-i-lavoratori.html

Commento

Chiunque sappia  solo un po ‘ di recente storia economica italiana ( vedasi i prossimi due punti )  si rende conto facilmente che questa affermazione della Meloni è una minchiata col botto per usare un eufemismo!! Ma la Meloni ci fa o lo è davvero ignorante in economia? Per certi versi lo è molto, per altri  invece fa finta di esserlo perché provenendo dalla destra sociale dovrebbe sapere che lo Stato con gli investimenti pubblici di vario tipo può mettere in moto una notevole spinta all’economia, e siccome è un’arrivista  della peggiore specie ( vedasi:

https://infosannio.com/2024/03/12/meloni-sara-premiata-dallatlantic-council-come-draghi/  +

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-sovranismo-di-cartone )

e allora fa anche finta di esserlo!

2. Il successo del modello IRI

19 Settembre 2019

di GILBERTO TROMBETTA (FSI Roma)

La Cina supera per la prima volta gli Stati Uniti nel numero di aziende presenti nella lista delle migliori 500 stilata da Fortune: 129 contro 121. Di queste 129, l’80% è costituito da aziende di proprietà dello Stato, +4% rispetto all’anno precedente*.

Il successo della Cina si basa praticamente su modello copiato da quello italianissimo dell’IRI. Ma la Cina non è un’eccezione, molti altri Paesi, la maggior parte di quelli industrializzati, vantano un’importante presenza dello Stato nell’economia, soprattutto quando si parla di grandi aziende. Guardando i dati viene fuori che dietro la Cina (96% delle aziende più grandi a guida statale), ci sono gli Emirati Arabi Uniti (88%), la Russia (81%), l’Indonesia (69%) e la Malesia (68%) (grafico 1). Guardando invece ai settori, non deve sorprendere che tra quelli con i rapporti più alti di partecipazione pubblica – tra il 20% e il 40% – ci siano quelli legati all’estrazione o al trattamento di risorse naturali, energia e industrie pesanti.

Tuttavia, alcuni settori dei servizi – come le telecomunicazioni, l’intermediazione finanziaria, il deposito, le attività di architettura e ingegneria e alcuni settori manifatturieri, registrano anche azioni delle imprese statali superiori al 10% (grafico 2)**.

L’Italia era il Paese più moderno e all’avanguardia, su questo fronte. Nel gennaio 1934, l’IRI deteneva circa il 48,5% del capitale azionario in Italia (James e O’Rourke, 2013, p. 59). Nel marzo 1934, rilevò anche il capitale delle principali banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) e, alla fine del 1945, controllò 216 società con oltre 135.000 dipendenti. Negli anni 80, ha moltiplicato le sue quote e ha raggiunto un numero di 600.000 dipendenti.

L’IRI è stato protagonista della ricostruzione industriale postbellica, intraprese interventi volti allo sviluppo economico delle regioni meridionali, al potenziamento della rete autostradale, del trasporto in genere e delle telecomunicazioni, al sostegno dell’occupazione.

L’IRI ha inoltre realizzato grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell’Italsider di Taranto e quella dell’AlfaSud di Pomigliano d’Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro.

Per evitare gravi crisi occupazionali, l’IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i “salvataggi” della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l’acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell’Istituto.

Poi è arrivata la presidenza Prodi che ha portato a:

  • la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
  • la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
  • la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat;
  • lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica;
  • la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti

Le entrate della privatizzazione per l’Italia tra il 1993 e il 2003 sono state stimate a 110 miliardi di euro, l’importo più elevato nell’UE a 15 in termini assoluti e tra i più alti come percentuale del PIL (Clifton et al. 2006). Siamo quelli che più degli altri si sono fregati con le proprie mani. Oggi le società pubbliche o partecipate, in Italia, sono circa 8 000 e impiegano circa 500 000 persone, ovvero il 2,1% dell’occupazione totale (Istat, 2015). Nel 2013, il 5% delle 1.523 principali imprese italiane era controllato da un’entità pubblica – centrale o locale. Il loro valore aggiunto aggregato corrisponde al 17% del PIL italiano (1,62 miliardi di euro a prezzi correnti nel 2013).

Numeri ridicoli se paragonati al peso che l’economia di Stato ha in altri Paesi, sia sul fronte della dimensione delle aziende (grafico 3) che su quello dell’impiego (grafico 4)***. Insomma mentre molti Paesi, Cina in primis, hanno costruito la loro fortuna copiando il modello IRI, noi invece ce ne siamo liberati per entrare nell’Unione Europea e adottare l’euro.

Probabilmente l’operazione più tafazziana che si sia vista in epoca moderna.

Riferimenti:

https://appelloalpopolo.it/?p=52846

3. “Italia in declino da 25 anni, privatizzati 170.000 miliardi”, Libreidee, 20 febbraio 2018

E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.

L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglosassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1.201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco.

Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio – alla lettera l’esempio thatcheriano.

Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse, nel periodo che va dal 1981 al 1986, il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire, tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv (2.753 miliardi); 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni (12.704 miliardi); 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta (13.462 miliardi); 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre (18.000 miliardi); 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma (40.000 miliardi); 1998 Bnl + altre tranche (25.000 miliardi); 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale (47.100 miliardi); 2000 Dismissione Iri (19.000 miliardi).

Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica, il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 – 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perché ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire, pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti.

Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive, e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei.

Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1.266 miliardi dell’anno precedente ai 1.199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1.225 miliardi) per poi scendere ancora a 1.208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001, dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina, che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti, soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.

(Giuseppe Maneggio, “Il declino nazionale? Tutto è cominciato negli anni ’90”, da “Il Primato Nazionale” del 18 marzo 2015).

E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.

L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche.

Proseguimento:

https://www.libreidee.org/2018/02/italia-in-declino-da-25-anni-privatizzati-170-000-miliardi/

3A. La versione originale pubblicata a marzo del 2015 su Il Primato Nazionale.

https://www.ilprimatonazionale.it/economia/il-declino-italiano-tutto-e-cominciato-negli-anni-90-19171/

4. Vista l’occasione, reminder interessanti su sovranismo e sovranità.

4A. “Il vero sovranismo nasce a sinistra” di Giampiero Cinelli per L’Intellettuale Dissidente , 24 agosto 2019

Le parole in politica sono forma e sostanza del pensiero. Così, approfondendo la definizione di sovranismo, si scopre che esso, nella sua espressione più pura, ha ben poco a che fare con la retorica dei porti chiusi e si rifà invece a una visione socialdemocratica e statalista, basata sulla Costituzione italiana.

Uno degli elementi fondamentali della politica è il linguaggio. Ogni partito si definisce attraverso un suo preciso lessico e tramite sue frasi ridondanti, interpretando la realtà esterna attraverso di essi, secondo parole e concetti che le danno significato. Al giorno d’oggi, il termine che in politica impazza è certamente quello di sovranismo.

Sovranisti vengono definiti gli schieramenti di destra europei, da quelli del cosiddetto gruppo di Visegrad fino alla Lega di Salvini e al Rassemblement National di Marine Le Pen. Sovranista è un aggettivo che, al giorno d’oggi, indica generalmente chi crede nella lotta all’immigrazione, chi si dice pronto a disobbedire ai trattati e alle direttive europee, anteponendo ad essi gli interessi nazionali, ma anche chi, sui temi etici e civili, manifesta una sensibilità conservatrice, osteggiando ad esempio le coppie omosessuali, i nuovi tipi di famiglia, oltre a mostrare una netta chiusura nei confronti delle minoranze etniche e religiose, soprattutto islamiche.

Il sovranista tipo sarebbe quindi un conservatore a tutti gli effetti, intento ad affermare il primato della propria nazione a tutti i costi. Obiettivo che spesso gli vale, sui media, la definizione negativa di nazionalista. Ma se, come dicevamo nell’incipit, il linguaggio in politica è tutto, va anche sottolineato che a volte le parole possono essere rubate, manipolate, usate subdolamente per contrastare qualcuno.
A lamentare la strumentalizzazione del termine sovranismo, sono proprio coloro i quali una certa ideologia l’hanno creata, che si ritengono ormai quasi inesorabilmente danneggiati dall’azione di chi ha in mano la comunicazione di massa e che, udite udite, con la destra di Orban non c’entrano proprio nulla.

Il sovranismo è una truffa?

Sebbene la maggior parte dell’opinione pubblica non lo immagini minimamente, la corrente sovranista più pura nasce a livello extra-parlamentare, da piccole associazioni che si rifanno a una cultura socialdemocratica e statalista. Niente a che vedere con la messa a bando delle coppie omosessuali o la pantomima del presepe di meloniana memoria. Al contrario, tanti riferimenti politici che affondano le radici nella ben nota cultura progressista, incentrata sul keynesismo e sul concetto, in voga nella Prima Repubblica, di “Stato imprenditore”.

Si fanno chiamare appunto “sovranisti costituzionali” (per differenziarsi dai “cattivi” dei fili spinati), perché pensano che la nozione di sovranismo sia già insita nella versione primigenia della Costituzione del 1948, lì dove, ad esempio all’articolo 11, si accettano solo “limitazioni” e non cessioni di sovranità. “In condizioni di parità”, che oggi essi non ravvisano affatto.

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Costituzione italiana, art. 11

Essi pongono l’accento sul titolo terzo della Carta fondamentale, quello meno conosciuto dei Rapporti Economici, in cui secondo la loro analisi ci sarebbero tutte le ragioni per rigettare l’adesione all’Unione europea. Non solo perché l’articolo 47 recita che “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”, ma in sostanza poiché in questa parte del testo costituzionale emerge una evidente differenza di pensiero tra il modello economico di Maastricht e quello concepito dai padri costituenti.

Maastricht è la consacrazione del libero mercato e della globalizzazione, siccome difende la libera circolazione dei fattori della produzione: cioè le merci, i servizi, il capitale e le persone. La Costituzione italiana, invece, pur restando liberale e consentendo l’iniziativa individuale, non dà per scontato che tali fattori non possano essere limitati e disciplinati, in virtù della giustizia sociale e della piena occupazione.

Emblematico ad esempio l’articolo che ammette l’esproprio a fini di interesse pubblico:

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.

Costituzione italiana, art. 42 comma III

Una previsione che in Ue sarebbe vista come un ostacolo alla concorrenza, così come le partecipazioni pubbliche nell’azionariato delle aziende e gli aiuti di Stato, attività che la nostra Costituzione ispira e che dall’Europa sono rese assai difficili, oltre che stigmatizzate come un esempio di bieco dirigismo.

E poi il punto chiave per i sovranisti costituzionali, ossia la Banca Centrale. Essi non hanno dubbi che questa debba essere controllata dal governo e debba finanziare direttamente la spesa e il debito pubblico. Un sacrilegio infatti, a loro avviso, il famoso “divorzio” del 1981. Fu soprannominato così l’atto con cui si decideva che la Banca d’Italia non dovesse più acquistare i titoli rimasti invenduti, una prassi che teneva bassi gli interessi sul debito e assicurava liquidità costante, anche grazie agli scoperti di conto che il Tesoro poteva sfruttare.

La loro visione può non piacere ma è sicuramente molto più avanzata di quella dei sovranisti “mediatici”, che si limitano a dire che batteranno i pugni sul tavolo e chiuderanno i porti, e soprattutto testimonia una visione politica molto più vicina alla cultura di sinistra che a quella destrorsa. Il sovranismo di sinistra insomma esiste, se così vogliamo definirlo. E come non potrebbe esistere se torniamo con la mente a chi gridava “Patria o muerte” (dicono si chiamasse Ernesto Guevara. Anche se lui, bisogna precisare, era molto meno democratico).

Del resto, basta consultare la Treccani per leggere, alla voce “Sovranismo”, non il ritratto di qualche bifolco del Wyoming, ma anzi la seguente definizione:

Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione

Questo lo hanno ben chiaro certi piccoli movimenti più o meno sconosciuti che fanno i loro primi passi in politica, presentandosi alle elezioni comunali o regionali. Qualche nome? Il Fronte Sovranista Italiano di Stefano D’Andrea e il Movimento Popolare di Liberazione di Moreno Pasquinelli. Prima o poi, forse, li leggeremo anche sulle schede elettorali nazionali e lì, almeno, potremo farci notare dicendo che a noi non suonano poi così nuovi.

Riferimento:

https://web.archive.org/web/20211015225709/https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/italia/il-vero-sovranismo-nasce-a-sinistra/

4B. “La questione della sovranità”, Fabio Falchi, rassegna stampa di Ariannaeditrice, 3 novembre 2019

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-questione-della-sovranita

In particolare il seguente passaggio dell’articolo:

“Democrazia è potere del demos che si esercita mediante gli apparati dello Stato ossia tramite una élite legittimata dalla sovranità popolare, il cui scopo principale è mettere al servizio della collettività le forze produttive ovvero tutelare la “salute” (il benessere morale e materiale) dell’intera comunità(del demos), rafforzando il “senso di appartenenza” secondo un complesso e articolato sistema di diritti e doveri. L’alternativa quindi oggi è tra oligarchia o tirannia oligarchica neoliberale e democrazia comunitaria (intesa come nuova forma di socialismo “sovranista”). Il resto sono ciance di chi pensa che si viva ancora al tempo degli opifici, delle carrozze e delle “parrucche”.”

4C. “Abbiamo criminalizzato lo Stato-nazione, ed ecco i risultati”, di Francesco Toscano per Il Moralista, Libreidee, 3 settembre 2015

Temo che negli ultimi anni sia stato sottovalutato da molti, me per primo, il forte legame sussistente fra il concetto stesso di Stato e quello di Democrazia. Abbiamo depotenziato il ruolo dello Stato per favorire la nascita e il rafforzamento di organismi sovranazionali presuntivamente illuminati; abbiamo destrutturato un equilibrio rispettabile, basato per l’appunto sul rispetto della sovranità dei singoli Stati, nella speranza di favorire così facendo la nascita dei mitologici “Stati Uniti d’Europa“; e abbiamo infine affidato le speranze e la vita di intere generazioni nelle mani di burocrati da strapazzo, emissari e difensori degli interessi di quello che una volta sarebbe stato chiamato “denaro organizzato”.  Abbiamo fatto bene? No, abbiamo fatto male. Malissimo. Prima di avventurarci in questioni di contorno, è giusto ribadire un assioma cardine: nel buio del potere pubblico detta legge la forza economica del privato. Solo la politica, legittimata dal voto, ha il potere di intervenire sui reali rapporti di forza che una qualsiasi società esprime, per il tramite di leggi e regolamenti pensati per aggredire le disuguaglianze materiali.

Proseguimento:

https://www.libreidee.org/2015/09/abbiamo-criminalizzato-lo-stato-nazione-ed-ecco-i-risultati/

Da segnalare col pennarello rosso questa frase del passaggio iniziale:

“Prima di avventurarci in questioni di contorno, è giusto ribadire un assioma cardine: nel buio del potere pubblico detta legge la forza economica del privato.”

e non è che ci voglia una laurea in fisica nucleare nella migliore università cinese, russa o statunitense, trattasi di semplice buon senso logico.

5. Cordiali saluti e buona serata.