IL PRINCIPIO PAZIENZA parte 1

dal blog di  Costanza Miriano

Da questo segno li riconoscerete,dalla rovina e dal buio che portano;
da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone.

(G.K. Chesterton)

Andreas Hofer

Alcuni anni fa una nota soubrette confessò d’aver abortito. Il suo compagno, ricco rampollo di un magnate cinematografico, non aveva accolto con entusiasmo, diciamo così, la notizia della gravidanza. Tanto che il suo primo pensiero era stato: come avrebbero fatto ora, con un neonato in fasce, ad andare in barca? Il piacere balneare finì per avere la meglio sugli obblighi della paternità e così i due, di comune accordo, si decisero per l’aborto.

Si staglia in negativo, in questa amara vicenda, l’immagine di una figura maschile che, esatto rovesciamento dell’Ulisse omerico, nega riconoscimento all’essere che ha contribuito a generare nella carne. Un uomo che lascia naufragare il figlio, simbolicamente prima ancora che materialmente, anziché abbandonare l’imbarcazione per accingersi a soccorrerlo. Se ne sbarazza – con disinteresse, almeno apparentemente – invece di sollevarlo, traendolo in salvo, dal deserto d’acqua dove la vita umana non può mettere radici.

Ho spesso pensato, nei giorni immediatamente successivi alla marcia per la vita di Roma, a cosa potesse aver spinto questo agiato erede, cui certo non mancavano i mezzi materiali, a rifiutare in piena coscienza di diventare padre. La semplice combinazione del cinismo e della frivolezza? O forse qualcosa di più profondo, che lo ha privato, lui per primo, di ciò che è autenticamente umano?

Una riflessione che mi porta lontano e finisce per rafforzare in me una convinzione coltivata da tempo, cioè che il destino di una vaterlose Gesellschaft (società senza padri) sia di diventare necessariamente una kinderlose Gesellschaft (società senza figli).

Pedagogia della sterilizzazione esistenziale e massificazione

Sembra vigere, nel nostro mondo, un imperativo categorico: evitare, fin dalla più tenera età, ogni rischio, ogni ferita anche minima, qualunque sforzo; per non parlare degli accenni al lato più tragico e oscuro dell’esistenza. Si pensa che così gli uomini crescano meglio, più sani. In realtà forse li si priva di una componente essenziale della loro umanità. Facendoli crescere in un ambiente che sa più di ospedale che di scuola si rischia solo di farli solo avvizzire precocemente.

Il tipo umano prodotto da questa pedagogia della sterilizzazione esistenziale, che rifiuta ogni strada in salita preferendo chiedere asilo alla comodità liquida e informe delle acque, è stato ben descritto da Josè Ortega y Gasset in celebri pagine della Ribellione delle masse. Ortega lo chiama «signorino soddisfatto», «bimbo viziato», «l’erede che si comporta esclusivamente come erede». Viziare, dice Ortega, «equivale a non frenare i desideri, a dare a un essere l’impressione che tutto gli è permesso e nulla è obbligato».

La comparsa del «signorino soddisfatto», esemplare più rappresentativo di «uomo-massa», è l’anticamera della pre-civiltà. Questo tipo d’uomo, per nulla incline ad «ascoltare istanze esterne superiori a lui», presto o tardi si tramuta infatti nel “neo-barbaro” odierno, che vive nell’intricatissima civiltà tecnica e giuridica che lo ospita alla maniera di un selvaggio che, nato e cresciuto nella foresta, ne gode i frutti – vale a dire i manufatti tecnici, le norme giuridiche, il patrimonio di morale e saggezza, e così via – come se questi scaturissero per generazione spontanea. Come se fossero frutti degli alberi, a portata della mano che altro non deve fare se non coglierli.

L’uomo-massa, affacciatosi alla vita alla maniera del «figlio di famiglia» al quale «tutto è permesso», è convinto di poter fare in società tutto ciò che gli aggrada, come se si trovasse nella propria cerchia familiare (è noto che l’ambiente familiare, osserva Ortega, è una riproduzione soft e artificiale di quello reale: al suo interno si tollerano molti atti che in società, in pubblico, verrebbero sanzionati se non con durezza quantomeno con assai minore indulgenza). Avanza e si impone, ad ogni livello della società, la tipica pretesa del «bimbo viziato»: ereditare senza impegno le comodità, la sicurezza, i vantaggi della civiltà, considerati come “prodotti” acquisiti una volta per tutte e senza sforzo alcuno.

Ogni conquista della civiltà nasce però non dall’istintualità ma dalla progettualità. E ciò è possibile solo in presenza della capacità di contenere le pulsioni immediate, quando si è in grado di differire la soddisfazione immediata di un bisogno.
Senso del limite, contenimento, autolimitazione, autocontrollo. Sono, questi, i contrassegni della personalità adulta e matura. L’incapacità di dilazionare un soddisfacimento immediato, strillare per ogni capriccio è invece l’atteggiamento tipico del poppante o dell’eterno adolescente, cioè di colui che ancora non ha terminato di adolescere, di crescere, laddove “adulto” deriva dal participio passato di adolescere, ad indicare l’individuo in cui ha trovato compimento il processo di crescita e maturazione.

Virilità o virilismo?

Luigi Zoja, nel suo Il gesto di Ettore, ricorda che la genesi della società umana – reale e non artificiale – coincide col momento in cui l’uomo diviene in grado di comporre in equilibrio il polo del maschio (la parte aggressivo-istintuale che l’uomo condivide col mondo animale) con il polo del padre, la facoltà raziocinante, progettuale e autolimitante, l’unica capace di portare a domesticazione l’istinto predatorio dei bruti.
Ciò si mostra con particolare evidenza, fa notare Zoja, se guardiamo alle figure mitiche che hanno plasmato l’immaginario collettivo occidentale.
Prendiamo Enea, che fugge da Troia in fiamme caricandosi il padre Anchise in spalla e portando con sé il figlio Ascanio, quando l’istinto e l’onore gli imporrebbero invece di combattere fino alla morte.
La fuga di Enea non ha nulla della vigliaccheria. Richiede anzi notevole fortezza. Essa è piuttosto il simbolo della pazienza, della prudenza paterna in grado di differire il soddisfacimento immediato dell’istinto di aggressività. Solo così Enea può proteggere la vita altrui sottraendo la propria famiglia dalla rovina e da una morte sicura.

Enea è ben diverso da Achille, uomo dell’ira, non dell’impegno civile. Eroe guerriero, feroce e prepotente, simbolo del maschio aggressivo che vive per l’ebbrezza dell’istante, per la gloria, per la fama e l’istinto. Questo è Achille, personificazione della condizione antipaterna e precivile dell’orda anonima di maschi in lotta tra di loro per le donne, agiti da un’individualità disordinata e immatura, preda degli istinti belluini.
Di questo brulicare di pulsioni nei poemi omerici sono simbolo i Proci. Nemici della figura paterna personificata da Ulisse – omnia illico, “tutto subito”, è un motto che loro ben si adatta – che evoca invece la ragione paziente, il calcolo progettuale, il trattenimento e la responsabilità.
Achille, eroe arcaico, si atteggia come fosse sempre in battaglia, unico rumore che gli sia noto. Perciò strepita orgogliosamente, grida il proprio nome con fare provocatorio per chiamare l’avversario allo scontro, porta scudi scintillanti ed elmi vistosi per impressionare il nemico. Si innalza alla maniera di certi maschi animali, che si gonfiano prima del duello per mostrarsi alla vista. La sua fama deve essere costantemente riconosciuta perché il suo “ego” è tanto fragile da non poter sopravvivere senza pubblico attestato.
Come Enea, Ulisse è piuttosto un Achille pacificato. Non senza un duro confronto con l’”avversario interiore” – scontro raffigurato dal lungo e periglioso vagare attraverso le insidiose liquidità marine – l’Odisseo è riuscito a equilibrare le spinte aggressive e istintuali col raziocinio. In lui il pensiero non è più pulsione primordiale ma, prima di tutto, autodisciplina. Perciò può essere trattenuto.

I due, Achille ed Ulisse, non potrebbero essere più distanti. Achille è la personificazione del virilismo. Violento e impaziente, il suo agire è impulsivo. Ulisse è la personificazione della virilità. Forte e paziente, sa attendere il momento più propizio per agire.
È questo sapersi con-tenere a renderlo capace di donare con generosità la propria vita per far crescere quella altrui, cosa inconcepibile per il narcisismo individualistico e immaturo simboleggiato dai Proci e da Achille. L’ascesa della figura del padre generoso capace di sacrificarsi per i bambini fu una conquista decisiva in un mondo come quello classico dove il genitore aveva più che altro diritti verso i figli, non doveri (in generale l’infanzia godeva allora di scarsissima considerazione, basti pensare che il greco nèpios sta sia per “bambino” che per “sciocco”).
Psicologicamente parlando, il “signorino soddisfatto” è l’uomo che resterà sempre maschio, mai diventerà padre. Rimarrà uno dei Proci, l’orda anonima di maschi in balia dei propri istinti incontrollati. Non diventerà Ulisse, l’uomo che abbandona la casa per combattere e poi combatte per ritornarvi.

Rivoluzione senza emancipazione

La figura del padre indica la verticalità del rapporto tra le generazioni, ma anche l’idea di una verticalità morale. Implicitamente le figure paterne di Enea e Ulisse comunicano a ogni uomo di ogni tempo l’esistenza di un mondo valoriale superiore al proprio “io” individuale. Difatti è ad Enea, alla disciplina interiore, che Virgilio assegna la potestà fondativa. A un padre è affidato il compito più alto: dover essere colui che getta le basi dell’impresa che porterà alla fondazione della grande civiltà romana.

Così si vollero vedere i romani, e prima di loro i greci, nei loro spiriti più alti. Miti, i loro, ancor oggi attuali perché senza tempo, immortale, è il messaggio trasmesso. Oggi la cultura dominante ci spinge invece verso il ritorno ai Proci, ai centauri, alle figure del maschile orgiastico, istintuale e aggressivo. Ci viene proposta come modello privato, in quanto individui, la regressione alla condizione precivile dell’orda anonima e indistinta, senza radici. Così abbiamo il contrasto verso le virtù del padre, la lotta senza quartiere a ogni ideale di sacrificio, disciplina, ascesi, abnegazione, rinuncia.
Si capisce quindi che la diffusione generalizzata dell’erotismo, preludio di una rivoluzione senza emancipazione, non può essere che la via maestra verso l’uomo-massa prefigurato da Ortega. Certo non appare strano che al permissivismo di massa si affianchi un modello pubblico all’insegna della progressiva statificazione della vita sociale, con uno stato sempre più invasivo e i suoi “corsi di educazione sessuale” per “scimmioni evoluti”.
La società senza padre in questo modo si coniuga con la proposta tecnocratico-ludica del «caosmos» (caos nel privato e cosmos nel pubblico). Lasciando che il “privato” sguazzi in ogni genere di “libertà trasgressiva” (aborto libero, droga libera, gioco libero e così via) si fomenta il caos nella società di modo che, una volta “liquefatta”, non rimanga che una massa informe di individui isolati incapace di opporre resistenza al cosmos “pubblico” retto da agglomerazioni anonime e collettività ipertrofiche.

Schiavitù senza padroni

Il «caosmos» vive della contemporanea presenza di due stati contraddittori: lo stato di selvatichezza e lo stato di barbarie. Lo stato selvatico, ha scritto Ernest Hello, è caratterizzato dal predominio della fantasia dell’individuo sulla società, è la licenza dell’individuo contro la comunità. Nello stato barbarico, al contrario, a predominare è la fantasia della società sull’individuo, è la schiavitù della comunità ai danni dell’individuo.
La selvatichezza, che dispensa l’individuo da ogni obbligo verso la società, si caratterizza in particolar modo per la licenza (negazione del diritto sociale). Più forte qui è l’individuo che opprime l’individuo più debole. La barbarie, che dispensa la società da ogni obbligo verso l’individuo, si caratterizza invece per la schiavitù (negazione del diritto individuale). Più forte qui è la comunità che schiaccia la persona.

Questa schizofrenica lega tra selvatichezza e barbarie pare essersi saldata nella società di oggi, caratterizzata dall’estensione massima dell’idea di mercato e dall’annichilimento della persona umana. Augusto Del Noce vi ha visto la realizzazione della «società economica pura», nella quale ogni realtà, anche le idee e i princìpi morali, è soggetta al consumo. In essa si afferma un totale egocentrismo; totale perché tutto, a cominciare dai rapporti con gli altri, acquista valore solo nella misura in cui può diventare strumento per l’affermazione e il potenziamento dell’io.
La copula tra consumismo e permissivismo, nella visione di Del Noce, genera la «reciproca strumentalizzazione», una «universalizzazione del­la servitù senza un padrone palese». Si tratta della negazione più completa dell’«eterno nell’uomo», cui conseguono il rigetto della comunanza tra gli uomini attraverso fini sopraindividuali, il rifiuto dell’idea di sacrificio rispetto a una realtà superiore e, di conseguenza, l’affermazione del desiderio come unità di misura universale.
Laddove si eclissa la figura del padre inizia ad avverarsi dunque la profezia chestertoniana di un mondo popolato «da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone».

continua…