L’acqua scarseggia. La papera non galleggia.

                                                   

di Roberto Pecchioli

 

E’ l’anno della grande siccità, da Nord a Sud. L’acqua scarseggia, la papera non galleggia. In Italia, come sempre, la situazione è grave, ma non seria. Per questo, anche un tema decisivo e potenzialmente drammatico come la carenza di acqua potabile, legata alla diminuzione delle precipitazioni, allo spreco, all’imprevidenza diventa una delle mille periodiche emergenze nazionali sbattute in prima pagina e poi dimenticate dal dibattito pubblico. Noi intendiamo svolgere una riflessione seria sul problema dell’approvvigionamento idrico, anche se il titolo è leggero.

In base al primo principio di Archimede, un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale al peso del fluido spostato. Dunque, per passare dal serio al faceto, la papera non galleggia per carenza di “spinte”.  E non è, ovviamente, solo una questione di fisica… Il caso della presente crisi idrica a Roma ne è la perfetta dimostrazione. La città eterna risolse i problemi dell’acqua già in epoca repubblicana, oltre due millenni or sono. I suoi acquedotti restano un esempio stupefacente di tecnica, intelligenza, senso dello Stato, bellezza architettonica. Il console Quinto Marcio Re realizzò attorno al 145 a. C. un acquedotto immenso. L’Acqua Marcia esiste ancora. In epoca imperiale erano attivi ben undici acquedotti, in grado di dissetare un milione di cittadini romani. Le condotte correvano per circa 800 km, e Via dei Condotti è il nome di della più bella via romana, quella che dal Corso conduce allo spettacolo travolgente di Piazza di Spagna, con la prospettiva della scalinata di Trinità dei Monti e la fontana della Barcaccia, splendida opera di Gian Lorenzo Bernini recentemente danneggiata da barbari tifosi di calcio olandesi. Un altro segno dei tempi e della impressionante decadenza civile degli europei. A Roma poi c’è la fontana più bella del mondo, quella di Trevi, gioiello tardo barocco del XVIII secolo.

Tutto questo per affermare il rapporto speciale che Roma ha sempre intrattenuto con l’acqua e gli acquedotti; siamo passati dalle opere classiche di Fortino e dal De architectura del sommo Vitruvio (I secolo dopo Cristo), e dal giudizio del greco Dionigi di Alicarnasso il quale indicò la grandezza civile e scientifica dei Romani nella capacità di costruire strade, fognature e acquedotti straordinari al razionamento idrico della Repubblica democratica. I formidabili piloni dell’acquedotto di Segovia, in Spagna, sono alti 68 metri, e la bellezza dell’acquedotto del Gard, sud della Francia, stupisce i visitatori da due millenni. Maestri di ingegneria, idraulica ed architettura, i romani antichi individuarono i gradienti più perfetti per trasferire l’acqua a distanze sbalorditive, semplicemente per gravità.

Nel terzo millennio, pur con tutti i mezzi della tecnica contemporanea, Roma e gran parte dell’Italia soffrono di mancanza d’acqua. Inquadrare il problema è fondamentale: da un lato, da circa vent’anni si assiste ad una diminuzione delle precipitazioni, unita alla loro concentrazione in periodi limitati dell’anno e a fenomeni considerati “estremi”, come le cosiddette bombe d’acqua e le alluvioni che trasformano in poche ore, talora in alcune decine di minuti torrenti in secca in fiumi in piena. Dall’altro, è considerevolmente aumentato il fabbisogno d’acqua per usi civili (l’igiene personale è fortunatamente cresciuta, come la popolazione che apre il rubinetto di casa), ed è addirittura esplosa la richiesta di acqua destinata all’industria, alla zootecnia ed all’irrigazione agricola.

Per quanto riguarda le siccità persistenti e prolungate, è accertata la progressiva desertificazione di aree importanti del pianeta, che lambiscono la nostra penisola. Vi è disparere circa le cause, che possono essere attribuite a naturali mutamenti climatici ciclici, ma anche all’azione sempre più intensa e devastante dell’uomo sull’ambiente (abbattimento indiscriminato delle foreste pluviali, riscaldamento da emissione di gas, impermeabilizzazione di enormi superfici ecc.). Quel che è certo è che la domanda di acqua degli oltre sette miliardi di esseri umani, per l’allevamento industriale, per le manifatture e per tanto altro – un esempio è l’imponente quantità di ’acqua necessaria al raffreddamento delle centrali termiche e nucleari- aumenta con moto accelerato e le risorse sono in diminuzione. La prima conseguenza è il rincaro dei prezzi del bene-acqua, che, per limitarci all’Italia, è diventato più costoso dell’89 per cento in soli cinque anni.

La prima domanda da porsi è dunque essenzialmente politica: di chi è l’acqua, può essere considerata una merce come tante altre, soggetta alle leggi del mercato padrone, e, soprattutto, che fare dinanzi alla scarsità? Per una volta, va riconosciuto che l’ONU si è espressa con chiarezza, stabilendo solennemente che l’accesso all’acqua è un diritto fondamentale di ciascun uomo. Di fatto, tuttavia, il principio che l’acqua è un bene comune da sottrarre agli appetiti e alle logiche commerciali è ben lontano dall’essere acquisito, nell’epoca della privatizzazione del mondo, del liberismo oligopolista e del mercatismo. In Italia, poi, prima la legge Galli del 1994, poi il decreto Ronchi del 2006, riassorbito tre anni dopo nel codice dell’ambiente sono andate, di fatto, nella direzione opposta. Pur animate da buone intenzioni e dal principio di sussidiarietà che privilegia l’ambito locale e comunitario, le norme, separando proprietà e gestione hanno spianato la via all’arrivo dei colossi privati alla ricerca di profitto sicuro. Attualmente, dominano il mercato giganti come Hera, Iren ed Acea, ma queste società con i profitti – pur calanti negli ultimi anni – della gestione e distribuzione fanno soprattutto finanza e reinvestono pochissimo nella rete di captazione e adduzione dell’acqua.

Qui veniamo ad un assurdo tipicamente italiano. Percentuali variabili tra il 25 per cento ed il 40/45 per cento dell’acqua raccolta viene dispersa prima dell’uso. Esistono dati impressionanti: a Tempio Pausania, la perdita sfiora il 70 per cento, a Cagliari il 60. A Sassari, con percentuali analoghe, il razionamento idrico è realtà consolidata da anni. Il caso sardo è esemplare; a seguito delle norme dianzi citate, la regione autonoma ha centralizzato la risorsa acqua in una società unica, Abbanoa, acqua nuova in lingua sarda, che ha ben 1.400 dipendenti, un notevole numero di dirigenti e produce utili. Tuttavia, chi aveva l’acqua ne ha meno o non ne ha più e la ribellione di decine di comuni decisi a fare da sé incontra la decisa opposizione delle autorità regionali. Evidentemente, l’acqua scarseggia, non solo nell’isola, per mancanza di “spinta”, e la papera del proverbio non galleggia.

Gli invasi ed i pozzi italiani sono vecchi, in genere obsoleti, molti risalgono a prima della guerra, due terzi della rete ha almeno 30 anni. I lavori che vengono eseguiti sono quasi sempre rattoppi, interventi di somma emergenza in occasione di gravi rotture di tubazione. Scarso è il controllo su chi devia l’acqua con condotte illegali, anzi, in alcune regioni del Sud il fenomeno è endemico, tanto che si potrebbe parlare di idromafie. Le grandi aree urbane dell’Italia meridionale ed insulare sono afflitte da decenni da interruzioni e razionamenti, mentre lo spreco è scandaloso in talune aree agricole e metà dell’acqua dei bacini è dispersa per incuria, obsolescenza, furto.

Da tutto questo si inferisce che l’acqua è un bene comune, anzi il bene comune per eccellenza, giacché senza di essa non esiste la vita, e deve dunque essere sottratta alle logiche mercantili. L’ultimo piano di grandi opere pubbliche legate al problema idrico risale all’epoca fascista, con il grande acquedotto pugliese, che dissetò la regione dopo secoli attraverso l’acqua sannita ed irpina, ridando vita all’agricoltura del Tavoliere e della Terra di Bari, alla stessa Sardegna. Da decenni ci si è fermati, con eccezioni lodevoli ma del tutto insufficienti.

Il caso romano è l’esempio vivente di tutte le criticità di questo tempo incomprensibile. I padroni dell’acqua romana – che, ricordiamolo, tra cittadini dell’area metropolitana e turisti, deve dissetare quattro milioni e mezzo di persone ,irrigare migliaia di ettari, approvvigionare allevamenti zootecnici e aree industriali – è l’Acea, una società mista di diritto privato, partecipata dal Comune di Roma Capitale, ma anche dal potente gruppo capitolino dei Caltagirone – proprietari, non a caso, del maggiore quotidiano della città, Il Messaggero- e dalla multinazionale francese Suez, erede, nel settore idrico, del gigante francese Lyonnaise des Eaux ( Lionese delle Acque).

Acea ha realizzato, negli ultimi esercizi, profitti di centinaia di milioni, prevalentemente attraverso la leva finanziaria, ma ha effettuato investimenti di ammodernamento della rete per somme inferiori a quelle indicate nel suo stesso piano industriale. Il governo italiano ha recentemente stanziato 250 milioni, che sono una goccia nel mare, di cui oltre 21 destinati al Lazio. Saranno stati spesi? E per quali interventi? Intanto, la natura presenta il conto all’orgoglioso Homo Oeconomicus materialista e tecnodipendente. Il lago di Bracciano, una delle maggiori fonti di approvvigionamento, ha visto calare il livello dell’invaso di circa un metro. Siccità persistente a parte, è ragionevole affermare che non vivremmo nell’emergenza in gran parte del territorio, se le reti, gli invasi, i pozzi artesiani, le tubazioni fossero decentemente manutenute e ci si avvalesse delle tecnologie non disponibili all’epoca della costruzione.

Il livello delle classi dirigenti si misura dalla capacità di rispondere alle sfide, dal profilo previsionale, dalla velocità di decisione e di assunzione di responsabilità a lungo termine. Tutti concetti estranei a gruppi narcisisti, autoreferenziali, concentrati sul breve termine, sulla prossima trimestrale di cassa, su consigli di amministrazione in cui gli azionisti pretendono profitti crescenti e rapidi, sulla dittatura dei mercati e delle società di valutazione (il rating). Nel settore idrico, i nodi stanno venendo al pettine in quanto la natura resta sovrana e l’acqua non si può fabbricare.

Pure, gli uomini di potere avevano compreso l’importanza della questione fin dai tempi più antichi. Le civiltà sorsero sulle coste o in prossimità di grandi vie d’acqua: la Mesopotamia che vide il sorgere delle prime città, come Uruk dei Caldei, l’Egitto la cui economia si fondava sulle piene periodiche del Nilo che irrigavano vaste zone del paese. Nella stessa Italia, il Magistrato delle Acque di Venezia attraversò centinaia di anni di storia con amplissimi poteri, e così le autorità di sorveglianza della principale via d’acqua dolce italiana, il fiume Po ora in preoccupante secca.

Un sociologo e pensatore tedesco del Novecento, Karl August Wittfogel, nella sua opera maggiore, Il dispotismo orientale, mise in relazione la ricorrente disposizione dei popoli slavi ed asiatici all’autocrazia ed all’accentramento dei poteri con la necessità di tenere sotto controllo politico le acque, viste come risorsa fondamentale e sistema naturale di sviluppo e comunicazione, arrivando a definire “civiltà idrauliche” i sistemi di organizzazione statuale dell’Est. Storicamente, poi, è facile documentare le migrazioni di popoli alla ricerca dell’acqua.

Nel drammatico Novecento, la follia produttivistica delle idee materialiste ha prodotto migliaia di disastri ambientali. Quello più drammatico è legato alla quasi scomparsa del lago di Aral. Il secondo bacino lacustre della terra, nell’Asia ex sovietica, aveva una superficie di circa 68 mila chilometri quadrati, più o meno le dimensioni di Piemonte, Lombardia e Veneto uniti. Ora non ne rimane che poco più del 10 per cento. Il motivo è stata l’immensa captazione di acqua che le autorità sovietiche decisero per realizzare enormi piantagioni di cotone nell’ Uzbekistan, una delle zone più aride del mondo. Per rendere produttive le colture, nel corso di decenni sparsero tonnellate di diserbanti, fertilizzanti chimici ed ogni sorta di veleni, che, sversati nello stesso lago, lo hanno reso un deserto. La visione satellitare dell’ex lago d’Aral dovrebbe essere resa obbligatoria alle classi politiche, economiche ed intellettuali di tutti i continenti a monito perenne della capacità dell’uomo – e delle tecnologie da egli inventate al servizio delle ideologie di dominio-  di distruggere la sua unica casa, la Terra.

Gli esperti di scenari geopolitici sono persuasi che il controllo delle riserve idriche sarà al centro delle contese internazionali nel medio termine, sostituendo la lotta per gli idrocarburi fossili come causa di conflitti. Se tutto ciò è vero, l’Italia ha la necessità storica di un piano nazionale dell’acqua di portata almeno decennale, più probabilmente ventennale. Si tratta, anzitutto, di sottrarre agli appetiti del mercato il bene comune acqua, pur senza negare ai privati latori di buone idee la possibilità di intervenire nel settore. In realtà, ci sarà posto per tutti, soprattutto per tutte le intelligenze a servizio del migliore utilizzo della più vitale delle risorse.

Il primo passo è quello di rendere impermeabile la struttura di captazione, adduzione, trasferimento e distribuzione dell’acqua. I mezzi del XXI secolo sono incomparabilmente superiori a quelli dei progenitori latini. Il risparmio relativo alla bassa dispersione coprirà in tempi ragionevoli gli investimenti relativi alla ricerca scientifica ed alla realizzazione degli interventi. Contemporaneamente, occorre un rapido e radicale ammodernamento delle metodiche di irrigazione agricola, obsolete e fonte di perdite, sprechi e certamente di interessi poco puliti.

Si rende poi necessario un programma di ricerca di nuovi pozzi e di costruzione di invasi, da realizzare soprattutto laddove è possibile l’uso dell’acqua anche per usi energetici idroelettrici. Una operazione di questa ampiezza richiede, oltre a tempi lunghi ed a investimenti pubblici importanti, un quadro normativo del tutto differente dall’attuale. Non è possibile fare nulla che sfidi il tempo se non a debito, contando sulle generazioni future, che pagheranno un conto ma potranno disporre su infrastrutture che metteranno l’Italia al riparo sia dai rischi climatici sia dalle ricadute geopolitiche delle crisi idriche. Un’opera collettiva che sfidi il tempo, come seppero svolgere i romani antichi. Dovrebbero altresì essere riconsiderate le troppe concessioni in capo alle aziende di acque minerali e non solo, e, nell’immediato, dovranno essere pronunciati dei no dolorosi quanto necessari alle imprese che consumano fiumi d’acqua per motivi ludici (piscine, parchi acquatici e simili), obbligandole magari a partecipare a programmi di ricerca per migliorare le tecniche di captazione e limitare la dispersione.

Un discorso a parte riguarda la dissalazione. Posto che qualcuno ha proposto di chiamare Acqua il nostro pianeta, per oltre due terzi formato da liquidi, l’Italia è in coda alle classifiche relative agli impianti di dissalazione. Solo lo 0,1 per cento dell’acqua distribuita proviene da tale fonte, concentrata nella sola Sicilia. I costi sono ancora elevati, e l’impatto generale degli impianti non è trascurabile, tuttavia la ricerca avanza e già oggi, ad esempio, la città di san Diego in California – in una zona afflitta da una persistente diminuzione delle piogge – è all’avanguardia, tanto che nel grande stato americano si prevede che metà dell’acqua distribuita entro il 2050 proverrà da dissalazione. Ricerca più capacità di visione a lungo termine.

Chi è stato nelle isole Baleari in vacanza avrà senz’altro osservato gli impianti che hanno largamente sostituito le navi cisterna provenienti dalla Spagna continentale. Il mercato dell’approvvigionamento idrico – poiché l’aspetto economico è unico argomento che desta l’interesse dei poteri costituiti- aumenterà nella sola Italia di almeno 12 miliardi entro il 2025. Nell’ambito degli impianti di dissalazione, l’Italia sembra possedere ottime possibilità specie in Veneto, Emilia Romagna e Campania, ma probabilmente anche nelle isole maggiori. Il presente è più triste, con le polemiche durissime che accompagnano la costruzione di un piccolo manufatto nella minuscola isola pontina di Ventotene, proprio là dove Altiero Spinelli e Ernesto Rossi scrissero il tanto esaltato e sopravvalutato manifesto europeista che dall’isola prese il nome. Ma l’Europa non esiste là dove occorre respiro storico e visione. Anche per l’acqua, dobbiamo fare da soli: soprattutto è necessario prendere l’iniziativa.

Ci rifiutiamo di pensare che non esistano intelligenze, competenze, capacità in grado di affrontare il problema. La spinta, come per tutte le grandi imprese, deve tuttavia provenire dal potere pubblico e dalla sua disponibilità a scommettere sul futuro. L’intendenza seguirà, come diceva Napoleone, nel senso dell’impegno di investitori privati, del ruolo dell’università e della scuola nel creare nuove professionalità e inventare idee e soluzioni. Certo, non si può immaginare di lasciare un tema che ha risvolti epocali come quello dell’acqua in mano a classi dirigenti inette ed arraffone, caste di nominati e cooptati abili soltanto nelle manovre di corridoio e nell’assicurarsi privilegi sempre nuovi.

Tuttavia, se vogliamo attraversare da vincitori una crisi che segnerà il futuro comune dell’umanità, come quella dell’approvvigionamento idrico, non c’è scelta. Bisogna correre ai ripari, da subito, con autorità statali forti e dotate di poteri. L’alternativa è semplice: se l’acqua scarseggia, la papera non soltanto non galleggia, ma muore. Ricordiamolo a noi stessi ed a chi ha responsabilità: primum vivere e senza l’acqua non c’è vita, come sapevano i Romani, gli stessi che riuscivano a portare l’acqua a centinaia di chilometri con i mezzi e le tecnologie di duemila anni fa.

   Roberto PECCHIOLI