La subalternità della Meloni alla sinistra ed ai mercati

Luigi Copertino

CHI SALVERA’ L’IMPERATRICE BAMBINA?

È notizia di questi giorni che la Meloni sta meditando l’eliminazione dal simbolo di Fratelli d’Italia della vecchia fiamma tricolore, l’emblema del Msi, che ancora collega, sebbene molto debolmente, il partito conservatore della Giorgia nazionale all’esperienza della Repubblica Sociale Italiana, estremo tentativo di riorganizzazione politica del fascismo di sinistra. Da quella esperienza discendeva direttamente il Movimento Sociale Italiano, il partito che, senza rinnegare ma anche senza voler restaurare, ha incarnato l’eredità neofascista nel dopoguerra, tollerato per sessant’anni nella Repubblica antifascista. Una Repubblica, quest’ultima, che tuttavia, nonostante il suo antifascismo, è stata costruita nel solco e sulle basi dello Stato sociale moderno, di massa, edificato, nelle sue strutture portanti, dall’Iri all’Agip-Eni, dal sindacalismo all’interventismo interclassista, dal dirigismo economico alla partecipazione popolare al Politico, proprio dal fascismo.

Pare che, nel caso le prossime elezioni confermassero l’ascesa di Fratelli d’Italia, la Meloni abbia intenzione l’anno venturo di convocare un congresso del suo partito per formalizzare l’eliminazione della fiamma dal simbolo onde rendere chiaro a tutti che il suo partito non vuole avere più legami con il passato neofascista. Questo nella speranza che Fratelli d’Italia sia di conseguenza accreditato, quale polo conservatore, nell’ambito della democrazia occidentale.

Accreditato, tuttavia, da chi?

Nella risposta a questa domanda emerge tutta la subalternità della Meloni alla sinistra globalista ed ai mercati finanziari.

Infatti la richiesta di eliminazione della fiamma – attraverso i “moniti” di Liliana Segre il cui marito tuttavia prima si candidò come anticomunista nelle fila del Msi e poi rinunciò ad ulteriori candidature missine per quiete familiare – arriva dal Pd e delle frattaglie fucsia più o meno rosa-scuro alla sua sinistra. Nonostante che il filosofo di sinistra, già sindaco piddino di Venezia, Massimo Cacciari, stufo di tanta vuota retorica e dell’aggressione mediatica alla Meloni, abbia pubblicamente riconosciuto la dignità storica e politica della cultura di “destra sociale” dalla quale comunque proviene il partito meloniano dato oggi per vincente. Ma non è solo la sinistra rosa-fucsia a chiedere l’abiura del simbolo alla Meloni. Detta richiesta giunge anche dai mercati finanziari che vogliono rassicurazioni sul fatto che Giorgia Meloni al governo non si illuda di fare politiche sociali e sovraniste, intese a tutelare la nazione dai vincoli esteri e le fasce sociali più deboli dalla concorrenza imposta dai mercati finanziari stessi.

Queste le forze partitiche e finanziarie che chiedono l’abiura. E la Meloni che fa? Risponde picche? No, al contrario sembra voler obbedire alla sinistra ed ai mercati, dopo aver blaterato, in passato, quando il suo partito non contava nulla, contro la sinistra venduta ai mercati. La Giorgia nazionale si è messa così sulla stessa strada di Gianfranco Fini dimentica del disastro verso il quale Fini portò la destra ex missina coartandola nella gabbia liberale ed occidentalista.

Purtroppo è una scoraggiante  realtà, che da anni siamo costretti a sopportare, quella del pellegrinaggio alla City londinese o della rassicurazione da dare ai mercati finanziari cui si prestano i leader politici in ascesa. Sotto le forche caudine dei poteri finanziari apolidi sono passati Prodi e D’Alema, Fini e Berlusconi, Di Maio e Casaleggio, Bersani e Letta. Ora tocca alla Meloni. Questa subalternità della politica ai mercati dimostra che il potere vero è nelle mani della finanza e che il Politico, quale dimensione del vivere associato intorno ad identità concrete, sociali e nazionali, è stato privato, dai potentati economici transnazionali, delle leve effettive di comando, svuotando, in tal modo, di contenuti la stessa democrazia per lasciarne un vuoto simulacro. Un simulacro di democrazia che la sinistra globalista, serva dei poteri finanziari apolidi, usa durante le campagne elettorale agitandolo contro lo spauracchio “fascista”, dopo averla essa per prima depauperata insieme alla sovranità nazionale, base stessa della sovranità popolare ossia della democrazia.

Il maquillage proposto dalla Meloni per il suo partito, infatti, non è soltanto un cedimento all’ignoranza dei leader della sinistra arcobaleno che quando parlano di “fascismo” non sanno di cosa stanno parlando, per mancanza di cultura storica, ma è soprattutto un modo di compiacere gli organismi sovranazionali, dalla Nato alla Ue, e quindi i mercati finanziari. La Meloni potrebbe a sua giustificazione osservare che senza il beneplacito di tali organismi e dei mercati non si governa. Ma allora che senso ha dichiararsi sovranisti, anche nella versione conservatrice o in quella del confederalismo europeo, se un governo nazionale deve rispondere ai vincoli posti da poteri sovranazionali? A che serve votare un partito nazionale di facciata ma che già annuncia la sua resa al globalismo, in versione americana? Probabilmente la nostra Giorgia nazionale ritiene di non poter governare senza il benvolere dei poteri globali da quando, entrando a far parte dell’Aspen Institute, ha preso gusto, anche lei, al clima ovattato dei circoli globalisti, iniziando a perdere contatto con quel popolo italiano del quale dice di voler interpretare gli interessi sociali e nazionali.

Se la prossima eliminazione dal simbolo della vecchia fiamma tricolore costituirà il segno tangibile dell’abiura, da parte di Fratelli d’Italia, di ogni residuo di “Destra sociale” e di patriottismo popolare – l’eredità del socialismo nazionale, proveniente dalla sinistra di ascendenza risorgimentale, che conviveva, in continua tensione, con il più becero moderatismo d’ordine nel vecchio Msi – le scelte della Meloni tuttavia non quadrano neanche osservandole attraverso le lenti della categoria politica del “conservatorismo”.

Infatti, il conservatorismo europeo, che risale ad un Juan Donoso Cortés o ad un Bismarck, molto attento, nel solco di una visione comunitaria, alla questione sociale in chiave antiliberista, è assolutamente diverso dal conservatorismo anglofono, di marca inglese ed americana, al quale sembra riferirsi la Meloni, che invece quella attenzione non ha mai avuto (salvo talune eccezioni come quella di  Disraeli nell’Inghilterra dell’ottocento). La Meloni, assidua frequentatrice delle convention della destra americana, non sembra rendersi conto dell’abisso che separa il nazional-conservatorismo dal liberalismo conservatore. Per questo il suo abbandono delle posizioni sociali della destra di provenienza neofascista – ossia di una cultura che ha rappresentato nella storia italiana quella sinistra nazionale costretta a riposizionarsi a destra dalla chiusura di una sinistra becera nel suo internazionalismo che, dissolto il marxismo, si è mostrato l’utile idiota del globalismo neoliberista – non sta traghettando Fratelli d’Italia verso il nazional-conservatorismo ma verso il liberalismo di destra, come dimostra anche il programma presentato per queste elezioni. La Meloni auspica che il suo partito diventi il Grand Old Party o il Tory Party italiano. Che quindi esso sposi una linea reaganiana e thatcheriana. La Meloni vuole rappresentare l’ala di destra, “conservative”, dell’ideologia unica liberale occidentale della quale la sinistra fucsia rappresenta l’ala progressista, “liberal”. Triste schematismo di importazione americana ed inglese ma estraneo alla storia politica italiana almeno fino agli anni ’90 del secolo scorso.

«I “valori occidentali” … – scrive l’ottimo Francesco Borgonovo su La Verità del 13 agosto – non sono più quelli della tradizione europea, ma quelli che costituiscono la dottrina “liberal”, la quale non conosce né limiti né confini, disdegna le identità forti e punta alla cancellazione totale del dissenso. La sinistra italiana, negli ultimi decenni, ha provveduto autonomamente alla castrazione, e si è perfettamente adeguata ai dogmi emersi dalla “fine della Storia”. Non è stato, in fondo, un percorso troppo difficile, anche perché il pensiero progressista è uno dei principali pilastri dell’edificio liberal. Subito dopo è toccato ai liberali (o sedicenti tali), anch’essi aiutati nel processo di auto-annientamento dalla fede cieca nel mercato. Adesso siamo alla fase conclusiva dell’operazione, ed è venuto il turno dei conservatori, cioè di coloro che finora hanno faticato di più a sottomettersi perché ancora legati a un passato robusto».

Nel caso di Fratelli d’Italia, tuttavia, quel robusto passato non è solo di segno nazionale, quindi conservatore, ma anche sociale, quindi di sinistra, perché proviene da quel tentativo di fondere classe e nazione, patriottismo e socialismo, che fu il fascismo. Non il fascismo compromesso con i fiancheggiatori di destra – che non gli preclusero l’ascesa al potere pur mantenendo sempre verso di esso una guardinga distanza nella consapevolezza che avrebbe potuto, come effettivamente un po’ alla volta stava facendo in un processo interrotto dalla guerra, spostarsi in senso opposto per recuperare le sue radici sindacaliste e di sinistra – ma il fascismo scaturente dall’alveo della tradizione democratica e socialista, sebbene non marxista o di revisionismo marxista, del Risorgimento e che dunque si poneva come luogo di incontro dell’identità e della tradizione nazionale con un forte riformismo sociale tale da consentire alle masse popolari l’ingresso nello Stato unitario che i liberali avevano realizzato per farne uno strumento al solo servizio delle classi alto borghesi ed aristocratiche di estrazione massonica e savoiarda.

Di tutto questo la sinistra arcobaleno e globalista, quella dei Letta, dei Fratoianni, dei Bersani, delle Boldrini, sembra non aver alcuna cognizione perché dalle sue parti lo studio della storia è qualcosa di estraneo. Allo studio serio della storia viene preferita la mitologia politica inventata ad usum delphini nel dopoguerra ma che la migliore storiografia, da Renzo De Felice ad Emilio Gentile, da Francesco Perfetti a Giuseppe Parlato, da Domenico Settembrini a Juan Linz, ha smontato e disincantato. Quella mitologia rimane solo come favola con la quale irretire nella menzogna le masse teledipendenti.

Per questo, con somma contraddizione e immenso senso del ridicolo, la nostra sinistra incolta, dopo aver per mesi osannato il battaglione Azov ed i suoi simboli para-nazisti, parificandolo alle formazioni partigiane perché resistenti all’invasore “autocratico”, viene ora a chiedere alla Meloni la rimozione di un simbolo che, oltretutto, non è neanche fascista tout court, essendo stato ideato nel dopoguerra.

Il problema è che lo studio della storia e della filosofia politica è latitante anche dalle parti di Fratelli d’Italia, perché altrimenti i suoi dirigenti, Meloni in primis, saprebbero bene cosa rispondere alla sinistra che chiede abiure.

Abiurare da cosa? Dal fascismo del 1919-20 che era un piccolo movimento della sinistra interventista del tutto interno alla tradizione democratica e socialista risorgimentale (basta leggere il programma sansepolcrista o la dannunziana Carta del Carnaro)? Oppure dal fascismo della dittatura, inaugurata con il discorso del 3 gennaio 1925, alla quale Mussolini – che fino a quel momento aveva tentato in ogni modo di risolvere la crisi del primo dopoguerra nell’ambito della legalità costituzionale albertina mediante i governi di coalizione con i popolari ed i demosociali e con la fallita pacificazione con i socialisti – fu costretto dalla convergenza della fronda antisocialista dei ras fascisti più estremisti e dalla chiusura del partito socialista sull’onda dell’omicidio Matteotti, del quale Mussolini era del tutto incolpevole, ordito da taluni ambienti massonici d’affari, nei quali era coinvolta la stessa Corona, dato che il deputato riformista stava per denunciare uno scandalo di tangenti ministeriali? O ancora dal fascismo del 1922-29 che ne costituì la fase deflazionista, quella della “quota 90”, ossia del “liberismo autoritario” attuato dai fiancheggiatori liberali come il ministro delle finanze Alberto de’ Stefani, o piuttosto dal fascismo del 1929-39 che inaugurò la svolta dirigista ed interventista in economia, guidata dal nittiano Alberto Beneduce, per salvare la nazione dal disastro della grande crisi di Wall Street e che pose le basi della modernizzazione nazionale e del suo sviluppo successivo, compreso il welfare, basi ereditate dalla Repubblica antifascista e da essa ulteriormente ampliate?

La Meloni, invece di rifugiarsi in inutili difese anagrafiche, avrebbe tutta la possibilità, se conoscesse seriamente certi argomenti storici, di replicare, a coloro che chiedono abiure, che esiste una sostanziale continuità tra l’esperienza corporativista degli anni ’30 – apprezzata all’epoca dalla migliore intellighenzia internazionale, in primis da Roosevelt che inviava i suoi tecnici a studiare in Italia – e la vigente Costituzione repubblicana: dall’articolo 1 (il fondamento laburista dello Stato) all’articolo 39 (la rappresentanza unitaria dei sindacati e l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi stipulati dalle rappresentanze sindacali unitarie), dall’articolo 2 (il riconoscimento del singolo nelle formazioni sociali) all’articolo 46 (la partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili dell’azienda), fino all’articolo 99 (il CNEL che è una democratizzazione della camera dei fasci e delle corporazioni). Perché la nostra Costituzione è stata elaborata da uomini, come Amintore Fanfani e Giuseppe Di Vittorio ed altri, i quali con l’organicismo sociale, che caratterizzava la cultura fascista, erano non solo entrati in contatto ma lo avevano, sebbene criticamente (come del resto la stessa sinistra fascista e il cattolicesimo politico del tempo), apprezzato (1).

Il fascismo è stato un fenomeno estremamente cangiante nel corso della sua dinamica storica, per via del suo essere ad un tempo di destra e di sinistra. Per questo non è seriamente possibile dirsi “fascisti” o “antifascisti” se prima non si precisano i contorni storici ed i periodi esatti di riferimento. Rispetto alle realizzazioni imperfette ma perfettibili del regime, molti fascisti diventarono antifascisti come molti antifascisti diventarono fascisti proprio inseguendo i sentieri irti e difficoltosi del tentativo di unire classe e nazione.

Su “Il Messaggero” del 12 agosto, Mario Ajello, nell’elogiare le decisioni della Meloni a proposito del simbolo, ha creduto di sostenerla nel suo emendarsi dal passato fascista ricordando che il motto “Dio, Patria e Famiglia” non è fascista ma appartiene a Giuseppe Mazzini, quindi al repubblicanesimo sociale e democratico. Peccato, però, per Ajello che il mazzinianesimo sia stato una delle radici del fascismo originario, quello di sinistra, e che esso fu rivendicato anche dal fascismo della Repubblica Sociale (2). Ecco! É questo livello di ignoranza della storia e della filosofia politica, imperversante nei media e nella scuola, che rende difficile all’opinione pubblica ogni onesta valutazione e, quindi, di soppesare l’identità politica di una forza che, sebbene oggi vuole spostarsi verso il conservatorismo, ha quelle radici. Radici socialiste e mazziniane, ossia del tutto democratiche, e, pertanto, tali da accreditarla nell’attuale Repubblica anche senza abiure, assolutamente non dovute.

L’unica abiura dovuta è soltanto quella nei confronti delle leggi razziali – una vera e propria pugnalata alle spalle dei tantissimi ebrei italiani e dei molti italiani di origine ebraica che riempirono i ranghi del fascismo sin dagli inizi – ma anche in tal caso con la chiara evidenziazione del fatto che, come ben sanno gli storici, quelle indegne leggi furono posticce e non interne alla cultura fascista propriamente detta. Si trattò di un vergognoso caso di subalternità ad un alleato più forte nelle braccia del quale l’Italia dell’epoca fu gettata dalla cecità franco-inglese, a proposito dell’Etiopia (che pure fu una guerra ingiusta come tutte quelle coloniali nelle quali proprio Francia ed Inghilterra, però, erano le massime esperte). Un mortifero alleato, quello nazista, che non fu mai visto bene, anzi fu sempre profondamente disprezzato, dallo stesso Mussolini e dalla maggior parte dei fascisti, salvo alcuni imbecilli aderenti a circoli antisemiti, estranei al fascismo originario, che si erano intrufolati nella stampa e nelle organizzazioni del regime.

Alla luce della ricostruzione storica di cosa nel bene e nel male è stato il fascismo, accreditata e validata dalla più seria storiografia, la Meloni non avrebbe bisogno di fare alcuna abiura, salvo quella sulle artificiali leggi razziali che tra l’altro ha già fatto, né di eliminare dal simbolo la vecchia fiamma tricolore. Staremo a vedere, in occasione dell’annunciato congresso del prossimo anno, se sussistono ancora in Fratelli d’Italia componenti culturalmente attrezzate per impedire un ulteriore scivolone verso posizioni liberal-conservatrici, che con le radici dei padri ma anche con il conservatorismo nazionale, che oggi quel partito pretende di interpretare, nulla hanno a che vedere.

Oppure se prevarrà il vuoto, quel nulla che nella “Storia infinita”, la saga di Michael Ende, presa dai meloniani come riferimento simbolico, divora un poco alla volta il Regno di Fantàsia. Ci sarà, in quel caso, un Atréju pronto ad ergersi contro un, in apparenza, ineluttabile destino di dissoluzione per salvare l’imperatrice bambina?

NOTE

  • In merito rinviamo ad un recente nostro lavoro ossia L. Copertino “Stato e Sindacato – Dal Corporativismo fascista alla Costituzione antifascista – divergenze e convergenze” Il Cerchio, Rimini, 2022.
  • Il “dio” di Mazzini non era certo quello cattolico, bensì richiamava una concezione panteista della deità che si identificava con il Popolo. Ciononostante il fascismo finì per incontrare, in quanto anima storica della nazione, il Cattolicesimo, fino a giungere alla Conciliazione con la Chiesa, nonostante i molti mal di pancia dei fascisti anticlericali. Giuseppe Bottai, repubblicano e fascista di sinistra, ed altri fascisti, secondo alcuni lo stesso Mussolini tra il 1944-45, ritrovarono, per tale via, la fede cristiana, in questo aiutati anche dai critici apprezzamenti che Pio XI espresse nella Quadragesimo Anno (1931) all’esperimento corporativista in atto in Italia