I DISEREDATI DELLA GUERRA MENTALE.

                                                    di ROBERTO PECCHIOLI

Il nostro è il tempo dei diseredati. Padri che non vogliono più essere padri, figli che non sono tali e rifiutano di diventare padri. Si è interrotta la catena di trasmissione. La terza guerra “mentale” ha prodotto una generazione di diseredati. Eredità dissipate dai padri, rigettate dai figli, in nome del “brave new world”, l’ammirevole Mondo Nuovo descritto da Aldous Huxley. Il mondo occidentale è sottosopra e non è affatto vero che abbia cancellato il mondo di ieri senza sostituirlo. Lo ha fatto: ha semplicemente, puramente rovesciato i fattori. Le nostre mamme rivoltavano i cappotti per farli durare di più, la modernità ha invertito tutto il resto. Il bene di ieri è il male di oggi e viceversa. Semiramide, la regina egizia, è il suo simbolo, una dissoluta che chiamò legge i suoi comodi. Libito fé licito in sua legge, dice il padre Dante, ex padre, nel mondo nuovo di orfani e diseredati.

I poeti e gli artisti comprendono più di ogni altro: Chesterton scrisse nei primi decenni del Novecento che la civiltà in (de)costruzione è piena di virtù cristiane diventate vizi. Infatti Sodoma e Gomorra sono diventati modelli e il loro peccato, secondo i neo teologi alla cannabis, fu quello di non essere “inclusivi”. Quello di oggi non solo è il mondo migliore possibile, ma l’unico: non c’è alternativa. Abbiamo un nuovo Vangelo, il principio di piacere, e un nuovo linguaggio obbligatorio, il politicamente corretto. Anzi no, dovremmo chiamarlo linguaggio inclusivo: in Spagna, il nuovo governo iper progressista ne farà presto un obbligo di legge. Un “corporate standard” in grande stile, pubblicato sula gazzetta ufficiale, il modo di esprimersi diventa norma positiva, trasgredire la quale espone a conseguenze penali.

La libertà ritorta nel suo contrario: una guerra mentale. E che dire della trasgressione, divenuta un lavoro, un duro obbligo postmoderno. E’ l’astuzia suprema dei padroni delle nostre menti, farci credere che droga, alcol, scatenamento dei sensi, piacere, “divertimento”, consumo- di merci, di persone, di noi stessi-  siano un sintomo di anticonformismo. I forzati della trasgressione sono i sudditi migliori nell’impero dei padroni universali, Figli di nessuno, maratoneti del piacere e del divertimento, non possiamo, non dobbiamo, programmaticamente, lasciare altro che polvere dietro di noi. L’eredità è dissipata, dopo di noi il diluvio, come per Luigi XV di Francia.

San Paolo, fondatore del cristianesimo “culturale”, la pensava diversamente. Lui, ebreo colto romanizzato, proclamò nella Lettera ai Galati qualcosa che ha retto per due millenni. Tu, uomo, hai un padre, Abbà. E se sei figlio, sei anche erede. Si riferiva a Dio, ma costruiva i pilastri di una visione del mondo. Tramontata, il mondo è sottosopra. Chissà perché non siamo diventati più felici, appagati, finalmente adulti, veri uomini, in attesa di transitare nell’oltre umano, oltre la pretesa di Nietzsche, il transumanesimo, l’ibridazione uomo macchina che tanto intriga gli ultimi uomini, che strizzano l’occhio e affermano di aver inventato la felicità fondandola su una triste tabula rasa.

Un osservatore di grande spessore, Jean Baudrillard, scrisse che la vera apocalisse non è la fine materiale del mondo, ma la sua unificazione forzata, ovvero il mondialismo, il simulacro perfetto, nel suo particolare lessico; il delitto perfetto. Negano che sia la fine, lo chiamano nuovo inizio, ma il dramma è che ci crediamo. Un’illusione diretta da “remoto”, una Matrix simile a quella del film dei fratelli Wachowski. Il progredito occidentale, in nome del suo marmoreo nichilismo, chiama fondamentaliste le altre culture per distogliere la mente dal suo fondamentalismo, quello della dissoluzione ribattezzata liberazione, emancipazione, lumi.  Combatte una specie di jihad mediatica, l’integralismo democratico, dolce, sottile, infettivo, quello del consenso, dell’umanitarismo sentimentale, dei diritti dell’uomo, della retorica melensa dell’antiretorica.

E’ un sentimento altrettanto feroce, negli esiti e nelle pretese, delle vecchie religioni tribali. Muta solo l’estensione, che vuole planetaria. Quel che non gli somiglia diventa Male Assoluto, il che rimanda a un modo di pensare “arcaico”, per usare il suo linguaggio. Abbiamo parlato di guerra mentale, giacché il suprematismo” soave” dell’Occidente laico, democratico, libertario, libertino vince perché è ancora erede. Erede di una superiorità tecnica e militare attraverso cui ha diffuso i suoi principi con una mano sul fucile e l’altra sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo. Bomba atomica e tolleranza, democrazia, mercato e manipolazione delle coscienze. Guerra mentale e, all’occorrenza, la buona vecchia guerra materiale, che ha l’innegabile vantaggio di ammazzare i dissenzienti e rendere necessaria la ricostruzione successiva, pagabile a strozzo.

I diseredati, intanto, vengono sospinti sempre più in basso. Il loro dovere è consumare; non è necessario, anzi è controindicato, che “sappiano”. Basta una conoscenza strumentale, l’addestramento ai compiti a cui sono destinati. A che servono, dunque, le parole? Orwell spiegò che non solo il potere “possiede” parole e significati, ma ha ogni interesse a restringere il nostro vocabolario personale. Impresa tanto più facile in un tempo nel quale prevale l’immagine sulle altre fonti di conoscenza. Nessun approfondimento, mentre si dissecca la sorgente delle parole. Dario Fo, per spiegare la lotta di classe in chiave marxista, utilizzò una metafora azzeccata: il padrone conosce mille parole, l’operaio solo trecento. Per questo è il padrone. E’ la verità. Non per caso impoveriscono l’idioma comune, ridotto ai monosillabi, agli acronimi, agli emoticon della messaggeria telefonica, imbastardiscono le lingue, riducendo il numero dei termini di uso corrente.

Le statistiche sono impietose: anche persone che passano per istruite, in possesso di titoli accademici, non usano che poche centinaia di parole (vietato dire “lemmi”…) la capacità di comprendere, riassumere e spiegare testi di media complessità è drammaticamente bassa. Siamo tutt’al più in grado di comprendere, con l’aiuto delle immagini e dei pittogrammi, le istruzioni di montaggio dell’Ikea e di utilizzo dei più semplici apparati informatici. Non parliamo di eseguire calcoli matematici, segno non solo di scarsa concentrazione e padronanza della materia, ma di incapacità di pensiero astratto.

La gente legge sempre meno, le librerie chiudono in massa, sostituite da profumerie, bar e locali che dispensano “cibo di strada”, lo street food spazzatura. Il libro elettronico non ha affatto sostituito la vecchia, cara, carta stampata. La conseguenza è chiara: una generazione che non ha ereditato neppure la lettura, in grado solo di digitare sulla tastiera per ricevere immagini, testi ridotti al minimo, didascalie descritte in linguaggio elementare. La postmodernità ha raggiunto il suo vero mentore, il gran maestro dei “buoni” selvaggi, l’orribile Jean Jacques Rousseau. Ecco che cosa sosteneva il ginevrino nell’Emilio, il cui sottotitolo è – o dell’educazione-.  “La lettura è la piaga dell’infanzia. Odio i libri. Insegnano solo a parlare di ciò che si sa… Non voglio che sia musicista, né commediante, né che scriva libri. Ho chiuso tutti i libri. “

Quest’analfabetismo ha sempre avuto adepti. An-alfa-beta significa, letteralmente, persona priva di due parole di seguito da unire. L’analfabetismo della scrittura si coniuga spesso con quello del pensiero, una grande fortuna per i governanti.

Un pensatore come Roland Barthes, che al tempo dei mezzi di comunicazione sociale declasseremmo ad influencer, scrisse parole durissime contro la scrittura, dunque contro la lettura e, in definitiva, la cultura. Il linguaggio è una legislazione. Ogni lingua è una classificazione, e ogni classificazione è oppressiva. La lingua è semplicemente fascista. Lo scrisse in un libro dallo sbalorditivo titolo “Il piacere del testo”.

Sarebbero asserzioni comiche, da avanspettacolo di periferia, delle quali ridere davanti a un buon bicchiere, invece Rousseau che Barthes sono venerati maestri. Hanno lavorato in molti alla cultura del male ed hanno conseguito lo scopo: disperdere l’eredità e vincere la guerra mentale per conto dei padroni che sostenevano di combattere. Rousseau ha convinto una parte rilevante dell’Europa culturale dell’esistenza del buon selvaggio, il bimbo e l’incolto rovinati dalla sedicente civiltà. Una menzogna divenuta principio, creduta per coazione a ripetere. Un capopopolo del Sessantotto riconvertito in politico e pensatore progressista, Daniel Cohn Bendit, è riuscito ad affermare qualcosa di ancora più ridicolo: “oggi la battaglia importante è, in primo luogo e soprattutto quella che va diretta contro l’ossessione ortografica”

Al potere non è andata la fantasia, ma l’ignoranza, mascherata da ossessione antiautoritaria, giacché l’ortografia è un complesso di regole. Ma è contro le regole che è stata dichiarata e vinta la guerra dell’ultimo mezzo secolo; hanno trionfato nella vita quotidiana, nei valori civili, nella dispersione di ogni eredità culturale. Hanno perduto, drammaticamente, nel confronto con i burattinai, le oligarchie del denaro e della tecnologia, che ignoranti non sono affatto e conoscono, non mille, come i padroni di Dario Fo, ma diecimila parole, mentre impongono l’afasia a noi sudditi.  Un giovane filosofo francese, François Xavier Bellamy, scrive nel libro I diseredati, perché è urgente trasmettere la cultura, parole molto assennate sul nichilismo profondo di cui Rousseau, Barthes, Cohn Bendit e troppi altri sono portatori insani: “la loro logica è quella di una violenza massima, pensata in maniera molto primaria, elementare, una legge del taglione ridotta alla massima approssimazione.”

Dei due termini scaturiti dalla parola latina liber, libero e libro, hanno amputato la seconda per enfatizzare un modo distorto la prima. Libertà diventa rozzezza, ignoranza, sotto le vesti dell’autenticità, dell’immediatezza, del selvaggio né buono né cattivo, semplicemente – e felicemente- ignorante, nel senso primario; colui che non sa e, quel che è peggio, non si pone più domande, per l’impossibilità di trovare le parole per articolarle, innanzitutto a se stesso. Senza eredità, senza parole, sconfitto nella guerra mentale sferrata contro di lui. I sapienti hanno decretato che la lingua è fascista, la storia sciovinista, la letteratura sessista, la geografia etnocentrica e le scienze dogmatiche. Stranamente, non capiscono perché i loro allievi siano diventati degli zombie, selvaggi con telefonino incorporato.

L’esito è che non si studia più nulla per i motivi esposti. Nuove ragioni ci dovrebbero spingere a studiare ed amare il greco antico. Come spiegare che in tempi in cui tutto è impreciso, indefinito, liquido, potrebbe aiutarci il tempo verbale aoristo. Aoristo significa indefinito, il che lo oppone a tutti gli altri tempi definiti; mentre gli altri tempi definiscono l’azione del verbo nel senso della sua durata, del suo principio o del suo punto d’arrivo (presente e perfetto) o nel senso del presente e del passato, l’aoristo esprime l’azione pura e semplice; è il tempo narrativo e gnomico. Gnothi seautòn, conosci te stesso, la celebre massima di Socrate, tramontata con il declino della filosofia, è resa in greco con l’aoristo. Attraverso il presente Socrate avrebbe inteso una conoscenza pura e semplice, non lo svolgersi e l’importanza dell’atto del conoscere.

Parole, trucioli del passato. Nulla, dinanzi a Facebook, alla potenza assertiva di “mi piace”, “non mi piace” o al significato proattivo del postare giudizi su ciò che si ignora, immortalare un piatto di spaghetti o affidare al ciberspazio un selfie con il Colosseo come sfondo, anzi “location”. In tedesco, pensare (denken) è simile a ringraziare (danken). Forse per questo è la lingua della filosofia. In spagnolo, nel gergo comune, si è generalizzato un verbo senza significato, “molar”, che deriva dal dente destinato a frantumare il cibo, che ha sostituito, nel frasario idiomatico, termini dalle sfumature tanto diverse come amare, piacere, stimare, ammirare e simili. “Me mola”, mi va a genio, al dente, somiglia tanto al generico, ma travolgente “like” delle reti sociali.  In italiano, siamo afflitti dalla dittatura del verbo “fare”, dal sostantivo “cosa” e da espressioni errate, sgrammaticate e prive di significato come “piuttosto che”, “quant’altro”, “detto questo”, oltre all’intramontabile “cioè”.

Ridotto all’osso il vocabolario, sfugge il pensiero. Non ci opporremo più al male per mancanza dei significanti per definirlo. Emetteremo grugniti affermativi o negativi, dimenticando che attribuire un nome a oggetti, sentimenti, luoghi, è considerato, nelle culture da cui proveniamo, esercizio decisivo, addirittura divino, l’attribuzione del soffio vitale. Negli Usa, dove sono avanti in tutto, specie nella regressione, nomi propri, sostantivi e termini tendono a diventare monosillabi. Pensiero ristretto, sincopato. Esseri umani non si vergognano di farsi chiamare con le iniziali: ricordate J.R. della serie televisiva Dallas, o O.J. Simpson? Non numeri, ma lettere: il sogno, o l’incubo americano.

Bellamy ci consola con una riflessione anacronistica: il rimedio alla povertà di ogni cultura è la cultura stessa. Sì, ma, senza parole, come capiremo, come ci esprimeremo, in che modo daremo forma a sentimenti, emozioni, dissensi? Va pensiero sull’ali dorate, va ti posa sui clivi, sui colli. Posati, pensiero, torna eredità, trasmetti, consegna, non tutto è web, non tutto è immagine o squittire della scimmia ammaestrata. Ci vogliono maestri. Un esempio riguarda il “sessismo”, considerato uno dei mali più tremendi, da estirpare con ogni mezzo. Inutili le lezioni grondanti retorica, gli interdetti e le giornate dedicate alla donna. Più utile, per diffondere rispetto verso il sesso femminile, conoscere la vita di Giovanna d’Arco, il suo processo, sapere il contributo di Marie Curie alla scienza o quello di Madame de La Fayette alla letteratura, l’inventrice del romanzo storico, o ancora apprezzare i dipinti di Artemisia Gentileschi.

All’inizio, citavamo Aldous Huxley e il suo Mondo Nuovo, la distopia in via di realizzazione. Sapete che cosa auspicava per l’umanità futura lo scrittore oligarca dell’impero britannico? Questa era la sua idea, da confrontare con la realtà del mondo contemporaneo diseredato. “La rivoluzione autenticamente rivoluzionaria, molto al di là della mera politica e dell’economia, è la rivoluzione degli uomini, delle donne e di bambini individuali, singoli, i cui corpi dovranno passare ad essere proprietà sessuale comune di tutti e le cui menti dovranno essere lavate da ogni pudore naturale e da ogni inibizione acquisita dalla civiltà tradizionale “. Selvaggi, né buoni né cattivi, un’umanità simile a Enkidu nella favola di Gilgamesh. Senza eredità, senza parole, senza mente per usare il libero arbitrio.

Nel Dio Thoth, romanzo di Massimo Fini, l’informazione si avvita su se stessa, parla di se stessa, megafono del nulla, quel poco di realtà che c’è ancora è ignorata dai media e quindi non esiste. Lo slogan di Teleworld: “fatto è la notizia e la notizia è il fatto”. Il protagonista vorrebbe leggere l’Amleto, ma l’opera è sepolta sotto un cumulo di “informazioni inerenti” che impediscono l’accesso. Così il bibliotecario gli fornisce una serie di DVD della rappresentazione teatrale, poi delle sintesi audio, alcuni saggi brevi sull’argomento, infine una riduzione all’osso della tragedia. Amleto ridotto ad abstract.

Il vecchio Hegel scriveva così, due secoli or sono: “il linguaggio in quanto articolato e sonoro è voce della coscienza per il fatto che ogni suono ha un significato, cioè in esso esiste un nome, l’idealità di una cosa esistente, l’immediato non-esistere di questa”. L’uomo postmoderno non comprende più, troppa fatica, meglio una citazione scelta da Wiki quote. Il testamento è stato strappato dagli eredi che hanno rifiutato il patrimonio

senza beneficio d’inventario.