La UE vuole la guerra permanente, spiegato bene

Nel conflitto ucraino, la pace non è più l’obiettivo, ma il pericolo. Non per le popolazioni che ne pagano il prezzo, ma per le élite occidentali intrappolate in una narrazione di vittoria diventata impossibile da mantenere.

Mentre la guerra si protrae, qualsiasi pace realistica appare come un’ammissione di fallimento, un fallimento deliberatamente rinviato, anche a costo di prolungare il conflitto oltre ogni ragionevolezza.

La pace diventa sospetta: riflessioni sul significato della pace in tempo di guerra

Nel conflitto ucraino, la pace è diventata più pericolosa della guerra. Non per le popolazioni che la subiscono, ma per le élite occidentali imprigionate in una narrazione che non possono più confutare senza crollare.

Un tempo la pace era l’esito naturale di qualsiasi guerra. Oggi è diventata un obiettivo sospetto.

Il semplice accenno a negoziati, compromessi o stabilizzazione viene immediatamente interpretato come debolezza morale, capitolazione strategica o persino tradimento.

Nel conflitto ucraino, questo capovolgimento è sorprendente: più a lungo dura la guerra, più la pace sembra inaccettabile, non per chi la subisce, ma per chi la descrive.

Questo paradosso merita di essere esaminato, non da una prospettiva emotiva, ma puramente pratica: cosa significa ancora la pace in tempi di guerra prolungata? E perché ora sembra più pericolosa della continuazione dei combattimenti?

Quando la pace vale la pena solo se assomiglia a una vittoria

Nel discorso occidentale dominante, la pace è accettabile solo a una condizione: che assuma la forma di una vittoria chiara, trasparente e moralmente soddisfacente. Qualsiasi altro risultato è squalificato a priori.

Il negoziato diventa tradimento, il compromesso una debolezza, la stabilizzazione una minaccia futura.

Eppure, questa concezione è storicamente fragile. I grandi accordi di pace del XX secolo – imperfetti, incompleti, spesso ingiusti – non sono quasi mai corrisposti a vittorie puramente morali.

Furono il risultato di lotte di potere, sfinimento reciproco e calcoli freddi, a volte cinici. Posero fine ai combattimenti senza riparare a tutte le ingiustizie. Eppure, permisero alle società di respirare di nuovo.

La storia, infatti, offre un crudele laboratorio per valutare queste paci imperfette.

Versailles e Trianon (1919-1920) posero fine alla Grande Guerra umiliando i perdenti. Furono “funzionali” nell’arrestare la carneficina, ma coltivando un profondo risentimento, spianarono la strada a un conflitto ancora più terribile.

Yalta (1945), un atto di Realpolitik per eccellenza, divise l’Europa e stabilì una pace terrificante ma stabile, evitando la guerra diretta per mezzo secolo.

Dayton (1995) congelò il conflitto bosniaco su basi etniche. Fermò i massacri, a costo di uno Stato disfunzionale e di una pace che, trent’anni dopo, continua a dipendere dagli aiuti internazionali.

La lezione è duplice.

In primo luogo, una pace imposta può essere preferibile a una guerra prolungata, perché salva vite umane immediatamente e consente un’essenziale tregua sociale.

Ma in secondo luogo, la sua efficacia ha una durata. Dipende dalla sua capacità di trasformare l’ostilità in rassegnata accettazione.

Una pace “reale” non è quindi semplicemente una cessazione delle ostilità basata su un equilibrio di potere. È anche un equilibrio sufficientemente interiorizzato da non diventare il terreno fertile per una guerra di vendetta.

L’errore sarebbe confondere un armistizio – una mera tregua tecnica – con una pace duratura. Il primo è spesso necessario; la seconda è un processo politico infinitamente più complesso.

Rifiutare qualsiasi pace che non sia idealizzata equivale a anteporre un’esigenza astratta al costo umano effettivo. Significa rendere la guerra una condizione permanente.

Questa persistenza è tanto più paradossale se si considera che si basa su capacità materiali, industriali e umane che si stanno erodendo, anche tra coloro che affermano di sostenerla.

La proposta russa: una pace realistica in un mondo reale

La proposta di pace russa merita di essere esaminata per quello che è, non per quello che vorrebbe la narrazione occidentale. Non è né generosa né morale.

Si basa su una logica di realismo strategico: cessazione delle ostilità, neutralizzazione militare dell’Ucraina e riconoscimento delle realtà territoriali derivanti dal conflitto.

Questa proposta riconosce una verità che l’Occidente si rifiuta di ammettere: le guerre moderne raramente si concludono con la vittoria totale di una parte. Si concludono con una stabilizzazione imposta da limitazioni materiali, umane e industriali.

La capacità di prolungare un conflitto dipende meno dalla volontà politica che dalla realtà delle scorte, della produzione e dall’accettabilità del sacrificio.

La Russia non cerca una pace ideale; cerca una pace funzionale che garantisca la sua sicurezza a lungo termine. Questo approccio può essere considerato duro, asimmetrico e

Europa sotto invasione: un mito funzionale

L’argomentazione secondo cui la Russia è pronta a invadere l’Europa gioca un ruolo centrale. Non come seria analisi militare, ma come strumento per squalificare qualsiasi pace negoziata.

Trasformando un conflitto regionale in una minaccia globale alla civiltà, questa narrazione rende impossibile per definizione qualsiasi soluzione politica.

Svolge anche un ruolo cruciale a livello interno: disciplinare l’opinione pubblica, giustificare spese straordinarie e instaurare un’economia di guerra senza una guerra dichiarata.

Tuttavia, nulla nella posizione della Russia corrisponde a un piano per invadere l’Europa occidentale. Tutto indica il desiderio di ridefinire l’architettura di sicurezza europea.

Confondere queste due logiche è meno una questione di analisi che di sfruttamento della paura.

Il cessate il fuoco occidentale: né pace né fine
L’Occidente non rifiuta alcuna cessazione delle ostilità. Favorisce un cessate il fuoco vago, reversibile e giuridicamente ambiguo.

Un congelamento del conflitto che gli permetterebbe di salvare la faccia senza risolvere le questioni fondamentali. Una pausa tattica, non la pace.

La Russia, d’altra parte, cerca una stabilizzazione duratura e formalizzata, accompagnata da garanzie concrete.

Questa discrepanza spiega l’attuale incompatibilità: una parte vuole posticipare la fine, l’altra vuole porvi rimedio, sapendo che ogni mese in più rende più difficili le condizioni per una pace futura.

Il costo umano sacrificato alla narrazione
In questa contrapposizione, il costo umano diventa secondario. Le morti vengono integrate nel discorso come una necessità astratta. La guerra rimane accettabile finché è lontana.

Una domanda, tuttavia, rimane: quante altre morti ci vorranno perché una pace realistica diventi finalmente accettabile?

A che punto la fedeltà a una narrazione diventa irresponsabilità morale?

Riabilitare la pace reale
Sostenere una pace proposta dalla Russia non significa idealizzare la Russia. Significa riconoscere che, a un certo punto, la razionalità strategica è preferibile all’utopia morale.

La pace non è sempre giusta. Ma una guerra prolungata non lo è mai di più.

Rifiutare una pace imperfetta equivale spesso a scegliere una guerra perfetta, perfetta soprattutto per chi non la sta combattendo.

L’incontro del 28 dicembre tra Zelensky e Donald Trump, presentato come un “progresso” verso la pace, non ha portato, inoltre, ad alcun accordo concreto, a conferma che la semplice menzione della pace rimane accettabile finché non si traduce in una vera decisione politica.

Quando la pace diventa una minaccia alla narrazione
La pace è diventata sospetta perché pone fine a una storia che alcuni preferiscono continuare a raccontare.

La proposta russa, per quanto dura, ha il merito di esistere nella realtà. La narrazione occidentale, d’altra parte, se ne allontana sempre di più ogni giorno.

Oggi, fare la pace non è più solo una scelta strategica. È un atto di verità politica.

Non è la pace a spaventare oggi.

È ciò che rivela.

Mounir Kilani

Mounir Kilani è un autore e analista indipendente che pubblica regolarmente sulla stampa alternativa francofona, in particolare su Réseau International. I suoi scritti si concentrano principalmente sulla geopolitica contemporanea, sui conflitti internazionali, sulla deriva ideologica delle élite occidentali e sulla crisi di sovranità di stati e popoli. Attraverso un approccio critico e ben documentato, mette in discussione le narrazioni dominanti, i meccanismi di propaganda e i vicoli ciechi strategici del mondo attuale. Il suo lavoro si inserisce nel desiderio di riabilitare l’analisi razionale, la memoria storica e il dibattito intellettuale di fronte alle semplificazioni morali e al senso comune. Sostiene una visione multipolare del mondo e una richiesta di lucidità in un contesto internazionale caratterizzato da censura, polarizzazione e confusione informativa.