Il dovere della bellezza

di Roberto PECCHIOLI

In una calda mattina di maggio, un uomo cammina verso la stazione ferroviaria. Un breve viaggio in treno verso la periferia, un atto quotidiano compiuto migliaia di volte per lavoro. Stavolta l’uomo viaggia per svago e si guarda in giro. Nonostante il sole, la città gli appare imbruttita. Non è la solita incuria, la sporcizia o il degrado progressivo dell’arredo urbano. Le vie, i palazzi municipali sono sfigurati, oltreché dai soliti ghirigori e dai graffiti senza senso di mille Bansky privi di talento e di vergogna, da centinaia di scritte multicolori che invadono edifici e strade. Insulti tra le tifoserie calcistiche cittadine.

Accanto alla stazione, un imponente muraglione grigio di contenimento del torrente interrato. Il tocco estetico dovrebbe essere l’acqua (fetida) che scende tra centinaia di mattoncini quadrati a sbalzo, altrettanto grigi. Più in là, sul viale che conduce al mare, torreggia un orrore architettonico di grandi dimensioni e straordinaria incongruenza con il contesto. Di fronte, una nuova scultura di difficile interpretazione per i semplici. L’uomo sale sul treno suburbano, comodo e persino bello, ma le fiancate e i vetri sono state scempiate dai forzati delle bombolette spray. Macchie di mille colori, informi e prive di senso, a meno che l’ignoranza impedisca di cogliere chissà quali messaggi.

Il potere della bruttezza è diventato dittatura. Per una volta attento al paesaggio familiare che conosce da sempre, l’uomo prende atto che il brutto, l’informe, il deforme si sono impadroniti del paesaggio urbano e fanno breccia nel suo animo. Intristito, mette mano al giornale e constata la povertà di linguaggio, il lessico limitato, la superficialità, la sintesi sbrigativa. Il brutto domina anche la parola scritta; i messaggi della comunicazione puntano sull’attimo, un urlo sboccato che tenta di catturare per un istante l’attenzione di un pubblico distratto a cui si vendono prodotti, idee e stili di vita.

Il giorno prima lo stesso uomo visitava una mostra di pittura. Una nuova doccia gelata, un’altra indigestione di macchie. Dovunque, il brutto si impone come cifra e simbolo dell’epoca, nell’indifferenza di un pubblico disabituato, diseducato, narcotizzato dai messaggi di critici menzogneri. La bruttezza ha conquistato la pubblicità: sempre corriva, ha abbandonato le famiglie da Mulino Bianco e il richiamo sessuale immediato per propagandare, insieme con la forma-merce, il meticciato, il green, il nomadismo dell’uomo sradicato, precario della vita cui è ingiunto di essere felice nonostante non abbia e non sia nulla.

La Via Crucis continua: l’uomo comincia a osservare gli altri viaggiatori. Il chiacchiericcio di ieri è sostituito dalla concentrazione sullo schermo dello smartphone. Chi parla al telefono, lo fa a voce alta senza remore: nessuna riservatezza, il linguaggio è elementare e il turpiloquio generalizzato. L’abbigliamento combina sciatteria, ostentazione, volgarità e bruttezza. Conta che stracci più o meno costosi siano firmati, come si dice, o che magliette e camicie abbiano stampate scritte nel globish di massa, l’anglo grugnito globalizzato. I pantaloni escono dalla fabbrica già sdruciti e strappati. Finto minimalismo, autentico festival della trascuratezza elevato a modo di vita. Povere le nostre mamme, che con pochi mezzi rammendavano gli abiti laceri per farci fare bella figura, come allora si diceva.

Visibilmente, la maggioranza, senza distinzione di censo e di età, veste allo stesso modo. Unica differenza, il marchio e il prezzo. L’aspetto della gente è così livellato che se ci attenessimo all’abbigliamento, sarebbe difficile distinguere tra classi alte e basse, o meglio, tra plebe ricca e povera (Nicolàs Gòmez Dàvila).

Plebe, appunto, adusa al deforme e all’informe, al punto di non accorgersi di vivere nel trionfo del brutto. L’idiota, il principe Myshkin di Dostoevskij esclamò: la bellezza salverà il mondo. Se è vero, la bruttezza lo rovinerà e forse ci è già riuscita. La bellezza deve addirittura essere salvata dall’estinzione, dalla crassa indifferenza di un’epoca e di un pensiero dominante in cui vale solo l’utile, ciò che serve immediatamente per fare denaro o svolgere una funzione. Difendere, mantenere, rivendicare la bellezza diventa un dovere morale, un’impresa da eroi fuori tempo.

Parafrasando Orwell, per il quale in tempi di menzogna universale dire la verità è un atto rivoluzionario, proclamare la bellezza in un epoca di brutture è un gesto rivoluzionario. La ribellione in nome dell’estetica. Al di là delle mode e della cura maniacale del corpo- botox, trucchi pesanti, la mania regressiva neo tribale di tatuaggi generalmente privi di significato, talora uno sfregio alla naturale bellezza dei corpi- la folla solitaria dà un’impressione di incuria, trascuratezza, disordine interiore prima che esteriore. Bruttezza dell’epoca riflessa in sguardi vuoti, posture volgari, interfaccia del brutto che ci circonda.

Che cosa aspettarsi da generazioni che la scuola- il potere – ha modellato a immagine e somiglianza del mediocre e dell’identico, uguali in basso, senza ordine interiore, privati di modelli positivi e di riferimenti etici? L’uomo è un essere mimetico: imita la bellezza se gli viene proposta come modello, ma anche il suo contrario. Nel mondo capovolto il brutto è al potere e il deforme è sul trono. La responsabilità è dello spirito del tempo, lo zeitgeist, che non nasce da solo, è l’espressione del gusto, della volontà, degli interessi della classe dominante, la post borghesia che ha mandato al potere non la fantasia invocata nel Sessantotto, ma l’ignoranza scaltra dei bottegai senz’anima, il regno dell’anodino, del brutto, del seriale, e insieme del bizzarro e del capriccioso.

La bellezza, tuttavia, resta, come aspirazione dell’essere umano, speranza, tensione verso l’alto che nessun materialismo, nessuna pratica da contabili può scacciare. Alla fine tornerà, attraverso l’esperienza, lo stupore della bellezza, la vita dello spirito, lo sguardo estetico ed estatico. Il trionfo globale della bruttezza è un fenomeno che nessuno tratta come la catastrofe esistenziale che è. L’argomento non risveglia coscienze, non suscita collera né proteste. Tutt’al più una benevola commiserazione da parte di chi ha sempre questioni più importanti di cui occuparsi. Eppure si tratta di un fenomeno che nessuna epoca aveva vissuto con questa estensione: la sistematica distruzione della bellezza.

Ci sono sempre stati periodi più sterili di altri. Pensiamo alla fine dell’impero romano e alla decadenza prima della vigorosa rinascita benedettina, l’edificazione delle meraviglie romaniche e gotiche, ma anche la ripresa dell’agricoltura, dell’artigianato e delle scienze, sospinta dal recupero dei testi antichi e dal desiderio di essere all’altezza degli esempi del passato. Sulle spalle di giganti, seppero creare in ogni campo, arte, cultura, sapienza, bellezza. Mai era accaduto che un tempo e una civilizzazione, la nostra, sostituisse l’arte con la non-arte, ovvero perseguisse il brutto anziché il bello. Addirittura, esiste una corrente che si definisce, con onestà espressiva (e confusione mentale) “non arte”.  I suoi esponenti evitano di definirsi “non artisti”: tirano quattro paghe per il lesso come i manzoniani fustigati dal Carducci.

Claes Oldenburg teorizza: “un’opera è fatta per essere brutta, repellente, senza alcun significato per lo spirito e i sensi. Le opere non sono fatte per essere belle, ma perché, guardandole, non si capisca che cosa rappresentano e venga voglia di strapparle e passare via correndo. “. Obiettivo pienamente raggiunto in tutti i campi della vita sociale e anche nelle condotte e negli atteggiamenti individuali.

Certo, una grande quantità di bellezza resta ed è a disposizione di chi ancora riesce a vederla, distinguerla, restarne incantato. Il verbo intristisce: la bellezza “resta”: un fatto residuale. Le opere dell’ingegno del passato, quando non sono ridotte a fondale per i “selfie” o per la pubblicità (nella neolingua si dice location) sono in gran parte rinchiuse nei musei e nelle biblioteche, nei dischi, nei siti archeologici. Nessuna epoca si è presa tanta cura del passato artistico come la nostra, tempo della riproducibilità seriale dell’arte (W. Benjamin). Non creazione ex novo e in ogni caso “produzione”, ossia qualcosa che attiene all’industria, alla mentalità strumentale che inibisce l’esistenza dell’arte, afflato spirituale, oltreché tecnica raffinata, gusto estetico, intuizione lirica compiutamente espressa, nella splendida definizione di Benedetto Croce. Arte e bellezza conservate in una teca, tracce, vestigia, simili agli scheletri di animali estinti nei musei di storia naturale.

Si consuma una doppia distruzione nell’indifferenza di massa: si disperde la grande bellezza artistica e insieme la piccola bellezza quotidiana, quella che prima avvolgeva il nostro paesaggio abituale, dal nostro abbigliamento alle nostre case. Si spegne per inaridimento la creatività, una terribile siccità dello spirito. Diventiamo più acidi, più miseri dei nostri antenati poveri, più soli anche per l’abbandono dell’idea di bellezza, compagna silenziosa che ci seguiva come un’ombra e conferiva armonia, altezza, etica al cammino dell’esistenza. Diventa impossibile – diseducati e prigionieri di una greve dittatura del brutto, purché immediato, utile, funzionale- perfino la nostalgia della bellezza: la bruttezza ingoia tutto, divora e spinge in basso.

Sparisce la distinzione, finanche la dignità del passato, comune a poveri e ricchi, come mostra un’opera d’arte “politica”, il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, l’avanzata carica di energia, di decoro di un proletariato a cui povertà e fatica non avevano sottratto il naturale orgoglio. Ci crediamo giganti che hanno soppiantato i nani di ieri poiché possediamo più cose, più beni, più mezzi. Mancano i fini, di cui la bellezza era testimone, pietra di paragone.

Siamo laceri come gli abiti pre strappati dai fabbricanti. Paghiamo per estendere al corpo la sciatteria dell’animo, nebbia che non permette di riconoscere la bruttezza di cui diventiamo parte. Poveri di spirito perché l’unica ricchezza a cui ambiamo è materiale. Per le strade, ci assale la medesima materia scabra di cemento squadrato, ingrigito, priva di grazia. Non “serve”, compare come passivo nel conto economico, dunque è inutile: quel che conta è che la struttura si sostenga e assolva una funzione. Tutto secco, pratico, semplice: l’ordine meccanico degli schiavi. Senza bellezza, “i morti sono più morti dei personaggi dei libri” (Alvaro Mutis), nei quali ci rifugiamo per scaldare il cuore e vivere con l’immaginazione ciò che lo sguardo non vede più.

La bruttezza è l’acceleratore della corsa verso il basso. Bisogna ritrovare la bellezza, ricrearla, un’esigenza che dovrebbe partire dalle classi dirigenti, i cui gusti e desideri influenzano tutti. Scriveva Muriel Barbery ne L’ eleganza del riccio: “ai ricchi, il dovere del bello. Altrimenti, meritano di morire.”

Per possedere il senso del bello, però, occorre educazione, il contrario di una vita di consumi, desideri, istinti. Bisogna volere un destino, ignoto all’esausto viandante d’Occidente. Un passante solitario, angosciato, solitario, come intuì Nietzsche, la cui tragica consapevolezza terminò in follia. “Nessun Dio ci sostiene? Nessuna Ragione dà veramente ragione? Nessun Al di là guida i nostri passi? Siamo soli più di quanto nessun uomo è mai stato in nessun luogo? “Senza il conforto della bellezza che apre il cuore- un lacerto di eternità- solo il cammino che si spezza è legge a se stesso. Per questo abbiamo l’arduo dovere della bellezza, contro l’aridità che il brutto insinua nei cuori. Scriveva Saint Exupéry: “se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare la legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito