FEDE CATTOLICA E SCIENZA MONETARIA di Luigi Copertino – prima parte

FEDE CATTOLICA E SCIENZA MONETARIA
Nella prospettiva della Trascendenza spirituale per contribuire al superamento di dannose concezioni arcaiche in tema di moneta

Un equivoco culturale

I cattolici conservatori sono da tempo vittima di un grande equivoco che li porta a confondere il piano teologico, di per sé aperto su orizzonti di trascendenza e di eternità, con quello storico-economico, al contrario sempre in divenire e sempre non assoluto ma relativo. Tra i due piani – è vero! – c’è connessione, perché Dio pur essendo l’Eterno opera nella storia, nel tempo, chiamando l’uomo a cooperare con il Suo disegno di salvezza. Tuttavia, quanto in ordine ai principi dell’etica esprime eternità spirituale, pur a nulla rinunciando, in essenza, a tale carattere di eternità, deve comunque trovare modalità di concreta attuazione sempre tenendo conto delle trasformazioni intervenute sul piano storico. Laddove invece si pretende di mantenere sul piano storico le passate forme di espressione culturale del carattere di eternità spirituale dei principi dell’etica eterofondata, si finisce inevitabilmente per scadere in posizioni di fondamentalismo conservatore che svolgono la funzione dell’utile idiota per l’affermazione di quei poteri luciferini che pur si dice di voler combattere.

E’, questo, il caso dell’infatuazione dei cattolici conservatori per la Scuola Economica Viennese e per quel suo aggiornamento che è il monetarismo della Scuola di Chicago. Uno degli studiosi di economia che va per la maggiore tra i cattolici conservatori è, non casualmente, l’ispanico Jesús Huerta de Soto, un economista neoclassico che è diventato, appunto, un autore cult negli ambienti catto-conservatori, laddove, confondendo come si diceva piano teologico e piano storico, si ragiona, in tema monetario ed economico, come se fossimo ancora ai tempi di Tommaso d’Aquino. Infatti la Scuola Economica Viennese, anche nella sua versione più moderna riproposta dal monetarismo, si basa su un arcaismo terribile. Se si seguissero le idee viennesi e monetariste – definite anche “neoclassiche” con riferimento alla scuola classica ossia prekeynesiana, ottocentesca, di economia – si tornerebbe all’età della moneta aurea o al gold standard. Il cosiddetto “tallone aureo” nella storia economica dell’umanità, lungi dall’aver garantito stabilita al valore monetario e quindi ai prezzi (quando gli spagnoli importarono dal Nuovo Mondo ingenti quantità di oro il suo prezzo sul mercato crollò ingenerando svalutazione della moneta a quei tempi ancora metallica ossia ancora in forma di “merce”), è stato il maggior impedimento, insieme al gap tecnologico, allo sviluppo economico poiché limitava la liquidità, sia quella di moneta legale, da emissione statuale o successivamente central-bancaria, sia quella di moneta bancaria emessa dal sistema bancario in forma di prestiti. Gli studi di economia più attenti alle reali dinamiche di organizzazione e di funzionamento dell’economia capitalista, quindi non pregiudizialmente condizionati da strutture culturali relativamente vere in tempi passati ma inattuali oggi, hanno dimostrato, con ampia dose di prove, che i prestiti bancari precedono i depositi (Nicholas Kaldor, Guido Carli), non il contrario, così come hanno dimostrato che sono gli investimenti a generare i risparmi, non il contrario.

Inflazione e riserva monetaria

Il problema principale nello schema di pensiero dei neoclassici (intendendo in senso estensivo tale definizione), da Jesús Huerta de Soto a von Hayek, da von Mises a Milton Friedman fino agli ordoliberali tedeschi, è l’inflazione. Aderendo alla “teoria quantitativa della moneta”, essi ritengono che la causa dell’inflazione risieda nella quantità di moneta legale (o base monetaria) in circolazione. Sulla base delle idee neoclassiche, negli anni ’80 si provò a controllare la circolazione della moneta legale attraverso il controllo, all’atto dell’emissione, della sua quantità. Ma questi tentativi di “monetary targeting”, messi in opera dai governi Thatcher e Reagan, fallirono tutti miseramente. Infatti la massa monetaria complessiva continuò a crescere nonostante la stretta monetaria imposta dalle Banche centrali sulla quantità di moneta legale. Sicché l’unico, nefasto, obiettivo che la stretta monetaria riuscì a centrare fu la demolizione del welfare.

La moneta legale, infatti, non è l’unico aggregato monetario in circolazione. Esistono mezzi di pagamento “quasi-monetari” che si affiancano e, in caso di sua carenza, surrogano la moneta legale. Tali diversi aggregati monetari vengono indicati simbolicamente come una M contrassegnata da un numero, secondo lo schema seguente:
M0 o base monetaria, comprende la moneta legale, ossia le monete metalliche e soprattutto le banconote le quali per imperativo legislativo (originariamente per consuetudine fiduciaria) devono essere accettate in pagamento,
M1 o liquidità primaria, comprende le banconote e monete in circolazione (circolante), nonché gli assegni che fungono da mezzo di pagamento, coperti da depositi di moneta legale se spiccati da depositanti, non coperti originariamente, ma solo successivamente, da moneta legale se spiccati su linee di credito bancario;
M2 o liquidità secondaria, comprende M1 più tutte le altre attività finanziarie creditizie che, come la moneta legale, hanno elevata liquidità e valore certo in qualsiasi momento futuro, ossia linee di credito e prestiti bancari e d’altro tipo, ad esempio quelli postali (si tratta specificatamente della moneta bancaria creata ex nihilo dagli Istituti di Credito);
M3 o liquidità terziara, comprende M2 più tutte le altre attività finanziarie che come la moneta legale possono fungere da riserva di valore, ossia essenzialmente obbligazioni e Titoli di Stato.

In una moderna economia monetaria, mercato, famiglie ed imprese, per finanziarsi, fanno quotidianamente ricorso alla moneta bancaria messa a disposizione dalle banche, anzi da esse creata dal nulla ad ogni apertura di credito. Questo ricorso da parte di imprese e famiglie alla moneta bancaria aumenta, poi, soprattutto in carenza di moneta legale, come gli studi storici e statistici hanno dimostrato. La moneta bancaria, già un tempo emessa in forma di scritture contabili, ossia numeri, e quindi già all’epoca meno materiale di quella aurea ed anche di quella legale costituita quest’ultima dalle, comunque visibili, banconote, oggi è più che mai immateriale perché consiste esclusivamente di accreditamenti ed addebitamenti puramente contabili, senza effettivo passaggio di moneta legale, realizzati mediante input informatici. Si tratta di trasferimenti virtuali di valore un tempo, come detto, effettuati mediante scritture contabili in cartaceo ed oggi, con maggior celerità, mediante impulsi informatici sulla rete. In tal modo la moneta bancaria viene creata dal nulla ma anche distrutta alla fine del circuito finanziario, a meno che per qualche oscuro motivo non sia ammassata, in modo illegale e fraudolento, in qualche nascosta piega dei bilanci bancari. La moneta bancaria è invisibile e sfugge, proprio perché immateriale, alle “percezioni inflazionistiche” supposte da Milton Friedman, con riferimento alla moneta legale, quali cause dell’inflazione. Infatti, se la moneta legale, in quanto visibile e materiale (aurea o cartacea, con o senza copertura aurea), è effettivamente percepita, nella sua quantità e nella sua velocità di circolazione, dal pubblico, ingenerando possibili aspettative di svalutazione in ordine al suo effettivo potere d’acquisto, la moneta virtuale odierna non è oggetto, proprio per la sua virtualità, di alcuna percezione quantitativistica.

I “Quantitive easing”, effettuati negli ultimi dieci anni dalla Fed e di recente anche dalla Bce, non hanno provocato – proprio perché si è trattato di creazione di moneta “invisibile” e di trasferimenti contabili virtuali – neanche l’ombra del pericolo di un’alta inflazione. Per lo stesso motivo, l’obiettivo che la Bce guidata da Mario Draghi, pur nell’opposizione dei consiglieri tedeschi del Board dell’Istituto di Francoforte, si è prefissata, mediante il Quantitative easing, ossia il raggiungimento di un tasso di inflazione di poco inferiore al 2%, per superare l’agghiacciante deflazione derivata dalla crisi e dalle politiche neoliberiste di austerità, si sta rilevando non facilmente conseguibile.

Questo dimostra, oltretutto, che l’inflazione non dipende, né principalmente né essenzialmente, dalla quantità, percepita o meno, di moneta legale in circolazione. La moneta è endogena, non esogena come credono viennesi e monetaristi, sicché la Banca centrale non è in grado di controllare la quantità di moneta bancaria, creata dal nulla, se in modo assolutamente relativo ovvero solo attraverso il controllo del tasso di sconto ovvero dell’interesse praticato dalla stessa Banca centrale quando monetizza le riserve legali delle banche commerciali perché è il livello di questo tasso di interesse a determinare l’interesse ossia il prezzo del denaro, più o meno alto, che le banche praticheranno alla loro clientela. La Banca Centrale non è in grado di impedire alle banche commerciali di erogare moneta bancaria, ossia di accendere prestiti in misura superiore alla stessa riserva legale. Tanto è vero che, compresa la sua inutilità, molti Paesi, come il Canada, hanno abolito il limite della riserva legale per le banche.

Pertanto non si può affermare, con scientifica certezza (ammesso ma non cncesso che la scienza, qualunque scienza, sia in grado di fornire certezze assolute), che l’inflazione, la quale tecnicamente è un eccessivo aumento dei prezzi (non sempre, ed anzi raramente, corrispondente ad una svalutazione del potere di acquisto monetario), è generata dalla quantità di moneta legale in circolazione, ossia dell’unico aggregato monetario (M0) effettivamente controllabile dallo Stato o dalla Banca centrale (in questo nostro contributo non tratteremo dell’aspetto verticale del circuito monetario, che è d’altronde fondamentale perché introduce l’elemento della sovranità dello Stato sul mercato, ma ci limitiamo solo all’aspetto orizzontale del circuito rimandando ad altro intervento l’esame integrativo, ma non per questo secondario, di quello verticale).

L’inflazione è generata o da aumento dei costi di produzione (ad esempio dell’energia o della pressione fiscale) o da aumento della domanda dei beni a fronte di una carenza produttiva sul lato dell’offerta. I dati econometrici relativi alle due grandi impennate iper-inflazionistiche degli anni ’70, e le loro elaborazioni grafiche, dimostrano che fu l’aumento, causato dalle guerre arabo-israeliane, del prezzo del greggio a provocare, ex post, l’aumento dei costi di produzione e quindi dei prezzi finali dei prodotti, ossia l’inflazione, e che, per il meccanismo allora vigente della scala mobile, l’aumento dei salari nominali favorì un ulteriore aumento dei costi, e quindi dell’inflazione, solo in un momento successivo al precedente aumento dei prezzi prodotto dall’aumento dei costi energetici. La quantità di moneta legale, mentre i prezzi aumentavano, rimase pressoché stabile, anche per la convinzione delle Autorità monetarie circa l’origine monetaria dell’alta inflazione in corso, sicché imprese e famiglie reagirono, all’aumento dei prezzi che imponeva di avere a disposizione maggior liquidità, ricorrendo alla moneta bancaria ossia ai finanziamenti bancari. Come dimostrano le predette elaborazioni grafiche, l’aumento della massa monetaria, ex post e non ex ante, non fu dovuta all’aumento di M0 o M1 (ossia della moneta legale, che era del tutto sotto controllo) ma all’aumento di M2 (ossia della moneta bancaria). In una economia industriale, ed a maggior ragione in quella post-industriale, gli schemi viennesi e monetaristi, che concepiscono, come fossimo ancora nell’età del tallone aureo, la moneta alla stregua di una merce intermediaria nello scambio dei beni sicché l’economia di mercato altro non sarebbe che una economia di baratto e non un’economia monetaria, non sono in grado di spiegare la realtà economica moderna e le sue dinamiche.

Una rassegna di autorevoli riconoscimenti

Che la moneta sia endogena, e non esogena, come già avevano intuito i “cartalisti” due secoli fa, è stato ormai ammesso perfino dalla Banca di Inghilterra e dai più noti banchieri centrali ed economisti monetari. Dopo la crisi del 2008 e di fronte alla mancanza di effetti degni di nota dell’azione delle Banche centrali sia sulle grandezze reali (Pil, occupazione) che su quelle dei prezzi (inflazione), il carattere endogeno della moneta è tornato prepotentemente ad essere riconsiderato in sede scientifica, dopo che la teoria quantitativa, con Milton Friedman, era riuscita ad imporsi dogmaticamente ai tempi della crisi dell’economia keynesiana, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Molti economisti, anche ortodossi, e soprattutto alcuni banchieri centrali, riconoscono oggi il ruolo del credito quale creatore della moneta ed esplicitamente sostengono il punto centrale della Teoria della Moneta Endogena: l’inversione di causalità tra prestiti, depositi e riserve in moneta legale.

E’ bene proporre, a beneficio del lettore, una sintetica, ma non per questo esaustiva, rassegna degli interventi più recenti in argomento, che abbiamo tratto dal sito www.keynesblog.it.

Nel Quarterly Bulletin 2014 Q1, bollettino ufficiale della Banca d’Inghilterra, è apparso un significativo saggio di Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas, del Dipartimento Analisi Monetarie della stessa Banca centrale, intitolato “Money in the modern economy: an introduction” che afferma quanto segue:
a) la grande maggioranza della moneta è creata dalle banche commerciali attraverso i prestiti,
b) le banche non sono intermediarie tra i risparmiatori e i mutuatari. Cioè le banche non prestano i depositi dei risparmiatori, né tanto meno le riserve di moneta legale (cioè quella emessa dalla Banca centrale),
c) le banche non “moltiplicano” le riserve fornite loro dalla Banca centrale (e pertanto le polemiche signoraggiste/austriache sulla “riserva frazionaria” si basano su un modello errato). Il cosiddetto “moltiplicatore monetario”, quindi, non è rilevante,
d) le Banche centrali decidono il tasso di interesse sulle riserve e, attraverso questo, influenzano i tassi di interesse nell’economia. A differenza della spiegazione convenzionale, quindi, non hanno un controllo diretto o un obiettivo di quantità di moneta, ma indiretto, attraverso il “prezzo” della moneta, cioè il tasso d’interesse,
e) i prestiti creano i depositi, a differenza di quanto normalmente si suppone, cioè che i depositi “abilitino” i prestiti.

In questo saggio del Quarterly Bulletin nulla viene detto circa la questione della monetizzazione del deficit pubblico. Come, del resto, è comprensibile in uno studio condotto dal Dipartimento studi di una Banca centrale, quale quella inglese, che, pur in concreto praticando (l’Inghilterra è fuori dall’eurozona) la monetizzazione del deficit pubblico, non può apertamente riconoscerlo perché in via di principio, per divieto normativo, non dovrebbe. Tuttavia il saggio in questione costituisce una presa di posizione in qualche modo ufficiale nel dibattito sulla teoria monetaria.

Víctor Constâncio, vice presidente della Banca Centrale Europea, durante la 26th International Conference on Interest Rates, Frankfurt am Main, 8 December 2011 ha affermato: «Non esiste una teoria accettabile che colleghi in modo necessario la base monetaria creata dalle banche centrali con l’inflazione. Tuttavia, si sostiene da parte di alcuni che le istituzioni finanziarie sarebbero libere di trasformare istantaneamente i prestiti loro accordati dalla banca centrale in credito al settore non-finanziario. Questo si inserisce la vecchia visione teorica sul moltiplicatore del credito, in base alla quale la sequenza di creazione di moneta va dalla liquidità primaria creata dalle banche centrali all’offerta di moneta totale creata dalle banche attraverso le loro decisioni di credito. In realtà la sequenza funziona più che altro nella direzione opposta, con le banche che prima prendono le loro decisioni di credito e poi cercano i finanziamenti necessari e le riserve di moneta della banca centrale. Come Claudio Borio e Disyatat della Banca dei Regolamenti Internazionali hanno scritto: “In effetti, il livello di riserve difficilmente figura nelle decisioni di prestito delle banche. L’ammontare del credito in essere è determinato dalla disponibilità delle banche a fornire prestiti, sulla base del trade-off percezione del rischio/rendimento e della domanda per i prestiti”. Nei settori bancari moderni, le decisioni di credito precedono la disponibilità di riserve nella banca centrale. Come Charles Goodhart ha acutamente sostenuto, sarebbe più opportuno parlare di un “divisore del credito” invece che di un “moltiplicatore del credito».

Alan R. Holmes, Federal Reserve Bank di New York (1969): «Nel mondo reale, le banche estendono il credito, creando i depositi nel processo, e cercano le riserve successivamente».

Finn Kydland e Ed Prescott (Premi Nobel per l’Economia), Federal Reserve Bank di Minneapolis (1990): «Non ci sono prove che siano la base monetaria o M1 [liquidità primaria] a guidarlo [il ciclo del credito], anche se alcuni economisti credono ancora a questo mito monetario. Le serie della base monetaria e di M1 sono generalmente procicliche e, semmai, la base monetaria segue con un po’ di ritardo [il ciclo del credito]».

Charles Goodhart, membro del Comitato per la politica monetaria della Banca d’Inghilterra (2007): «La massa monetaria è una variabile dipendente endogena. Questo è esattamente ciò che gli eterodossi post-keynesiani, da Kaldor, attraverso Vicky Chick, e attraverso Basil Moore e Randy Wray, hanno correttamente sostenuto per decenni, e sono stato dalla loro parte su questo».

Piti Distayat e Claudio Borio, Banca dei Regolamenti Internazionali (2009): «Questo documento sostiene che l’accento sulle variazioni nei depositi indotti dalle politiche [monetarie] è inappropriato. Semmai il processo effettivamente funziona in senso inverso, con i prestiti che guidano i depositi. In particolare, si sostiene che il concetto di moltiplicatore monetario è inesatto e non informativo in termini di analisi delle dinamiche del credito bancario. Sotto uno standard di moneta a corso forzoso e sistema finanziario liberalizzato, non vi è alcun vincolo esogeno sulla fornitura di credito, se non attraverso i requisiti patrimoniali. Un sistema bancario adeguatamente capitalizzato può sempre soddisfare la domanda di prestiti se lo desidera».

Seth B. Carpenter e Selva Demiralp, Federal Reserve Bank (2010): «Nonostante i fatti istituzionali da soli forniscano un supporto interessante alle nostre idee, dimostriamo in maniera empirica che le relazioni implicate dal moltiplicatore monetario non esistono nei dati per la maggior parte delle banche liquide e ben capitalizzate. Le variazioni delle riserve non sono correlate a quelle nel credito, e le operazioni di mercato aperto non hanno un impatto diretto sui prestiti. Concludiamo che il modo in cui nei libri di testo viene affrontato il meccanismo di trasmissione può essere respinto. In particolare, i nostri risultati indicano che l’offerta di prestito bancario non risponde ai cambiamenti nella politica monetaria attraverso un canale del credito bancario».

Jaime Caruana, General Manager della Bank for International Settlements: «Nei fatti, l’espansione del credito bancario è determinata dalla disponibilità delle banche di garantire i prestiti, basandosi sul trade off percepito tra rischio e rendimento e sulla domanda di credito. Un’espansione di riserve bancarie oltre il livello richiesto per precauzione, e/o per soddisfare l’obbligo di riserva, non fornisce alle banche maggiori risorse per l’espansione del credito. Finanziare la variazione degli asset nello stato patrimoniale della Banca Centrale tramite riserve piuttosto che altri strumenti a breve termine come banconote o titoli di Stato, altera solo la composizione della liquidità nel sistema bancario. Come detto, i due sono veri e propri sostituti. […] Questo può essere visto in un’altra maniera. Ricordo che per finanziare politiche di bilancio tramite un’espansione di riserve, la Banca Centrale deve eliminare il costo opportunità di detenerle. In altre parole, deve pagare un interesse sulle riserve pari al tasso overnight che vorrebbe raggiungere, o il tasso overnight deve scendere sino al tasso [pagato sulla, ndt] deposit facility (o zero). Infatti, la Banca Centrale deve rendere le riserve bancarie sufficientemente attrattive rispetto ad altri asset liquidi. Questo li rende perfetti sostituti, in particolare di altri titoli del tesoro a breve termine. Le riserve diventano così solo un altro tipo di asset liquido fra tanti».

James Tobin, Premio Nobel per l’Economia, (1963): «La singola banca non è vincolata da nessun ammontare fisso di riserve. Può ottenere ulteriori riserve per soddisfare gli obblighi di riserva prendendo a prestito dalla Federal Reserve, acquistando “fondi Federali” da altre banche, vendendo o “richiedendo anticipatamente il rimborso” di titoli a breve termine. In breve, le riserve sono disponibili [accedendo, ndt] alla discount window e nel mercato monetario ad un prezzo».

William Dudley, presidente e CEO della Federal Reserve Bank di New York (2009): «Un altro problema collegato è la questione se la Federal Reserve sarà in grado di agire abbastanza rapidamente una volta che decide che è il momento di alzare i tassi. Questa preoccupazione riflette l’opinione che le riserve in eccesso su cui sono sedute le banche sono essenzialmente “esca per il fuoco” che potrebbe rapidamente alimentare l’eccessiva creazione di credito e spiazzare la stretta monetaria della Fed. In termini di immagini, questa preoccupazione sembra convincente, le banche sedute su mucchi di soldi che potrebbero essere utilizzati per estendere il credito con poco preavviso. Tuttavia, questo ragionamento non tiene conto di un punto molto importante. Sulla base di come la politica monetaria è stata condotta da diversi decenni, le banche hanno sempre avuto la possibilità di espandere il credito ogni volta che vogliono. Non hanno bisogno per farlo di un mucchio di “esca per il fuoco”, sotto forma di riserve in eccesso. Questo perché la Federal Reserve si è impegnata a fornire riserve sufficienti a mantenere il tasso sui fed funds al suo obiettivo. Se le banche vogliono espandere il credito e questo fa salire la domanda di riserve, la Fed automaticamente asseconda quella domanda nella conduzione della politica monetaria. In termini di capacità di espandere il credito rapidamente, non fa alcuna differenza se le banche hanno un sacco di riserve in eccesso o meno».

                                                                                                                             Luigi Copertino

(continua)