La corte sedette e i libri furono aperti

di Danilo Quinto

Il dramma che ha colpito Ischia – rispetto al quale i politici si scambiano accuse l’un l’altro, incapaci come sono stati per decenni di prendere un solo provvedimento serio che evitasse ancora stragi e per impedire che un territorio vastissimo vivesse a perenne rischio e nell’illegalità – è la metafora del dramma di questa nostra Italia.

La natura si ribella alle azioni dell’uomo al pari dell’uomo che si ribella a Dio e vuole eliminarlo dalla sua vita, per sancire la sua libertà, per non sottomettersi alle sue leggi. Da creature care agli occhi di Dio, rinunciamo al Bene e ci comportiamo da dannati, immergendoci nell’abisso del male. Non solo nel percorso terreno, dove trascorriamo un tempo che equivale ad un soffio, ma per l’eternità.

Viviamo come zombie, mentre tutto crolla, tutto viene travolto dal fango. Insieme alle case, ai beni materiali, ai corpi delle persone, il fango sotterra le nostre anime. Le priva della dimensione trascendente, per consegnarle alle viscere più profonde della Terra. Sepolte già in vita. Con le nostre certezze materiali, con i nostri peccati, con la nostra tiepidezza, che sarà vomitata dalla bocca di Dio (Ap 3, 16), accettiamo, senza testimoniare la Verità, l’intero corpo di menzogne che viene dispensato da una gerarchia ecclesiastica che dalla metà del secolo scorso – infiltrata com’è da uomini che si prostrano al mondo, ai suoi idoli pagani e ai desideri della Massoneria – tradisce «Colui che fa nuove tutte le cose» (Ap 21, 5) e di un potere civile che in tutte le sue azioni vuole fare strame della Libertà, il bene supremo che Dio ha donato all’uomo.

Eppure, così scrive il profeta Daniele (7, 9-14): «Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente. Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui, mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano. La corte sedette e i libri furono aperti. Continuai a guardare a causa delle parole superbe che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare sul fuoco. Alle altre bestie fu tolto il potere e fu loro concesso di prolungare la vita fino a un termine stabilito di tempo. Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto».

I due libri che saranno aperti quando ognuno di noi esalerà l’ultimo respiro e sarà sottoposto al Giudizio particolare di Colui che ha potere, gloria e regno sui cieli e sulla terra, sono il Vangelo, nel quale leggeremo quanto avremmo dovuto fare nel corso della nostra vita e la coscienza, che ci presenterà quanto abbiamo fatto. Diceva san Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars, in un’omelia sulla parabola dell’amministratore infedele (Lc 16, 1-8): «Possiamo dire che l’intera condizione dell’uomo può essere racchiusa in queste tre parole: vivere, morire, essere giudicati. È questa una legge fissa e invariabile per ogni uomo. Nasciamo per morire, moriamo per essere giudicati, e tale giudizio deciderà della nostra felicità o della nostra infelicità eterna».

Se pensassimo a questo momento, che è quello principale della nostra vita, non ci ritroveremmo travolti dal fango delle nequizie, delle iniquità, delle tribolazioni, degli accadimenti vacui e inutili di questo mondo. Non assisteremmo inerti al crollo di tutto quello che ci circonda. Non inseguiremmo progetti che ci conducono alla perdizione. Non dormiremmo di fronte al male che dilaga e del quale siamo partecipi. Saremmo vigili. Sempre. Nei confronti di noi stessi e della realtà che viviamo. «Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare». (1Pt 5,8).

« (…) Quel giudizio», aggiunge il curato d’Ars,  «si svolgerà alla presenza di tre testimoni: il buon Dio che dovrà giudicare, il nostro buon angelo custode che mostrerà le buone opere che abbiamo fatto, e il demonio che manifesterà tutto ciò che abbiamo fatto di male in ogni istante della vita. Dalle loro testimonianze, il buon Dio ci giudicherà fissando la nostra sorte per tutta l’eternità. Ahimè! fratelli miei, quale deve essere mai il terrore di un povero cristiano che attende la sentenza del suo giudizio, e che, fra qualche minuto, si troverà all’inferno o nel cielo!».

La sentenza, quindi, riguarda l’inferno o il Cielo. O l’uno, o l’altro. Non vi saranno suppliche, preghiere, penitenze che potranno soccorrerci. «Non viviamo più come degli insensati», conclude il curato d’Ars, «poiché nel momento in cui meno ce lo aspettiamo, Gesù Cristo busserà alla nostra porta. Beato colui che non ha atteso fino a quel momento per prepararsi!».

Come prepararsi? Con quale animo affrontare gli assalti degli spiriti immondi? Scrive san Paolo, a conclusione della Lettera ai Filippesi: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (4, 8).

La limpidezza di queste parole indica una strada da seguire, con un’avvertenza: san Paolo non si riferisce al nostro agire, ma ai nostri pensieri. Per agire nel Bene, dobbiamo pensare il Bene. Quali devono essere i nostri sentimenti? Qual è il nostro Bene? È lo stesso san Paolo a indicarlo, nell’Inno a Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (2, 5-11).

La strada da seguire per non dannarci l’anima può essere percorsa solo attraverso la testimonianza della Verità – anche a costo di essere oggetto di scherno e di odio da parte di questa generazione perversa – e della preghiera. «State sempre lieti», scrive san Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi (5, 16-24), «pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!». San Luca (18, 1-8) riporta una parabola di Gesù: «C’era in una città un giudice che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un certo tempo egli non volle. Ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”. E il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede dulla terra?». Sant’Agostino commenta (Sermo 115): «Crediamo per pregare e se vogliamo che la fede con la quale preghiamo non venga meno, dobbiamo pregare. La fede fa germogliare la preghiera e la preghiera, in quanto da quella germogliata, attinge la fermezza della fede».

Solo così si combatte il grande mistero dell’iniquità e di apostasia – come lo chiama san Paolo (2 Ts 2, 3) e che Gesù predice (Mt 24, 12-13) – presente in questo mondo ed anche in molti uomini di Chiesa: perseverando con la preghiera e con la fede, nella certezza che Nostro Signore ha già vinto il male.

Sono rimaste poche copie del mio ultimo libro, Da servo di Pannella a figlio libero di Dio, che racconta buona parte della storia della mia vita. Se siete interessati, scrivete il Vostro indirizzo postale e la Vostra email a pasqualedanilo.quinto@gmail.com.