Il capitalismo del desiderio

Roberto Pecchioli

Esistono varie definizioni dell’attuale organizzazione sociale, economica ed antropologica imposta dal capitalismo assoluto, ossia sciolto da ogni legame, vincolo o limite. Vi è l’aspetto della dittatura finanziaria dei signori del denaro, creatori della moneta dal nulla. Vi è l’elemento del controllo universale ed individuale, il potere sulla vita analizzato da Michel Foucault già negli anni Settanta del secolo passato e più di recente, con un’analisi a cavallo tra antropologia culturale, sociologia ed economia, da Shoshana Zuboff nel fortunato Il capitalismo della sorveglianza.

Un approccio assai diverso, di notevole suggestione, è stato proposto dal professore americano Daniel M. Bell in un testo del 2012 e mai tradotto nella nostra lingua, The economy of desire, christianity and capitalism in a postmodern world, L’economia del desiderio; cristianità e capitalismo in un mondo postmoderno. La prima sorpresa proviene dall’autore: non un economista o un sociologo, ma un teologo morale cristiano metodista. Bell formula un’approssimazione teologica al capitalismo ultimo, che considera una negazione di Dio per molte ragioni, una delle quali, analizzata nel libro, è l’assoggettamento dell’uomo al desiderio, deformato, enfatizzato, distolto dal fine morale.

Il libro è ricco di riflessioni perspicaci quanto inquietanti. Bell non considera il capitalismo una mera forma di produzione, scambio e distribuzione di beni – o meglio merci- ma un’economia del desiderio che tutto incorpora nella pretesa di una totale mercificazione della vita. Non gli sfugge la natura totalitaria del capitalismo ultimo, pur nella sua forma dolce, suadente, lontana (sempre meno, peraltro…) dai totalitarismi di ieri, a cui è accomunato dalla volontà prometeica di modificare uomini e cose nella “distruzione creatrice” che tanto affascina, dal tempo di Joseph Schumpeter, i suoi banditori.

Lungi dalla caratterizzazione distopica di molti detrattori, per Bell il capitalismo non è affatto antipolitico, bensì promuove forme di politica efficienti, capaci – finora – di far valere la sua forza di fronte ad ogni nemico. Il capitalismo, infatti, non si occupa solo di questioni economiche, ma possiede un suo respiro ontologico, una specifica visione dell’essere umano, di cui cattura e disciplina, per assoggettarlo alle sue leggi, il desiderio, ovvero l’energia costituiva. Per dimostrare la sua tesi, il teologo Bell utilizza come filo espositivo il pensiero dei filosofi marxisti Michel Foucault e Gilles Deleuze, che seppero scoprire e catturare l’anima (se ne possiede una) del capitalismo, ma- avvinti da un materialismo uguale e contrario – non ebbero la capacità di prevederne gli esiti finali, oggi davanti ai nostri occhi di spettatori stupefatti e vittime.

In opposizione alla classica visione marxista del cambiamento sociale economico e politico promosso dallo Stato o da sovrastrutture equivalenti, Deleuze introdusse il concetto di micropolitica del desiderio, da non intendere in termini di scala o dimensione, ma come principio organizzativo della società. La micropolitica è una specie di ragnatela che riesce ad essere contemporaneamente globale, oltrepassando le frontiere nazionali e culturali, e intima, violando le barriere della coscienza individuale, sino a penetrare nel movente interiore che guida, secondo Deleuze, le azioni umane: il desiderio.

Deleuze era convinto che la realtà si comprendesse nei termini di una infinita molteplicità dei flussi di desiderio.  Con una certa ingenuità, un ottimismo contraddetto dai fatti, pensava che quei flussi di desiderio potessero realizzarsi come reti di collaborazione opposte alle rigide forme oppressive del potere, trasformandosi in forza rivoluzionaria.

Da parte sua, Foucault pensava che chi vuole opporsi a un ordine oppressore deve fissare l’attenzione su istanze di potere diverse dallo Stato. A suo giudizio, per quanto lo Stato sia un agente importante (erano gli anni Settanta del secolo XX), non è il centro del potere. Si tratta piuttosto di tessere una serie di reti di contropotere attive nella società, una sovrastruttura formata dalla sessualità, dalla famiglia, dalla tecnologia e dalle altre, infinite istanze di quella che chiamiamo società civile. Quando Foucault parla di microfisica del potere, descrive nella sua forma capillare il momento in cui il potere penetra nel seno degli individui e diventa dispositivo. Si impadronisce dei corpi, si inserisce negli atti e nelle condotte, nei discorsi, nei processi di apprendimento sociale e nelle vite quotidiane, diventa un organismo costituito da un numero infinito di sinapsi che non agiscono dall’alto, ma dall’interno del corpo sociale.

La lezione dei due pensatori è stata messa a frutto dal multiforme Proteo o Zelig neocapitalista, a comprova della sua straordinaria capacità di nutrirsi degli apporti più disparati e contrastanti per portare a termine un progetto totalizzante. Deleuze e Foucault condividono la visione di un mondo formato da individui – o meglio “soggetti” – costituiti dal desiderio, una forza che essi considerano positiva in quanto difficilmente catturabile dallo Stato.

Lo Stato – inteso come potere – cosciente che i flussi di desiderio sono in grado di creare fenditure nella sua potenza e forza coattiva, anziché sforzarsi invano di reprimerli, ha finito per regolarli e connetterli con persone e comunità concrete, in un esercizio di territorializzazione. Il capitalismo trionfante è andato oltre, riuscendo ad organizzare e assoggettare il desiderio ai suoi fini (ricchezza, dominio, controllo) in maniera ben più incisiva, dimostrando di possedere un potere pressoché magico di disciplinare, alimentare e rilanciare continuamente il desiderio. Tanto magico che rende schiavi di una dipendenza del tutto nuova, che fa amare e desiderare una schiavitù, che arriviamo a definire libertà. Desiderio del desiderio…

Il capitalismo agisce deterritorializzando i flussi del desiderio, a somiglianza di se stesso, negazione programmatica di ogni radicamento. Esercita il suo potere infiltrandosi nelle condotte individuali, che indirizza, manipola, prevede e determina con la forza della comunicazione, della pubblicità, della coazione a ripetere. A questo scopo, osserva Foucault, usa simultaneamente tecnologie di dominio e tecnologie del sé. Le prime includono “un insieme eterogeneo di discorsi (le “narrazioni” N.d.R.), istituzioni, leggi, misure amministrative, dichiarazioni scientifiche e proposizioni filosofiche “. Le tecnologie del sé sono i mezzi che permettono agli individui di eseguire, con i propri mezzi o con l’ausilio di altri, un certo numero di operazioni sui loro corpi ed anime, pensieri, condotte e modi di essere al fine di trasformare se stessi per raggiungere un certo stato di purezza, felicità, sapienza, perfezione o immortalità”.

Foucault descrive in anticipo modalità di infiltrazione nelle coscienze come la teoria del genere, la tecnologia di riconfigurazione del sé oggi più in voga Il capitalismo si serve, per conseguire i suoi fini di penetrazione delle coscienze, di quelle che Deleuze definisce società di controllo. Nelle società arcaiche e sino al transito nella modernità, l’essere umano era canalizzato fisicamente attraverso una serie di “reclusioni” disciplinari – la scuola, l’ospedale, la fabbrica, il carcere– dove veniva plasmato secondo la norma del potere. Nelle attuali società di controllo, le reclusioni disciplinari sono soppiantate da manipolazioni dell’animo più blande sotto il profilo della costrizione fisica- le mode dell’abbigliamento, i partiti politici, le droghe, le serie televisive, le reti sociali, i generi musicali, le forme più bizzarre di capriccio e creatività- che permettono agli uomini di essere modellati non  attraverso la reclusione e la conformità coattiva alla norma prevalente, ma per mezzo di una modulazione flessibile ed onnipresente.

Al capitalismo non basta che gli individui assumano il ruolo di produttori e consumatori nelle fabbriche e nei centri commerciali. Ha bisogno e dunque esige che ciascuno subordini ogni aspetto della vita alla logica del consumo e dell’economia sino a diventare imprenditore di se stesso disposto a trasformare di buon grado in merce – cosa, oggetto compravendibile – il proprio corpo, la sessualità, le pulsioni, i desideri, persino le paure e i traumi più inconfessabili.

In tale maniera, i corpi e gli spiriti sono consegnati alla logica del mercato. Il desiderio, insegna Foucault, è disciplinato dal capitalismo e sottomesso all’assiomatica della produzione mediante un potere che omogeneizza, livella tutte le dimensioni della vita, incluse quelle più personali. Mentre deterritorializza il desiderio  liberandoci dallo Stato, dalla religione, dalla famiglia, dai principi ricevuti, il capitalismo ci lascia all’apparenza liberi ( o meglio nudi di fronte a se stesso) ma si assicura che il desiderio sia presto rioccupato , trasformando il nostro corpo in prodotto adattato alle mutevoli esigenze del mercato, sdoppiandolo in generi e identità polimorfe che generano nuovi profitti alla megamacchina industriale, dall’abbigliamento alla cosmetica, alla chirurgia estetica, alla farmacologia, perfino ai creatori di identità minime attraverso i tatuaggi e la ri-creazione del corpo che fingono di individualizzare il prodotto di serie a cui è ridotto ogni esemplare della specie uomo.

Deleuze e Foucault insegnarono che il capitalismo non si occupa solamente di rispondere al desiderio di beni materiali, ma soprattutto è interessato a formare, modellare, orientare il desiderio stesso per metterlo al servizio deli suoi interessi. Il loro progetto filosofico voleva essere un contributo allo sforzo rivoluzionario intrapreso nell’ambito della sessualità da Herbert Marcuse, teso a liberare il desiderio dall’abbraccio capitalista. Pensavano di riuscirci con una terapia folle, l’intensificazione illimitata del desiderio sino a scioglierlo da ogni vincolo. Si trattava di oltrepassare la capacità del capitalismo di adattare il desiderio al mercato, sino a conseguire un’assoluta deterritorializzazione del desiderio, liberato da ogni disciplina.

Rimedio peggiore del male: non compresero di lavorare per il re di Prussia, giacché è il capitalismo a caratterizzarsi per il suo profondo potere di sradicare e abolire ogni identità, sino a emancipare il desiderio dalle istituzioni sociali e da tutti i criteri di valore naturale o stabilito. Nel momento in cui allontana da ogni appartenenza – fisica e morale – rende schiavi della sua dinamica intrinseca. Raggiunge l’egemonia e consegue il monopolio – il sogno finale – generalizzando un desiderio sciolto da ogni ordine, ribelle a qualunque limitazione posta dalla natura o dal senso morale, intensificato sino al parossismo per imporsi sulla realtà delle cose. Deforma e mette in vendita la nostra identità, un prodotto di consumo in più, fungibile e momentaneo: sino al prossimo, più acuto desiderio.

Il desiderio capitalista postmoderno è una forma raffinata del supplizio di Tantalo, il personaggio mitologico condannato ad una fame e una sete impossibili da placare, legato a un albero carico di ogni frutto, immerso fino al collo in un lago d’acqua dolce. Se prova a bere il lago si prosciuga; se tenta di cogliere un frutto i rami si allontanano. Nella forma spasmodica del desiderio costantemente rilanciato dai demiurghi contemporanei che disegnano le nostre preferenze, siamo condannati al desiderio mai sazio che vuole salire sempre più in alto, in una corsa vana che si fa dipendenza.

Non è casuale che tale carattere contemporaneo improntato dal capitalismo di consumo, capriccio e desiderio sia meglio compreso da spiriti religiosi come Daniel M. Bell. Prima di lui, lo scrittore cattolico francese Georges Bernanos pronunciò parole di fuoco. Fu tra i primi a individuare la natura totalitaria del capitalismo, esortando invano a un’insurrezione dello spirito. Comprese che il capitalismo avrebbe creato un uomo sottilmente totalitario, poiché totalitaria è l’unica organizzazione che riconosce.  Il desiderio si insinua, prende il comando, decide per noi e scaccia ogni altro pensiero. Se soddisfatto, vuole di più; se è frustrato, ricomincia con lena maggiore, divenendo dipendenza. Il desiderio de-spiritualizza l’uomo, rende angosciati, rosi dall’ansia di conquistare i beni che anela come il cane di Pavlov secerne la saliva al suono della campanella, annuncio del cibo.

L’uomo-macchina desiderante è un barbaro che ignora o rifiuta la disciplina spirituale, e non pensa ad altro che alla soddisfazione momentanea, provvisoria, dalla quale nulla lo distoglie. E’ un naufrago che non vuole essere salvato. Il desiderio, infine, è individualista: è mio e solo mio. Non posso godere del desiderio altrui. Incorpora l’uomo nella forma merce, lo pone alla mercé dell’invidia. E’ un elemento essenziale dell’ideologia del consumo, la cui caratteristica è la fugacità. La soddisfazione, oltreché immediata, deve essere, per riprodursi all’infinito, di breve durata. Un desiderio via l’altro: non ci deve affezionare a ciò che si ha e si è. Significherebbe interrompere il cortocircuito, attingere uno stato di serenità interiore che il capitalismo non può tollerare, pena la fine del suo moto perpetuo.

Viviamo nella notte del mondo fatta di desideri perennemente frustrati e ogni volta ripresi. L’uomo totalitario desiderante del capitalismo realizzato è depoliticizzato e dis-tratto, nel senso originario: condotto lontano dalla verità e dalla libertà. Non ci sono soluzioni semplici; con pazienza, l’uomo postmoderno va rispiritualizzato, ri-politicizzato, liberato dalle mille dipendenze a cui il capitalismo del desiderio dà il nome di libertà. E’ un’operazione durissima, contro vento e marea. Pure, per rivedere l’alba, non c’è altra via che attraversare la notte.