INDEBITAMENTO E NEOCOLONIALISMO: ALLA RADICE MEFISTOFELICA DELLE MIGRAZIONI – quarta ed ultima parte – di Luigi Copertino

INDEBITAMENTO E NEOCOLONIALISMO: ALLA RADICE MEFISTOFELICA DELLE MIGRAZIONI

quarta ed ultima parte

Thomas Sankara.

Thomas Sankara è uno dei personaggi più importanti della storia dell’Africa contemporanea. E’ considerato una sorta di Che Guevara africano. Divenne presidente dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, nel 1983, e con straordinaria lucidità e lungimiranza smascherò il piano egemonico dei poteri finanziari internazionali per ricolonizzare il continente africano mediante il debito. Ebbe il coraggio di denunciarlo apertamente durante l’assemblea dell’Organizzazione per l’Unità Africana in un discorso memorabile e impressionante per la sua attualità.

«Le origini del debito – affermò in quell’occasione – risalgono alle origini del colonialismo: quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. (…). Il debito di oggi è … il neocolonialismo, soltanto che i colonizzatori di oggi si sono trasformati in quelli che voi chiamate assistenti tecnici. (…). Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei finanziatori, che ci sono stati consigliati, raccomandati. (…). Noi ci siamo indebitati per 50, 60 anni e più, cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50 anni e oltre. Il debito nella sua forma attuale è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee, in modo che ognuno di noi diventi schiavo perenne di quelli che hanno avuto … la furbizia di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito: non è un problema morale. (…). Il debito non può essere rimborsato, prima di tutto perché se non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno: siamone pur certi. Invece, se paghiamo, noi moriremo: siamone ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno indebitato hanno giocato con noi come in un Casinò. Fino a che hanno guadagnato, non c’era nessun problema, ora che rischiano di perdere vogliono indietro tutti i soldi giocati. Ci dicono che abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, ci dicono che se non paghiamo ci sarebbe la crisi, e invece no. Hanno giocato con le regole del loro gioco, e possono anche perdere. Ma noi paesi africani dobbiamo stare uniti su questo punto, perché se il Burkina Faso sarà l’unico a rifiutarsi di sottostare a questo gioco, io non ci sarò alla prossima conferenza» (citato in Bifarini, pp. 116-117).

Purtroppo fu buon profeta, pagò il suo coraggio con la vita. Due mesi dopo quel discorso, il 15 ottobre 1987 venne assassinato, a soli 37 anni, da Blaise Compaoré, l’amico di una vita e suo successore appoggiato dalla Francia e dalle altre potenze internazionali.

Con Thomas Sankara il Burkina Faso, attraverso una politica saggiamente “autarchica”, di sostegno alla produzione nazionale ed ai consumi locali e di indipendenza dai poteri finanziari internazionali che prosperano sul commercio internazionale, conobbe una fase di crescita attenuando l’atavica condizione di miseria. Furono impiantate strade ed infrastrutture essenziali allo sviluppo economico, costruite centinaia di scuole ed ospedali, potenziato il sistema idrico per favorire l’agricoltura autoctona, costruita una rete di vaccinazione per l’infanzia e l’intera popolazione contro morbillo, rosolia e tifo. Le condizioni di vita del popolo registrarono notevoli miglioramenti in termini di alimentazione e di disponibilità delle risorse idriche. Dopo la sua morte, il Burkina Faso seguirà fedelmente il tracciato neoliberista – apertura indiscriminata al commercio internazionale, privatizzazioni, indebitamento estero – imposto dal Potere Finanziario Globale. Oggi il Burkina Faso è uno dei paesi più poveri del mondo.

Keynes, il sovranismo e la sinistra.

Come abbiamo detto, nel dopoguerra, nel periodo che gli economisti chiamano “Trentennio glorioso”, l’applicazione di politiche keynesiane consentì sia all’Occidente sia al Terzo Mondo uno una espansione economica mai prima conosciuta. Fu quello il periodo più florido della storia moderna. Il neo-liberismo, che subentrò, ha fatto dimenticare, tanto nell’Accademia quanto nei media, che lo Stato, storicamente, è stato il miglior garante del mercato perché ha corretto le sue inefficienze tanto economiche che sociali. La stigmatizzazione neoliberista dello Stato, quale fonte di tutte le inefficienze, e la deificazione del mercato non trovano alcun fondamento scientifico né empirico. Affinché il mercato possa funzionare è fondamentale che lo Stato svolga il suo ruolo di tutela dei cittadini più svantaggiati e di redistribuzione della ricchezza per contenere e ridurre la disuguaglianza sociale e gli scontri di classe. I quali, a dispetto dei marxisti, non portano a nulla, non portano al comunismo o al paradiso in terra, ma alla distruzione politica, economica e sociale con danno innanzitutto per i più deboli ed i più poveri.

Le ricette sovraniste – come quelle di Putin, della Le Pen, di Salvini – vanno nella direzione del recupero della sovranità statuale sui meccanismi economici e monetari, come prefigurata dal keynesismo. La sinistra cosmopolita, nella sua versione socialdemocratica, nel dopoguerra si impadronì del pensiero economico di un conservatore – che tale, e non un marxista, era Keynes – e della concezione interventista dello Stato – emersa dagli sviluppi storici dello Stato nazionale nel XX secolo, a partire dagli anni del primo dopoguerra e, per certi versi, sin dalla seconda metà del XIX secolo – per sostenere la costruzione di un Welfare nazionale in tutti gli Stati industrializzati. Ma la sinistra, proprio perché naturaliter globalista, nel momento epocale del passaggio dalla modernità caratterizzata dallo “statuale” alla postmodernità contrassegnata dal “mercatismo”, non poteva non abbandonare il keynesismo ed abbracciare il neoliberismo come ideologia mondialista di sostituzione del vecchio internazionalismo marxista. Il ritorno al keynesismo è oggi, invece, il cavallo di battaglia dei movimenti sovranisti, sorti nel punto di intersezione tra la “destra sociale” e la “sinistra nazionale”. Non a caso il meglio dell’intellighenzia della sinistra socialista sta passando, o almeno inizia a guardare con simpatia, al sovranismo.

Questo spiega lo scontro politico in atto in Europa. L’attuale modello dell’Unione Europea è il neoliberismo secondo la versione ordoliberale di matrice tedesca. Esso, già collaudato nei Paesi del Terzo Mondo, con le sue politiche di “austerity”, le privatizzazioni ed i tagli alla spesa pubblica,  impoverisce i cittadini privandoli delle prestazioni dello Stato sociale, la conquista più importante del secolo scorso.  In uno di quei rari documenti, prevalentemente ad uso interno della ristretta cerchia degli “iniziati” e che di tanto in tanto trapelano anche all’esterno, lo stesso Fondo Monetario Internazionale è stato costretto ad ammettere a denti stretti, tra le righe, l’erroneità delle sua ideologia economica. Come sottolinea Ilaria Bifarini, l’Istituzione di Washington ha riconosciuto, nei suoi studi appunto ad uso interno, che le misure di consolidamento del debito – quel che i media chiamano “austerità” – provocano un aumento del livello di disoccupazione e del tasso di disuguaglianza tra la popolazione. Per salvare sovranità e democrazia è oggi più che mai necessario cambiare rotta e riprendere il discorso da dove era stato lasciato nel momento della neo-rivoluzione reaganiano-thatcheriana, abbandonando Milton Friedman per tornare a guardare a Keynes pur con tutti gli aggiustamenti necessari che il cambiamento del secolo comporta.

Al fine di difendere il mercato da sé stesso – ossia conservarne la capacità di aumentare l’efficienza produttiva e di scambio ponendo, però, rimedio alle sue tragiche inefficienze etiche e sociali – è più che mai necessaria una presenza non meramente regolatrice ma anche interventista dello Stato, dell’Autorità Politica in genere. In altri termini al fallimentare slogan neoliberista “meno Stato, più mercato” occorre opporre lo slogan “Più Stato per garantire il mercato”.

«Secondo uno dei falsi miti più accreditati – spiega la Bifarini – … lo Stato rappresenterebbe un impedimento per il mercato. In realtà l’evidenza empirica rivela l’esatto contrario. Se analizziamo l’evoluzione della spesa pubblica nazionale, ci accorgiamo di come essa sia cresciuta in modo esponenziale a partire dal XX secolo (…). A fine Ottocento si assestava introno al 10%, nel 1920 raddoppiava, e dopo un ventennio risultava quadruplicata. (…) la dimensione del settore pubblico (cresce) … con l’espandersi del commercio (…). Tali risultanze, poco divulgate tra l’opinion pubblica e gli economisti stessi, contraddicono uno degli assiomi fondamentali (del neoliberismo) (…).Tuttavia, se una simile correlazione tra Stato e mercato risulta sbalorditiva per i “pensatori” del neoliberismo, la sua ragione è in realtà piuttosto intuitiva: i cittadini dei paesi più esposti al commercio necessitano di una maggiore presenza dello Stato, quale tutela dai rischi e dalle incertezze generate dal libero mercato. Attraverso politiche di assistenza alle fasce svantaggiate e impoverite (dal mercato) … lo Stato svolge un ruolo fondamentale nel gestire l’impatto della redistribuzione del reddito sul livello di disuguaglianza all’interno della popolazione e permette alle economie di beneficiare dell’apertura degli scambi» (pp. 167-169).

La presenza di un ruolo attivo, e non solo regolativo, dello Stato nel mercato è oltretutto importante proprio sotto il profilo delle possibilità di sviluppo delle nazioni. La storia – lo abbiamo già detto ma repetita juvant – attesta che la modernizzazione delle nazioni non ha mai seguito il paradigma mercatista del liberismo e che non esistono mercati nel senso moderno, ossia mercati capitalisti ed industriali, che non siano l’esito delle politiche dell’Autorità pubblica nel pieno possesso ed esercizio della propria sovranità politica, compresa quella monetaria.

L’Inghilterra ha avviato la Prima Rivoluzione Industriale non applicando i principi della fisiocrazia francese o i suggerimenti di Adam Smith ma attraverso un forte impulso dirigistico governativo sostenuto, certo a scopo speculativo ma questo è un altro discorso, dalla Banca d’Inghilterra e dalle conquiste coloniali di materie prime. Quindi, anche sotto questo ultimo profilo, con il sostegno statuale dato che gli eserciti moderni sono pubblici e non privati. Gli Stati Uniti d’America, nel XIX secolo, sono passati da colonie agricole inglesi a moderna nazione industrializzata mediante la politica di dirigismo e protezionismo. Nel XIX secolo, infatti, il protezionismo dirigista era chiamato “sistema americano”. Un economista tedesco a lungo vissuto in America, Friedrich List, lo fece conoscere e lo diffuse teoreticamente in Germania preparando l’humus culturale del dirigismo bismarchiano – un dirigismo non privo dei primi elementi storici di welfare – che sarà alla base del decollo industriale della Germania riunificata.

Tra i Paesi non europei che hanno seguito il dirigismo economico per modernizzarsi e sfuggire al destino di colonizzazione, che fu la sorte di quasi tutti i popoli extra-europei del mondo, il caso più importante è rappresentato dal Giappone che costretto, alla del fine XIX secolo, a suon di cannonate dagli Stati Uniti d’America e dalle altre potenze occidentali, ad aprirsi al commercio internazionale, avviò, sotto la ferma guida imperiale, un processo di modernizzazione che assunse dall’Occidente i modelli economici e la tecnologia industriale ma adattandoli al proprio contesto tradizionale e culturale. Furono, ad esempio, “industrializzati” gli antichi rapporti feudali: le grandi famiglie dell’aristocrazia nipponica, come i Kawasaki ed i Suzuki, si trasformarono in famiglie di industriali ed i loro servi da contadini in operai conservando il legame feudale, che li teneva uniti al padrone, nella forma del contratto di lavoro a vita che, se da un lato, limitava la loro libertà, dall’altro, li assicurava economicamente non potendo essere licenziati in nessun caso. Evitato un destino di sottomissione coloniale, il Giappone diventò una potenza di primo piano, come dimostrò la sonora sconfitta che esso inflisse alla Russia zarista nella guerra del 1905. Per questo fu accreditato nel club mondiale delle nazioni che contano che all’epoca erano soltanto quelle europee con la propaggine statunitense non ancora diventata mondialmente egemone. La Cina che, al contrario, non si modernizzò, diventò preda delle politiche coloniali occidentali.

«La storia dimostra – concorda con noi la Bifarini – come nessun paese avanzato abbia raggiunto la propria condizione di sviluppo seguendo l’approccio ortodosso al libero mercato indicato dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, ma solo attraverso una diffusa protezione industriale e il sostegno da parte dei governi nazionali. Il successo del Giappone, in particolare, è da ricondursi al ruolo chiave esercitato dallo Stato attraverso l’incentivo alla creazione delle industrie e delle infrastrutture nazionali e l’aumento dei dazi sulle importazioni per promuovere l’industria locale. Tali politiche hanno incentivato a tal punto lo sviluppo dell’industria cotoniera nipponica che nel 1914 arriva a soppiantare le esportazioni britanniche nel mercato asiatico. La burocrazia (si trattava, però, di una burocrazia imperiale educata nella via cavalleresca del Bushido, l’antico codice d’onore samurai, e quindi votata ad una mission nazionale, nda) si è trasformata in alleato della crescita del paese, rimuovendo gli ostacoli agli investimenti, come la tassazione eccessiva, i ritardi burocratici e le infrastrutture carenti. Il governo ha investito nei servizi sociali e nel sostegno alle aziende nazionali, attraverso tariffe protettive, svalutazioni monetarie, sovvenzioni e altri strumenti che favoriscono le politiche industriali e la formazione del capitale umano. Perché, infatti, un paese possa trarre vantaggio dalla globalizzazione occorre che prima abbia raggiunto una solidità del proprio assetto sociale e industriale, attraverso la tutela delle industrie nascenti e della stabilità interna. Secondo il premio Nobel per l’economia J. Stiglitz, l’Africa dovrebbe trarre preziosi insegnamenti dall’esperienza di sviluppo nipponica (…). Per farlo i governi africani … dovrebbero attuare politiche … che favoriscano la ristrutturazione delle economie nazionali (…). E’ attraverso le infrastrutture, le leggi e il sistema educativo … che un governo modella la struttura economica degli Stati. I paesi in via di sviluppo più attivi al mondo, ossia quelli dell’Asia orientale, hanno fatto esattamente questo, seguendo una rotta totalmente diversa dalle direttive neoliberiste del Washington Consensus; e, al contrario di queste ultime, le loro politiche hanno funzionato. I paesi africani dovrebbero ispirarsi a questi esempi di successo per avviare le loro politiche di sviluppo e … il Giappone può svolgere un ruolo chiave per l’Africa. E non solo per l’Africa … ma per l’Europa e l’Italia in particolare: seguire un modello economico di sviluppo che investa nella spesa pubblica e nel capitale umano, rifuggendo l’ossessione neoliberista dei “globocrati” di Bruxelles per la riduzione del debito e le politiche di austerity» (p. 173-174).

Necessità ed utilità del debito pubblico.

All’avvio ed al mantenimento delle condizioni della modernizzazione economica il debito pubblico è assolutamente necessario, sicché l’ideologia dominante che lo raffigura all’opinione pubblica come il “mostro” da abbattere risponde esclusivamente agli interessi dell’usurocrazia finanziaria mondiale che lucra, in termini di rendita improduttiva, sul lavoro dei popoli. L’usurocrazia finanziaria apolide, impadronitasi dei meccanismi sovrani della creazione dal nulla di denaro, spinge i popoli ad indebitarsi con i “mercati internazionali”. Per far questo ha convinto tutti che l’inflazione sia sempre e comunque un male e che, per evitare che l’Autorità politica abusi del potere sovrano di creazione monetaria ingenerando inflazione, la Banche centrali debbano essere indipendenti dagli Stati e rispondere soltanto al club finanziario internazionale garantendone gli interessi.

Il “debito pubblico” è sempre “credito privato”. Pertanto due sono le ipotesi sul campo. La prima è quella per la quale lo Stato abbia come creditori,  come è stato fino agli anni ’80 in un sistema nazionale sano, i cittadini che comprano il suo debito mediante il risparmio privato, rendendo così possibile allo Stato di finanziarsi ed al contempo di mettere detto risparmio in circolo ossia renderlo produttivo e non lasciarlo inoperoso. La seconda è quella per la quale creditrici dello Stato siano le banche d’affari globali ed i loro fondi esteri speculativi, che lo indebitano per aumentare il proprio profitto da rendita finanziaria speculativa vanificando, con il peso degli interessi sul debito, ogni sforzo di politica sociale o produttiva a beneficio dei cittadini.

Quando il debito pubblico è in mani sovrane esso è nient’altro che una partita di giro tra Stato e cittadini. Una partita di giro che, da un lato, consente la creazione ex nihilo di denaro per scopi sociali e, dall’altro, di ripartire la ricchezza della nazione tra le sue componenti, siano essi i singoli o i corpi intermedi associati.

«L’agenda neoliberista – ci dice ancora la Bifarini – si basa su due pietre miliari: l’aumento della concorrenza attraverso la deregolamentazione e l’apertura dei mercati – inclusi quelli finanziari – alla concorrenza estera; la riduzione del ruolo dello Stato, attraverso la privatizzazione dei beni pubblici e la limitazione della possibilità di incorrere in deficit fiscale e accumulare debito da parte del Governo. A partire dagli anni Ottanta questa dottrina economica … viene applicata a macchia di leopardo in tutto il mondo, a partire proprio dai paesi più poveri (…). La ricetta neoliberista prevede dei tetti al debito pubblico – di frequente stabiliti al 60% del Pil, come nel caso dell’Eurozona – da perseguire attraverso privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica, nonostante la teoria economica preveda scarse indicazioni riguardo al livello ottimale del debito pubblico. (…). Un piano scadenzato di riduzione del debito è valido … solo se il costo che il paese deve affrontare è sufficientemente basso; al contrario, non comporta alcun beneficio nel caso in cui i costi siano alti, poiché per abbattere il debito pubblico occorre alzare … la tassazione …oppure effettuare tagli alla spesa produttiva, o peggio ancora applicare entrambe queste misure. (…). Di fronte alla scelta tra convivere con … (il) debito pubblico, lasciando che sia la crescita del Pil a farlo diminuire, o destinare il surplus di bilancio al suo abbattimento, un governo con un sufficiente margine fiscale farà meglio a seguire la prima strada. Le politiche di austerity non solo … comportano costi per il welfare, ma danneggiano anche la domanda aggregata, aggravando così il problema della disoccupazione. E’ stato calcolato che in media un consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso di disuguaglianza. (…). Nonostante (ciò) il Fondo monetario internazionale continua a prescrivere ricette che includono l’austerity, senza alcun riguardo per (i) … poveri »

Il pretesto della corruzione. Il caso dello  Zimbabwe.

Alcuni esempi consentono di capire a fondo l’iniquità mefistofelica del meccanismo dell’indebitamento. L’Uganda spende annualmente 30 dollari pro capite per ripagare il debito ai creditori esteri mentre la spesa governativa per la sanità è di soli 3 dollari a persona. Il 33%per cento della spesa pubblica del Mozambico è destinata al “servizio del debito” ossia  a pagare il debito estero, mentre per l’istruzione pubblica resta soltanto il 7,9%. In molti Paesi africani l’alimentazione dipende ormai dalle importazioni perché non esiste più l’agricoltura locale di un tempo che garantiva la sussistenza. Nelle zone agricole sono spariti i piccoli appezzamenti dei contadini sostituiti dal latifondo coltivato ad un unico prodotto: quello che è richiesto dal mercato globale. Le risorse finanziarie, in valuta pregiata, ottenute dalle esportazioni servono tuttavia a pagare il debito, non allo sviluppo interno. Una pur leggera flessione delle esportazioni rende insolvibile lo Stato sul versante del suo indebitamento estero. I Paesi indebitati sono tenuti a ripagare i debiti con valuta pregiata, la cui unica fonte significativa di approvvigionamento consiste nella esportazione di materie prime. Il prezzo di queste è però dipendente dai “capricci” del mercato. Quando i prezzi sul mercato scendono i Paesi più indebitati si trovano strozzati dagli elevati interessi. L’infernale meccanismo li obbliga a restituire più volte il capitale ottenuto in prestito mentre la valuta pregiata, che devono introitare per far fronte al debito, costa sempre di più in rapporto al valore della loro moneta.

Il debito contratto costringe i Paesi dell’Africa subsahariana ad impiegare circa il 20% del loro prodotto lordo per il pagamento dei soli interessi, una cifra maggiore di quattro volte degli investimenti nel servizio sanitario interno. Il debito estero è un vero e proprio macigno che impedisce di impostare qualsivoglia politica di sviluppo. Un macigno che diventa ancora più pesante per via delle conseguenti politiche di austerità e dell’incapacità tecnica congiunta alla corruzione di molti governi nell’amministrare i prestiti, che spesso non vengono usati per aiutare la propria gente. E’ persino accaduto che si siano costruiti ospedali multipiano in zone desertiche oppure che il debito sia stato usato per acquistare armi.

La corruzione, l’incapacità amministrativa e tecnica non possono tuttavia essere una esimente per gli Usurai Globali, come la propaganda neoliberista pretende. L’indebitamento è sempre un arma nelle mani dei creditori che, così, possono decidere del destino di un popolo come meglio loro aggrada, secondo i propri interessi. Che la corruzione di alcuni governi o l’incapacità tecnica di altri sia soltanto un pretesto per legittimare la sopraffazione del debito è stato dimostrato dal comportamento delle Istituzione di Washington nei casi nei quali i fondi presi a prestito sono stati correttamente utilizzati. Come, ad esempio, nel caso dello Zimbabwe.

La Banca mondiale aveva concesso a questo Paese africano un prestito per un totale di 646 milioni di dollari. Il governo dello Zimbabwe amministrò con saggezza i fondi ottenuti, utilizzandoli per dare impulso alla propria economia. Mediante una protezione, intelligente e misurata, delle proprie industrie, lo Zimbabwe aveva conquistato l’autosufficienza alimentare ed aveva persino diversificato la produzione destinata all’esportazione piazzando i propri vini sul mercato europeo. Attraverso il controllo degli scambi ed un elevato livello di spesa pubblica a favore dell’istruzione e della sanità il Paese aveva avviato un decollo economico di tutto rilievo. I buoni risultati di questa politica economica aveva consentito allo Zimbabwe il pagamento puntuale del debito contratto senza chiedere dilazioni ed evitando i pesanti programmi di aggiustamento strutturale con le loro ricette di liberalizzazioni commerciale e finanziaria, di tagli alla spesa pubblica, di svalutazione monetaria ed aumento dei tassi di interesse, di deflazione salariale.

La puntualità dello Zimbabwe nell’onorare i debiti non fu affatto apprezzata dalla Banca mondiale che congelò un ulteriore prestito richiesto dal Paese. «Non volevano che lo Zimbabwe avesse successo adottando quella che era per loro la strategia di sviluppo sbagliata», ha spiegato Colin Stoneman, docente della York University. L’episodio dimostra che il vero obiettivo delle Istituzioni della Globalizzazione Finanziaria non è lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo ma soltanto l’applicazione di un paradigma economico, quello neoliberista, che contempla – dietro un velo moralistico di “preoccupazione umanitaria” – l’egemonia mondiale di chi crea e controlla il denaro. Il caso dello Zimbabwe insegna che ai creditori internazionali non interessano i rimborsi quanto riuscire a mantenere un predominio sui Paesi indebitati, siano essi del Terzo, del Secondo o del Primo Mondo. L’usurocrazia non opera per ragioni economiche ma, soprattutto, per ragioni ideologiche, dogmatiche, allo scopo di imporre il neoliberismo quale unico modello di sviluppo.

Un antico rimedio sempre efficace: il Giubileo

La Chiesa, lungo i secoli è sempre stata attenta al problema dell’indebitamento, e della sue tragiche conseguenze umane e sociali, quale espressione del mistero di iniquità che agisce nella storia. Dai Padri della Chiesa fino a Tommaso d’Aquino, passando per Agostino, sulla scorta delle parole evangeliche di Cristo, il prestito ad interesse è sempre stato visto come un male alla stregua della guerra, frutto dell’originario sviamento ontologico dell’uomo. Come la guerra, non eliminabile in assoluto nell’attuale condizione post-edenica dell’umanità, anche la pratica del prestito, nella prospettiva cristiana, deve essere controllata, circoscritta, limitata. Come la guerra così anche il prestito ad interesse è considerato un male ineliminabile a causa del peccato ma da mettere in quarantena attraverso norme e meccanismi che piuttosto lo costringano a funzionare con il massimo vantaggio del bene comune ed il minimo danno alla comunità.

In questo la Chiesa è erede della tradizione biblica del giubileo «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione del paese per tutti i suoi abitanti…In quest’anno del Giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo» (Levitico 25,10 – 25,13). Il Giubileo, mediante la redistribuzione delle terre, la remissione dei debiti e la liberazione di coloro che erano caduti in schiavitù per debiti, offriva a tutti la possibilità di un “nuovo inizio”, di un ristabilimento di più eque condizioni di partenza nelle relazioni sociali ed economiche. Sulla scorta dell’Antico Testamento, la remissione dei debiti ha trovato il suo universale sigillo finale nella preghiera sacerdotale del “Padre Nostro” insegnata da Gesù Cristo.

Fedele a questa millenaria tradizione, la Chiesa non ha mancato di far sentire la sua voce anche nella nostra epoca. Nel 1931 Pio XI condannava, nell’enciclica Quadragesimo Anno, l’“imperialismo internazionale del denaro”. Sulla scia di Pio XI, espressamente citato, nell’enciclica Populorum Progressio del 1967, Paolo VI auspicava un cambiamento delle politiche delle Istituzioni di Washington affinché «i Paesi in via di sviluppo non correranno più il rischio di vedersi sopraffatti dai debiti il cui soddisfacimento finisce con l’assorbire il meglio dei loro guadagni». Nell’enciclica Sollecitudo rei socialis, del 1987, Papa Wojtila denunciò che il meccanismo del finanziamento internazionale, anziché servire ad aiuto ai Paesi del Terzo Mondo, era diventato un cappio al collo dei popoli ad esso soggetti. Nella Centesimus annus, del 1991, ancora Giovanni Paolo II indicò chiaramente quale è il limite oltre il quale il prestito di denaro diventa usura internazionale: «È certamente lecito – scrisse Papa Wojtila – il principio che i debiti debbono essere pagati; non è lecito però chiedere o pretendere un pagamento quando questo verrebbe a imporre, di fatto, scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici». Nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente del 1994, sempre Papa Wojtila tornò sul problema e chiese ai cristiani di «… farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, a una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni». Nella Bolla di indizione dell’Anno Santo, la Incarnationis mysterium, Papa Giovanni Paolo II tornò a denunciare che: «Non poche Nazioni, specialmente quelle più povere, sono oppresse da un debito che ha assunto proporzioni tali da renderne praticamente impossibile il pagamento», dove il riferimento particolare ai popoli più poveri allargava l’orizzonte anche alle nazioni del Primo Mondo, segno che già in quel momento si andava delineando quel che, dopo la crisi del 2008, è palese a tutti ossia che il Potere Internazionale del Denaro non impone un dominio dei popoli ricchi sui popoli poveri quanto invece il dominio mondiale dei ceti capitalistici ovvero il dominio globale della Finanza Apolide ed Autoreferenziale su tutti i popoli del mondo. Come profeticamente annunciato, quale segno imminente dei Tempi Ultimi, in Apocalisse, 13 – 16,17 «Faceva sì che tutti … ricevessero un marchio … e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere quel marchio…».     

Quando, però, si parla di Potere Internazionale del Denaro è necessario aver chiara consapevolezza che non è possibile riconoscere a dette Istituzioni della Globalizzazione il ruolo di interlocutore moralmente e politicamente legittimo. Questa consapevolezza spesso manca oggi nella stessa Chiesa cattolica che continua a rivolgersi a quelle Istituzioni, create a tutela dei “mercati finanziari” e non certo dei popoli, nella speranza vana di indurne un cambiamento di paradigma e di comportamento.

In un recente il documento sulla finanza predatoria la Congregazione per la Dottrina della Fede ha indicato alcune vie risolutive. Tra esse il ripristino di normative regolatrici e “repressive” della finanza speculative sul modello del Glass Steagall Act, a suo tempo introdotto negli anni ’30 da Roosevelt,  o della legge bancaria italiana del 1936. Un limite, notevole, a nostro giudizio, lo si riscontra verso la fine del documento in questione, dal n. 32 in poi, dove parlando del debito pubblico non si fa alcun accenno al fatto che esso è determinato, in primis, dalla perdita da parte degli Stati della sovranità sulla moneta, che in una situazione di normalità non è creata dai mercati ma appunto dagli Stati, sicché quando, come avviene oggi, sono i mercati ad essere padroni dei meccanismi di creazione monetaria, è evidente che si rovesciano i rapporti naturali costringendo gli Stati a chiedere moneta agli “investitori” (rectius “speculatori”).Tuttavia, nonostante questa svista, il documento è ben impostato nella parte tecnica, dove è chiaramente riconoscibile il fondamentale contributo di un competente e valido economista quale Leonardo Becchetti. Ma ad una parte tecnica molto ben elaborata, corrisponde more solito, nella parte teologico-morale, un linguaggio, tipicamente postconciliare, troppo conciliante. Si parla di “comitati etici”, di “operatori finanziari responsabili”, di “finanza auto-responsabile”, che è come chiedere esercizi di virtù coniugale alla moglie fedifraga. Un linguaggio più anatemico – sul tipo di quello del catechismo di san Pio X (“defraudare la mercede agli operai è peccato che grida vendetta al cospetto di Dio”) o di quello di Pio XI (“funesto ed esecrabile imperialismo bancario o imperialismo internazionale del denaro” –  Quadragesimo Anno, 1931) non guasterebbe affatto. L’atteggiamento meno anatemizzante di un tempo non è per niente efficace, neanche verso i fedeli. Essere Madre non significa essere permissivi. Una buona Madre, per il bene dei suoi figli, deve essere giustamente esigente ed anche, se necessario, intransigente, pur considerando i limiti imposti dalla fragilità umana.

Tornare ad usare lo stile duro dell’anatema, come usava in altri ambiti in passato, iniziando dal chiamare i “mercati” con il nome più appropriato di “usurai mondiali” servirebbe a meglio rafforzare le difese anche spirituali dei cristiani. A chi obietta che, così, la Chiesa rischierebbe uno scontro epocale, mentre il linguaggio ora usato è più prudente e realistico, si deve ricordare da un lato che Essa ha per missione quella di contendere con il “mondo”, nella prospettiva di vincerlo con Colui che il “mondo” ha già vinto, e dall’altro lato che non è meno realistico prendere atto che chi controlla il denaro – salvo casi personali nei quali la Grazia potrebbe portare ad una trasformazione del cuore – non cederà mai con le buone il suo potere e che piuttosto, al fine di non perdere la faccia di fronte all’opinione pubblica, ricorrerebbe al mascheramento per nascondere il volto della propria iniquità e continuare impunemente a strozzare i popoli.

Ne abbiamo la riprova sperimentale. Alla fine del secolo scorso una rumorosa campagna propagandista, orchestrata da diverse “organizzazioni umanitarie” che fecero leva anche sulle denunce della Chiesa, nella prospettiva del proclamato “Giubileo del 2000”, indusse le Istituzioni Finanziarie Mondiali ad annunciare, nel 1995, un programma di alleggerimento, fino all’80% fu dichiarato, del debito estero dei Paesi indebitati. Il programma fu denominato Heavily indebted poor countries (HIPC). Ma in cosa consistette detto programma e quali infingimenti esso nascondeva lo spiega bene questo commento della rivista specializzata “Aggiornamenti Sociali” del settembre – ottobre 1999

«Le iniziative fin qui assunte – si legge nel commento – dalla comunità internazionale non si sono dimostrate capaci di interventi significativi per la riduzione se non cancellazione del debito. La più recente iniziativa lanciata nel 1996 è quella denominata HIPC (Heavily Indebted Poor Countries): promossa dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale si rivolge ai paesi più poveri con l’intento di rendere “sostenibile” il pagamento di una quota ridotta del debito contratto, coinvolgendo le tre principali categorie di creditori (creditori commerciali, essenzialmente le banche private, creditori bilaterali, vale a dire i paesi ricchi e creditori multilaterali, le istituzioni finanziarie internazionali, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in primo luogo). Essa coinvolge i c.d. Club di Parigi e Club di Londra, che riuniscono i creditori pubblici e privati e prevede un intervento di riduzione del debito fino all’80% per i paesi che abbiano un debito dichiarato insostenibile in base a due parametri: un rapporto costo annuale del debito estero/esportazioni superiore al 25% ed un rapporto valore totale del debito/esportazioni superiore al 250%. I limiti di questa pur importante iniziativa si sono tuttavia dimostrati troppo pesanti. Troppo ristretto è il numero dei paesi che possono partecipare all’iniziativa, avendo le caratteristiche per poter accedere alla riduzione del debito: sui 41 paesi più poveri solo 20 avrebbero le caratteristiche per accedere ma finora solo sei hanno potuto concretamente avviare le trattative e solo uno sta godendo delle agevolazioni. Troppo lungo è il tempo di attesa per poter avere concretamente delle agevolazioni: prima di poter usufruire della riduzione i paesi devono sostenere per un lungo tempo (fino a sei anni) un periodo di osservazione e controllo, durante il quale devono dimostrare di aver applicato con successo le politiche di risanamento concordate con il Fondo Monetario Internazionale e nel frattempo continua a crescere il peso del servizio del debito. Troppo ristretto è il concetto di sostenibilità del debito, definendo debito sostenibile un debito che di fatto richiede un impiego di risorse che comporta necessariamente una limitazione fortissima delle politiche sociali e di sviluppo. Infine lo stretto legame esistente tra la possibilità dell’ammissione all’intervento di riduzione del debito e le politiche di aggiustamento strutturale (PAS) richieste dal Fondo Monetario Internazionale: si tratta di programmi che di fatto intervengono sulle politiche interne di un paese, limitandone l’autonomia, decise in modo non trasparente e sotto controllo democratico, applicando ricette economiche che non tengono conto delle specificità dei singoli paesi, con effetti devastanti sulle politiche sociali, richiedendosi tagli consistenti della spesa pubblica: divengono necessari il ridimensionamento dei programmi di istruzione, di sanità, licenziamenti nel settore pubblico, abbandono di investimenti, ecc. Il debito diventa teoricamente sostenibile dal punto di vista finanziario, ma si compromette il futuro del paese; i piani di aggiustamento strutturale non dovrebbero avere una dimensione pienamente finanziaria, ma tener conto che politiche di miglioramento del livello di vita della popolazione, sotto il profilo sanitario, dell’alimentazione e dell’istruzione e politiche di promozione della piccola imprenditorialità sono risorse per il futuro che consentendo lo sviluppo dell’economia sia pure nel lungo periodo diventano presupposti per un reale risanamento delle economie dei paesi poveri. Il limitato successo conseguito finora dallo strumento HIPC è riconosciuto del resto dalle stesse istituzioni finanziarie internazionali: in un recente rapporto Banca Mondiale e FMI riconoscono che “i pagamenti per il servizio del debito dopo aver ricevuto l’assistenza HIPC non sono significativamente differenti da quelli in corso nel periodo anteriore all’ammissione all’intervento”. L’intervento finora programmato porterà ad una riduzione del servizio del debito di soli 200 milioni di dollari per anno, vale a dire l’1% di quanto pagano ogni anno per il servizio del debito i 93 paesi più povero ed indebitati. Il rapporto mette anche in luce come stiano peggiorando le condizioni dei paesi più poveri sotto un altro profilo: nel 1994 i paesi HIPC hanno ricevuto nuovi prestiti per 8,3 miliardi di dollari, restituendo 7 miliardi di dollari, avendo quindi un credito aggiuntivo di 1,3 miliardi di dollari oltre ad aiuti per 10 miliardi di dollari; nel 1997 i nuovi prestiti assommano a 8,7 miliardi di dollari, a fronte di pagamenti per il debito di 8,2 miliardi di dollari, con una perdita di 200 milioni di dollari, da sottrarre agli aiuti ricevuti per 7,6 miliardi di dollari: in sostanza in tre anni il rapporto di dare ed avere tra paesi poveri e paesi ricchi è peggiorato del 34%».

Chiunque abbia mai avuto a che fare con la propria banca onde concordare con essa condizioni di maggior sostenibilità di un mutuo sa benissimo come la banca, sempre così disponibile quando si tratta di concedere un prestito, diventa all’improvviso restia se non dura nell’opporsi a qualsivoglia ristrutturazione del debito che non si risolvi, in sostanza, in un mero maquillage dell’operazione iniziale, senza effettive rinunce dalla parte del creditore.

Quindi con il potere finanziario non c’è altra alternativa che l’uso della forza repressiva. Una forza che solo gli Stati, concertando tra loro mezzi e modalità, possono efficacemente esercitare.

L’era oscura dell’umanità

E’ iniziata un’era oscura per tutti i popoli del mondo, l’era dell’indebitamento globale.

Il FMI dal 1987 ha ricevuto dai Paesi africani 2,4 miliardi di dollari in più di quanto ha effettivamente dato agli stessi Paesi. Nel solo 1997 le istituzioni finanziarie internazionali hanno incassato 272 miliardi di dollari in interessi e rate di ammortamento del debito estero. Le condizioni alle quali sono concessi i prestiti –  altissimi tassi di interesse e mancanza di diritti per il debitore – se praticate da una qualsiasi banca all’interno degli Stati del Primo Mondo sarebbero immediatamente dichiarati in sede giudiziaria di  carattere usuraio. Generalmente i tassi di interesse che sono applicati ai Paesi poveri sono almeno quattro volte superiori a quelli accordati ai Paesi occidentali. La giustificazione avanzata è nella minore solvibilità e nel maggior rischio nel prestare ai Paesi del Terzo Mondo. In realtà, se davvero fossero queste le giustificazioni, i prestatori internazionali non dovrebbero neanche pensare di far prestiti il cui rimborso, da parte di economie che non hanno la possibilità di sostenere un onere così rilevante, è sicuramente inattendibile. Chi mai presterebbero ad uno spiantato il proprio denaro? Pertanto le motivazioni devono essere cercate altrove ed esattamente nella volontà delle Istituzioni della Finanza Globale di estendere su scala mondiale un dominio attraverso la creazione ed il controllo del denaro. Un dominio che – come già osservato – con la crisi del 2008 abbiamo iniziato a vedere all’opera anche sulla pelle dei popoli occidentali, sicché non possiamo continuare, come in genere fanno i cosiddetti “terzomondisti”, a trattare del problema alla stregua di una egemonia dei Paesi ricchi su quelli poveri. Qui si tratta dell’egemonia mondiale del capitalismo finanziario sull’intero pianeta. Alla distruzione delle economie sottoposte alla austerità da indebitamento, il Potere Mondiale del Denaro fa fronte con il meccanismo di nuovi prestiti per rimborsare prestiti precedenti, in un ininterrotto ciclo di indebitamento perpetuo, reso possibile dal fatto che governi e popoli hanno ceduto la propria sovranità monetaria, ossia il controllo delle procedure di creazione ex nihilo del denaro, alle Istituzioni della Globalizzazione.

Allo scopo di rientrare nei parametri del Trattato di Maastricht, il governo italiano dell’epoca, guidato dalla sinistra di Romano Prodi, nel 1999 impose agli italiani una manovra di bilancio “lacrime e sangue”, un sacrificio di 60.000 miliardi delle vecchie lire. Dopo quasi vent’anni è possibile dire che quello fu un sacrificio per incaprettare la nazione secondo i paradigmi dell’usurocrazia transnazionale. L’Italia, come qualsiasi Stato occidentale, vedrebbe andare in frantumi il sistema di welfare, o quel che ne rimane, costruito nel suo passato da intere generazioni con il proprio duro lavoro, se dovesse affrontare ogni anno una manovra economica di queste dimensioni, con aumenti della pressione fiscale, licenziamenti massicci nel settore pubblico e tagli drammatici della spesa sanitaria, educativa ed assistenziale. Ebbene questo è esattamente lo scenario che gli Organismi di Washington impongono da decenni ai Paesi del Terzo Mondo.

Nel 1980 il debito estero dei paesi in via di sviluppo assommava a 658 miliardi di dollari Usa, nel 1990 era salito a 1.539 miliardi di dollari ed oggi si calcola che il debito abbia raggiunto la somma di 2.200 miliardi di dollari, vale a dire circa il doppio del prodotto interno lordo dell’Italia. La dinamica in crescendo delle cifre del debito internazionale sono la spia dell’allargarsi di profonde disparità non solo tra i singoli Paesi del mondo ma anche tra l’élite globale ed il resto dell’umanità. I processi di globalizzazione, commerciale e finanziaria, non stanno affatto portando ad una crescita più equilibrata per tuti. Le promesse dei globalisti si stanno rivelando false nello stile del loro ispiratore, colui dal quale in Gv. 8,44 ci è stato raccomandato di guardarci.

Oltre 80 paesi hanno redditi pro-capite più bassi di quelli che avevano dieci anni fa, una famiglia media africana consuma oggi il 20% in meno rispetto a 25 anni fa. Il divario di reddito tra il quinto più ricco della popolazione mondiale ed il quinto più povero si sta accrescendo spaventosamente. Nel 1960 era di 30 a 1, nel 1997 era già al 74 a 1, oggi è al 95 a 1. Cresce anche la concentrazione della ricchezza. I 200 personaggi più ricchi al mondo hanno più che raddoppiato il proprio patrimonio negli ultimi anni. Essi, con oltre 1.000 miliardi di dollari USA, posseggono un patrimonio pari al reddito del 41% della popolazione mondiale. I paesi OCSE con il 19% della popolazione globale controllano il 71% del commercio globale di beni e servizi, il 58% degli investimenti diretti esteri. La globalizzazione ha creato uno scenario nel quale, mediante la rete transnazionale, soggetti privati contano più di singoli Stati e nel quale l’esasperata logica della competizione globale genera situazioni di instabilità finanziaria, scontri commerciali, rapporti di egemonia, violazione dei diritti dei popoli, che sono le premesse per le guerre del futuro. O per la Guerra del Futuro.

L’Anomos proprio a questo mira, alla distruzione dell’Opera Magna della Creazione perché essa riflette la Bellezza e la Bontà del Creatore.

Luigi Copertino

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