“El Papa” si fa re per diritto divino

(il disturbo narcistico di personalità si aggrava…)

Settimo Cielo di Sandro Magister

La nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano è stata pubblicata proprio nel giorno, il 13 maggio, in cui l’attenzione di tutti era sull’incontro tra Francesco e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Con l’effetto che ne è stata data notizia poco e male. Quando invece fin dalle sue primissime righe ha segnato una svolta spericolata e senza precedenti nella storia e nella concezione del papato.

Attenzione. La svolta non sta nell’articolo 1 della nuova legge fondamentale, nel quale c’è scritto che “il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza della potestà di governo, che comprende il potere legislativo, esecutivo e giudiziario”.

Fin qui tutto come prima, anche se fa impressione il contrasto tra l’evoluzione “sinodale” del governo della Chiesa in vesti più democratiche, che Francesco dice ogni giorno di voler promuovere, e lo sfrenato assolutismo monarchico con cui di fatto egli comanda sia la Chiesa che il piccolo Stato di cui è “papa re”, concentrando in sé tutti i poteri ed esercitandoli a suo piacimento.

La svolta vera è nel preambolo, anch’esso a firma di Francesco, che così comincia: “Chiamato ad esercitare in forza del ‘munus petrino’ poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano…”.

È in questo ”in forza del ‘munus petrino’” la novità inaudita. Cioè nel far derivare anche i poteri temporali del papa dal suo servizio primaziale alla Chiesa come successore dell’apostolo Pietro. O in altre parole: nell’ammantare di diritto divino non solo il supremo governo spirituale della Chiesa ma anche il governo temporale, sempre da parte del papa, dello Stato della Città del Vaticano.

In realtà, nella dottrina della Chiesa cattolica il “munus petrino” conferito da Gesù al primo degli apostoli non ha nulla a che fare con alcun potere temporale. E la storia ne dà conferma. Fin dalle sue origini e per molti secoli il papato non ha avuto uno Stato proprio. E dopo che nel 1870 ha perduto quel che gli restava dello Stato Pontificio è stato ancora per sessant’anni privo di qualsiasi suo territorio.

Il minuscolo Stato della Città del Vaticano è nato nel 1929 in forza di un trattato tra la Santa Sede e l’Italia. Ma sia prima che dopo è la Santa Sede, non lo Stato, il soggetto titolare di sovranità internazionale. Tra il 1870 e il 1929, quando non esisteva più lo Stato Pontificio e non esisteva ancora lo Stato della Città del Vaticano, la Santa Sede ha mantenuto il diritto di legazione attivo e passivo, aprendo nuove nunziature e accreditando presso di sé i rappresentanti diplomatici di nuovi paesi, come pure sottoscrivendo dei concordati, che per loro natura rientrano sotto il diritto internazionale, e venendo coinvolta in missioni e arbitrati internazionali. Nel solo pontificato di Benedetto XV, tra il 1914 e il 1922, la Santa Sede ha istituito le relazioni diplomatiche con dieci nuovi Stati.

Sempre evitando con somma cura di far proprie dottrine teocratiche di fusione fra trono e altare. Nè nel trattato del 1929, né in altri documenti precedenti o seguenti, nell’arco di secoli, si registra qualcosa di simile, prima del fatale 7 giugno di quest’anno, il giorno in cui entrerà in vigore la nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano.

Certo, le tentazioni sono qua e là affiorate, nella storia della Chiesa cattolica, di ammantare di diritto divino i poteri del “papa re”. Ma sono sempre state respinte. E proprio da esponenti di Chiesa di orientamento ultraconservatore, che uno immaginerebbe invece più disposti a cedere.

Giovanni Maria Vian, docente di letteratura cristiana antica ed ex direttore de “L’Osservatore Romano”, sul quotidiano “Domani” del 21 maggio ha giustamente citato il grande giurista e canonista Nicola Picardi, che riscontrò come “sostanzialmente estranea alla dottrina cattolica” la concezione teocratica, “sulla scorta di quanto formulava nel 1960 un conservatore come il cardinale Alfredo Ottaviani: ‘Ecclesiae non competit potestas directa in res temporales’, e cioè che alla Chiesa non compete la potestà diretta negli affari temporali”.

Prima ancora si può citare Pio IX, cioè proprio il papa che fu privato dello Stato Pontificio, che un anno dopo la perdita, nell’enciclica “Ubi nos” del 1871, protestava sì rivendicando la necessità di uno Stato che tutelasse la “pienissima libertà” del papa di “esercitare in tutta la Chiesa la suprema potestà ed autorità”, ma scriveva che “il civile principato della Santa Sede è stato dato al Romano Pontefice per singolare consiglio della Provvidenza”. Nulla più che “per singolare consiglio”; altro che “in forza del ‘munus petrino’”, come nell’odierna legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano!

Ma più ancora è calzante quanto ha scritto nel 2011 sulla rivista “Barnabiti Studi” lo storico della Chiesa e professore alla Pontificia Università Gregoriana Roberto Regoli, in un dotto saggio sul cardinale Luigi Lambruschini, segretario di Stato con papa Gregorio XVI (1831-1846), l’uno e l’altro con fama – non tutta storicamente fondata – di “biechi reazionari”.

Chiamato a giudicare un testo in via di pubblicazione in “difesa del dominio temporale” della Santa Sede, Lambruschini cominciò con l’obiettare che “il primato fu dato alla persona di Pietro e non alla Sede”.

Arrivato poi al cuore della questione, cioè all’origine del potere temporale della Chiesa romana, Lambruschini ammise sì che è opportuno “per il bene stesso della Religione che il Supremo Capo della medesima abbia uno Stato indipendente, per poter governare colla necessaria libertà ed imparzialità la Chiesa, e i Fedeli sparsi pel Mondo Cattolico”. Ma per subito dopo respingere l’assunto dell’autore del testo, secondo il quale “l’origine de’ Domini temporali della S. Sede è Divina, come lo è l’origine della Cattedra di S. Pietro fissata in Roma”.

Per Lambruschini legare il potere temporale dei papi alla “divina origine della Cattedra di San Pietro” – cioè come oggi al “munus petrino” – “è insostenibile e pericoloso”, perché “se i Dominj temporali fossero assolutamente necessarj al Capo Supremo della Chiesa nel modo espresso dall’Autore [del testo], ne verrebbe di conseguenza che dunque Gesù Cristo sarebbe venuto meno alla sua Chiesa ‘in necessariis’ sul bel principio dell’epoca che la stabilì, poiché per più secoli i Sommi Pontefici non furono certamente Sovrani temporali”.

Lambruschini fu ascoltato e quel testo ritirato. Fino ad oggi. Quando quella tesi “insostenibile e pericolosa” è divenuta ufficiale, con la firma del papa regnante.

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POST SCRIPTUM – Poche ore dopo la pubblicazione di questo post, il professor Pietro De Marco, affermato studioso della vita della Chiesa, già docente di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale, ha inviato questo suo commento critico.

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Carissimo Magister, fai bene, e così l’amico Giovanni Maria Vian, a leggere con attenzione la nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano e a discuterne certe formulazioni. Prezioso il dossier che offri. Sai che per me la potestà del sovrano pontefice è un tema caro, ma ora non ho il tempo di approfondire. Solo una nota.

Temo che tutto sia più sottile e complicato rispetto a come risulta dalle vostre pagine: il profilo della sovranità dei papi non è la “sovranità per diritto divino” ma, come sappiamo, una “potestas” territoriale esercitata a tutela della libertà della sede di Pietro. La “fictio” (non il falso) del “Costitutum” costantiniano fondava così la concessione, da parte del “princeps” per eccellenza, l’imperatore, di una particella del suo “patrimonium” ai successori di Pietro. Su questo territorio, poi “patrimonium Petri”, la sovranità del papa è piena, “in persona Petri” (acuta la distinzione del Lambruschini) ma certo “pro ecclesia”.

La sede apostolica con i suoi “officia” e “munera” può in effetti, per principio almeno, essere ovunque, non legata in sé e per sé a un territorio, ma Pietro è “romano”. Questo rapporto non è semplice da analizzare e realizzare (“auctoritas”, “potestas”, “dominium”; diritto sacro, diritto pubblico) ma esiste, prevalendo la convergenza di sede romana e sede apostolica. Titolare del “patrimonium” è il papa, che solo in quanto papa esercita potestà, non in quanto sovrano tra e come altri; o il “dominium” non avrebbe altra giustificazione, specialmente dopo la caduta dell’ordine cristiano di “ancien régime”.

Per questo, secondo una mia vecchia tesi, il Trattato del 1929 fu e resta di enorme importanza: definisce il legittimo trasferimento di un (piccolo) territorio di uno Stato sovrano (territorio di conquista militare, tra l’altro) alla sede apostolica per ragioni “superiori”, storiche e giuridiche (si potrebbe dire: filosofiche), riconoscendone la pre-esistenza millenaria, la “perfectio” giuridico-politica, e affermando la necessità che tutto questo sia garantito mediante una indipendenza di tipo statuale.

Non vi è dubbio dunque che, accanto alla conseguente legittimazione di diritto internazionale dello Stato della Città del Vaticano (che sanziona l’esistente e prescinde dall’origine), sussiste la “ratio” profonda di questa esistenza politica “sui generis”: ovvero la tutela della piena aut-archia del pontefice, che non riconosce istanza superiore né all’esterno (se non oggi nei termini problematici dell’autorità degli organismi internazionali su terreni circoscritti) né all’interno dello Stato della Città del Vaticano.

Non è teocrazia, propriamente, perché il sacerdote non domina un’autorità laica a lui subalterna; tutto coincide nel sacerdote. D’Avack parlava acutamente di teocrazia ierocratica, perché nello Stato della Città del Vaticano un clero esercita sovranità su sé stesso come ossatura della Chiesa cattolica. Max Weber aveva preferito parlare di ierocrazia. Paolo Prodi ne ”Il sovrano pontefice” vide con profondità l’originalità storica dello stato della Chiesa. Se una formulazione come quella discussa fosse stata adottata sotto Giovanni Paolo II non avremmo (noi, almeno) fatto obiezione. Avrebbe suscitato scandalo altrove, tra gli attuali celebratori di Francesco.

In margine: personalmente non amo la formula “papa re”, che nasce polemica: vi è molto poco della sovranità di un comune “rex” occidentale nel papa; nella formula si perde la specificità, la “ratio”, della sovranità territoriale dei papi.

Altra è la questione della coerenza dello spirito della Legge fondamentale con lo stile e i provvedimenti generali del papa regnante: certo, se si moltiplicano i laici nei ruoli di governo dello Stato della Città del Vaticano, magari fino alla Pontificia commissione e perché no (un domani) alla Segreteria di Stato, e si condiziona ovunque con sinodalità stratificate e diffuse il governo della gerarchia cattolica, si opera una sorta di sdoppiamento, tra un sovrano “absolutus”, in Vaticano, e un papa sempre più impastoiato, nella Chiesa universale.

Ma attenzione: quanto meno il papa è decisore ultimo nella Chiesa in questioni di dogma e morale e diritto, tanto meno se ne giustifica quella tutela personale politico-giuridica, di tipo statuale, che lo Stato della Città del Vaticano rappresenta. È perché possa essere efficacemente capo della Chiesa cattolica, non per avere uno staterello in più, che il successore di Pietro è protetto dal diritto internazionale come persona e “in persona Petri”.

Sappiamo che allo stile intellettuale di papa Jorge Mario Bergoglio ripugna riflettere sistematicamente. È possibile che, nel redigere la norma, si sia voluto rinforzare (e quasi ricordare ai molti distratti) la “ratio” ultima, la “libertas ecclesiae”, per cui la sede apostolica sussiste in un suo territorio sovrano. Allora, se non mi sbaglio del tutto in questa riflessione a caldo, strategicamente non è utile contrastare questo peculiare profilo ecclesiologico dello Stato della Città del Vaticano.

Mio articolo del 2017:

IL “CREDO” DI BERGOGLIO. UN REFERTO CLINICO?

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Bergoglio, riportano fonti certe e filo-bergogliane, ha scritto questa “professione di fede”  poco prima di essere ordinato sacerdote. Le sottolineature sono mie:

Credo

Voglio credere in Dio Padre, che mi ama come un figlio, e in Gesù, il Signore, che ha infuso il suo Spinto nella mia vita per farmi sorridere e portarmi così nel regno della vita eterna.

Credo nella mia storia, permeata dallo sguardo benevolo di Dio, che nel primo giorno di primavera, il 21 settembre, mi è venuto incontro e mi ha invitato a seguirlo.
Credo nel mio dolore, infecondo per colpa dell’egoismo, in cui mi rifugio.
Credo nella meschinità della mia anima, che vuole prendere senza mai dare … senza mai dare.
Credo che gli altri sono buoni, e che devo amarli senza timore, e senza mai tradirli per cercare una sicurezza per me.
Credo nella vita religiosa.
Credo che voglio amare molto.
Credo nella morte quotidiana, ardente, alla quale sfuggo ma che mi sorride invitandomi ad accettarla.
Credo nella pazienza di Dio, accogliente, dolce come una notte estiva.
Credo che papà sia in cielo accanto al Signore.
Credo che anche padre Duarte, mio confessore, sia in cielo, a intercedere per il mio sacerdozio.
Credo in Maria, mia madre, che mi ama e non mi lascerà mai solo. E attendo la sorpresa di ogni giorno in cui si manifesterà l’amore, la forza, il tradimento e il peccato, che mi accompagneranno fino all’incontro definitivo con quel viso, meraviglioso che non so come sia, che sfuggo in continuazione, ma che voglio conoscere e amare. Amen.

Papa Francesco

http://www.ilsacerdote.com/index.php/raccolta-testi/538-25-credo-di-papa-francesco

La fonte adulatoriamente  nota che “il Santo Padre” conserva questo suo Credo “gelosamente” in “ un foglio scolorito dal tempo”. E lo definisce “una sentita professione di fede, scritta «in un momento di grande intensità spirituale»

Ma sant’Iddio, come possibile che una fonte cattolica abbia dimenticato a tal punto la vita di fede vissuta, da vedere in questo scritto “grande intensità spirituale”?  Se questa è una “sentita professione di fede” ,  lo è certamente: fede in sé stesso, nel proprio io, ossessivo riferimento al “Mio”: Credo nella mia storia, nel mio dolore, nella mia anima”, tutto “per me”, anche la Madonna “mia” madre che “mi” ama. A Dio Padre “voglio credere”.

Dico di più: fino a che punto l’adulazione unita al modernismo ideologico rendono così ciechi, da non vedere in questo credo un referto clinico? Ormai lui stesso ha raccontato di essersi sottoposto a psicanalisi: per sei mesi, quando aveva 42 anni. Evidentemente dopo la sua gestione disastrosa del provincialato gesuita, conclusasi con la fuoriuscita di un centinaio di sacerdoti e forse ammanchi monetari (ne parlerò più avanti); un “successo” dopo il quale Bergoglio fu mandato “in esilio” dai suoi superiori come individuo pericoloso, inseguito dalle voci secondo cui “era pazzo, malato”.

Lasciamo perdere la parentesi psicanalitica: sottoporsi a questa pseudo-gnosi – e pseudo-terapia che non curava nulla ed è stata abbandonata dai terapeuti  –  era allora di gran moda ideologica fra i preti progressisti (sempre proni alla penultima moda del “mondo”) a spregio del divieto del Sant’Uffizio. I media adulatori e laicisti  hanno salutato nello psicanalizzato “un papa che smette di essere un’autorità da sedia gestatoria” (soprattutto questo: che smetta di essere autorità),  “ un cattolicesimo, certamente più aperto agli influssi del mondo ma anche meno saldamente certo di sé»: così Pigi Battista, il vicedirettore del Corriere, maggiordomo rispettosissimo dei poteri forti. Ma non siete abbastanza laici, o laicisti, dal non accorgervi quante volte emergono, nei racconti di Bergoglio stesso, nella sua storia personale, e nelle testimonianze di chi lo ha conosciuto, termini psichiatrici?

A molti occhi esercitati e resi attenti   dall’esperienza, spesso dolorosa, i sintomi saltano all’occhio. Per esempio un lettore scorge in Bergoglio un ““disturbo narcisista di personalità”.

Ciò perché, mi scrive, “ho avuto un capufficio con quel disturbo e ci ha reso la vita un inferno. La cosa più brutta di simili persone è il fatto che fanno stare male quanti gli sono vicini, mentre essi sono convinti di non avere niente che non vada. Caratteristiche peculiari sono la presunzione di avere sempre ragione, presunzione di avere “maggior valore” rispetto alle altre persone e pretesa che esso venga sempre riconosciuto; tendenza a sfociare nella depressione o in sfoghi di rabbia incontrollati (la realtà attorno, infatti, resiste ai desideri narcisisti); rancore verso tutti coloro che non assecondano il loro narcisismo, con conseguente colpevolizzazione degli altri, fino ad una vera persecuzione e manipolazione affettiva.
(…) Il mio capufficio, i sintomi li aveva tutti: è un tipo che pretende di avere sempre ragione, rigira e capovolge le situazioni per trovarsi sempre dalla “parte giusta”, colpevolizza gli altri per quanto non va, ha sfoghi di rabbia improvvisi.
Anche il mio ex capufficio, agli occhi di chi ancora non lo conosceva, o non lo conosceva in maniera più intima, appare buono ed addirittura giocoso. (…)

Quando il disturbo giova alla carriera

Spesso alti dirigenti, uomini politici e governanti di successo tradiscono tali tratti sociopatici o psicopatici. Steve Jobs pare abbia avuto la sindrome di Asperger; era un incubo per i suoi dipendenti,che umiliava e insultava. Donald Trump viene accusato ogni giorno dai media ostili di disturbo narcisistico. In Berlusconi, come in Bill Clinton, sono vistosissimi i sintomi della ipomania:  vita sessuale prorompente, attivismo, ottimismo, estroversione. Sono personalità che dormono 4 ore per notte e si svegliano vispi ed energici, piene di progetti, trascinanti. Sono quelle “qualità” (i sintomi) cui devono i loro successi – fino al giorno in cui non rovinano la loro carriera con un scandalo sessuale, facilmente prevedibile all’occhio clinico. Governanti affetti dal narcisismo patologico devastano gli Stati e provocano guerre civili o esterne. Come cattolico fedele, sento di avere non il diritto, ma il dovere, senza alcun intento calunnioso, di porre il problema. Bergoglio ha dato frequenti segni “strani” di impulsiva irresponsabilità, fin da quando fece proiettare immagini di belve e scimmie su San Pietro, per porre la rispettosa domanda: è in questione non la mente di Bergoglio, ma il governo della Chiesa che mi riguarda come credente apostolico romano. Il rischio di uno scisma incombe. Bergoglio è in grado di svolgere il compito che Gesù affidò a Pietro: confermare nella fede i fratelli?

Il tema è spinoso. “Disturbo di personalità” è ciò che in termini meno politicamente corretti, si chiama “malattia mentale”: non qualche difetto di carattere, ma una deformazione assiale della persona in tutte le sue capacità, cognitive, affettive, interpersonali. “Narcisistica” è (cito il Manuale Diagnostico Statistico, DSM 5) la deformazione della personalità caratterizzata essenzialmente da

  • Idea grandiosa di sé (minata nel paziente da intimi sentimenti di inferiorità, vulnerabilità che portano a paura del confronto e ipersensibilità alla critica.)
  • Costante bisogno di ammirazione (che spinge a gesti opportunistici per strappare l’applauso.)
  • Sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta delle altre persone per i propri scopi).
  • Mancanza di empatia soprattutto: ossia incapacità di “mettersi nei panni degli altri”, di riconoscere e rispettare i sentimenti e le necessità del prossimo; non desidera identificarsi nei loro desideri. Il narcisista è “manipolatore”, approfitta senza scrupoli degli altri per raggiungere i suoi scopi, lo calpesta e non ne prova rimorso. Prova spesso invidia, ed è convinto che gli altri abbiano invidia di lui.
  • Crede di essere “speciale”‘e unico e di poter essere capito solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata.

Chi ha visto il film “La Pazza Gioia” di Virzì, ha potuto avere un’idea della malattia mentale narcisistica nel personaggio impersonato da Valeria Bruni Tedeschi. “Beatrice”, così si chiama, sta nella villa psichiatrica dove è ricoverata  come se ne fosse la direttrice, dà ordini alle altre pazienti che disprezza e giudica sue serve, fruga di nascosto nelle loro cartelle cliniche per vedere come può servirsene; seduce l’ex marito – un ricco avvocato che lei ha lasciato per andare con un criminale – e mentre dorme gli svuota il portafoglio per darsi alla pazza gioia con la sua “amica” Donatella, una depressa suicidaria. Per i suoi stessi parenti, persua madre, Beatrice è  una immorale, priva di scrupoli, devastatrice di vite e di averi altrui. Un ritratto perfetto di “disturbo narcisistico della personalità”.

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In “La Pazzza Gioia” Valeria Bruni Tedeschi recita con esattezza clinica il disturbo narcisistico: apparentemente simpatica allegra e vitale, in realtà senza scrupoli, manipolatrice, distruttrice di vite altrui.

Che dire di “Francesco”?

A rileggere le testimonianze di quanti l’hanno conosciuto in Argentina, colpisce la frequenza con cui dalle loro labbra sorgono spontaneamente termini psichiatrici, e spesso descrittivi, a loro insaputa, della turba mentale che abbiamo sopra delineata.

“Non  fidatevi di Bergoglio, è un grande attore”, scrisse nel 2013 Horacio Verbitsky, il giornalista che lo ha accusato di aver non aver difeso (o addirittura consegnato ai carnefici) i preti dissidenti durante la dittatura, denunciandole il lato doppio e istrionesco. E aggiunse, profetico: «Quando celebrerà la sua prima messa in una via di Trastevere o nella stazione Termini di Roma, e parlerà delle persone sfruttate dagli insensibili che hanno chiuso il loro cuore a Cristo, ci sarà chi si dichiarerà entusiasta del tanto invocato rinnovamento ecclesiastico». Ma guai a lasciarsi fuorviare dalle parole di un “professionista”. La sorella di uno dei gesuiti che non avrebbe difeso: «Ha ottenuto quello che voleva. Mio fratello m’aveva avvertita: «Vuole diventare Papa: è la persona più indicata, è un esperto nel dissimulare».

Quando nel 1990 la compagnia di Gesù lo allontanò da Buenos Aires per “esiliarlo” a Cordoba, 800 chilometri più a Nord, la voce fu che “era malato, pazzo”. L’altra voce: Bergoglio continuava ad esercitare una forte leadership personale su una frazione della Compagnia anche dopo che non aveva più ruoli dirigenti, agiva “como un superior parallelo“, influendo su molti gesuiti, in un decennio nel quale più di un centinaio di loro lasciarono l’ordine e il sacerdozio: e la maggior parte dei fuorusciti apparteneva al gruppo di coloro che non stavano dalla parte di Bergoglio ma piuttosto volevano liberarsi di lui”.

Aveva evidentemente reso loro la stessa vita d’inferno che adesso infligge alla Curia romana. E ancor peggio: ha devastato la Compagnia di Gesù in Argentina, l’ha spaccata in uno scisma , ha incenerito un centinaio di vocazioni sacerdotali.

Mancanza di empatia

Uno di questi ex gesuiti è Miguel Ignacio Mom Debussy, 67 anni, ex gesuita, che ha praticamente convissuto con lui per 11 anni: “E’ stato il mio superiore diretto, prima come maestro dei novizi, poi come Provinciale dei gesuiti in Argentina e successivamente come rettore del Colegio Máximo di San Miguel… Bergoglio era molto manipolatore, manipolava le persone, sia seducendole, che minacciandole o punendole, in forma sottile o molto direttamente. Voleva controllare le persone secondo la sua convenienza o per cercare di cooptarle sulla sua linea di pensiero e di azione pastorale e aveva una evidente sete di potere. Per questo dissi in un’occasione “che aveva tratti psicopatici”.

Sulla sua mancanza di empatia, anzi insensibilità patologica, sono a decine gli episodi.

Nella vulgata adulatoria, Bergoglio si sarebbe prodigato presso la giunta militare,rischiando di suo,  per far liberare due gesuiti che erano stati presi a rischiavano di finire desapareciti. Ma uno di loro, Orlando Yorio (è morto nel 2000) durante il proceso a la Junta (luglio 1985) ha dichiarato:

«Non ho indizi che Bergoglio ci abbia fatto liberare, anzi. Informò i miei fratelli che ero stato fucilato – non so se lo disse come cosa possibile o certa – perché preparassero mia madre”.

Insensibilità disumana. Confermata da Mom Debussy, che si trovava nello studio provinciale di Bergoglio quando Yorio, il confratello che era appena stato liberato dai militari della Marina (che lo avevano torturato) chiamò Bergoglio. “Stavo parlando con lui quando ricevette la telefonata – ha rievocato l’ex gesuita – e ascoltai le risposte taglienti e in tono irritato che dava al suo interlocutore – io in quel momento ignoravo chi fosse – in una conversazione che non durò nemmeno un minuto. Quando terminò, mi disse infastidito: «[Era] Yorio, lo hanno rilasciato dall’Esma. “È fatta”, aggiunse, “che non mi dia più fastidio, che si arrangi”. E continuò, molto tranquillamente: “Di cosa stavamo parlando?”.

Parlava così di un confratello che era stato torturato e, spaventato, appena uscito dal carcere, gli chiedeva aiuto al telefono.

“Rispetto a padre Yorio e a padre Jálics [l’altro arrestato], so direttamente e personalmente che Bergoglio li discreditava pubblicamente e continuamente tra di noi; ma lo faceva anche con altri gesuiti che si rifiutavano di seguire la sua linea pastorale o la mettevano in discussione”.

Anche questo è un tratto tipico e costante del disturbo mentale, descritto nei manuali diagnostici. Invece di aver compassione delle persone in stato di debolezza, che hanno bisogno di aiuto, il narcisista patologico le maltratta perché le sente invalidanti, dei pesi morti,  ostacoli al raggiungimento dei suoi obiettivi.

Inoltre: “Per i suoi scopi fa sentire gli altri confusi, colpevoli o sbagliati. Cerca di ottenere la fiducia degli altri per raccogliere informazioni sudi loro .Usa le informazioni personali raccolte per infastidire , ferire o manipolare gli altri.
“Non ha paura di far male agli altri, né rimpianti. “.

Inoltre, “Gode nel vedere che il suo umore ha effetto sugli altri e che può rendere di cattivo umore gli altri”.  Ciascuno dei collaboratori di Francesco può giudicare meglio di noi questo tratto.

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Il sindaco Ignazio Marino, una delle persone che Francesco ha umiliato pubblicamente.

Noi possiamo cercare solo nel suo passato. Perché lì i manuali diagnostici consigliano di guardare. La persona “dà l’impressione che abbia tagliato i ponti con le persone del loro passato? Ha una lista di “persone cattive” che disprezza?”.

Il taglio dei ponti nel passato di Bergoglio è gigantesco: ha tagliato nientemeno che con l’ordine dei gesuiti di cui fa parte. “Il suo passato come provinciale di Argentina fa sì che molti non lo amino”, riconosce persino la sua biografa ed adulatrice ufficiale, la giornalista Elisabetta Piqué: al punto che “quando veniva a Roma come vescovo, non lo invitano ad alloggiare nella casa generalizia di Borgo Santo Spirito”. Che vada a dormire all’Hotel Santa Marta.

Come mai, l’abbiamo visto: ha “messo ordine”  nella Compagnia frantumandola. Quando Arrupe (il generale) lo fa provinciale di Argentina, “Bergoglio è molto giovane e affronta con polso fermo la su prima sfida di governo; sicuramente commette errori”. Lui stesso ha ammesso a Civiltà Cattolica: “Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad aver problemi seri, mi ha creato l’accusa di essere un superconservatore”. Non solo: “lo accusarono di vendere varie proprietà della Compagnia che si trovava in immensi problemi finanziari”, scrive la Piqué. Precisa Ignacio Mom Debussy: “in una riunione interna, successiva al provincialato di Bergoglio, era stata accertata la mancanza di circa 6 milioni di dollari che dovevano essere registrati sui libri contabili e invece non ve ne era nessuna traccia”.

Attenzione: non se li è certo intascati, il provinciale. Non è disonesto nel senso consueto del termine. E’ che una personalità che ha un’idea grandiosa di sé si sente rimpicciolita se obbligata al compito modesto di tenere libri contabili. Un narcisista patologico, leggo nel manuale diagnostico, “ Pensa che rispettare regole e leggi lo rendano ordinario e sotto controllo”. E d’altra parte, i manuali mettono in guardia:  colui che è affetto da questa psicopatia “Può mentire, rubare o falsificare informazioni a discapito di qualche ente. Può sabotare, nascondere o danneggiare proprietà dei propri partner in modo da non poter loro permettere di fare qualcosa”.

Bergoglio ha dal suo passato “una lista di persone ‘cattive’ che disprezza”? Ai tempi della sua elezione, i giornali argentini hanno pubblicato liste di vescovi argentini “cattivi” con cui s’era scontrato per motivi ideologici, di cui – giurava la stampa – Bergoglio si sarebbe vendicato. E così è stato: rimozioni e dimissioni. La biografa-violinista Piqué ha colto dalla viva voce del suo eroe altre “persone cattive” in Vaticano: “Un gruppo che cominciò a fargli la guerra a Roma accusandolo di eterodossia”. Il segretario di Stato Angelo Sodano, il nunzio a Buenos Aires Adriano Bernardini, l’ambasciatore argentino presso la Santa Sede Esteban Caselli, tutti ce l’hanno con lui: perché sono “conservatori” mentre lui è “progressista” (da provinciale, però, era stra-conservatore…). In realtà, si capisce che queste personalità hanno cercato di frenarne l’irresistibile ascesa, perché ne avevano subodorato la pericolosità e la sete di potere. Nelle biografie adulatorie (scritte, come vedremo, sotto la sua dettatura) si parla di “una martellante “campagna di discredito” contro Bergoglio, che trovò sensibile a Roma lo stesso preposito generale della Compagnia di Gesù, all’epoca l’olandese Peter Hans Kolvenbach”, come se fosse inspiegabile e ingiustificata.

Fatto sta che dalla carica di provinciale superiore dell’Argentina che ha coperto dal 1973 al ’79 – e che secondo i suoi biografi era tutto sommato un successo (“un boom di vocazioni”, giunge a scrivere la Piqué), poi viene retrocesso a fare quel che faceva prima, rettore della facoltà di teologia di San Miguel; poi i superiori lo tolgono di lì – “Era in atto una controriforma nel senso contrario a quel che avevo realizzato io”, racconta lui alla biografa – e lo spediscono in Germania: perché si faccia una cultura completando una tesi sul teologo Romano Guardini, che lui – in quasi due anni – non completerà. Dopo di che, appena torna in Argentina su sua insistente richiesta,  lo spediscono a Cordoba, a mille chilometri dalla capitale. E’ chiaro che fanno di tutto per allontanarlo dalla capitale, dove ha creato la sua propria centrale di potere.

Infatti il suo successore nel provincialato, padre Andrés Swinnen, ha spiegato così l’allontanamento di Bergoglio: “Continuava a esercitare una forte leadership personale su una frazione della Compagnia anche dopo che non aveva più ruoli dirigenti”. Si comportò come un “superiore parallelo”, agendo sulla conventicola di suoi adepti, per lo più giovani da lui sedotti (psichicamente) al seminario.

Un comportamento prevaricatore tipico del disturbo, e distruttivo di istituzioni e persone. Nella mia inchiesta in Argentina sul miracolo eucaristico, ho incontrato molti preti, gesuiti e no, che ancora si leccavano le ferite psicologiche inflitte loro da Bergoglio: per lo più lamentavano d’essere stati trattati come collaboratori intimi di Bergoglio, per poi essere buttati via, svuotati e accartocciati come un pacchetto di sigarette vuoto.

L’esilio a Cordoba

A Cordoba fu mandato “in isolamento”. Inseguito dalla voce che era “malato e pazzo”. Lui ha sempre parlato di “castigo” (sottinteso: ingiusto) , di “esilio”, di “tempo di oscurità, di ombre”: la sofferenza del disturbato narcisista lontano dal suo centro di potere.

Ma non ha mai voluto sollevare il velo su quell’esilio. Anzi, ha cercato di farlo dimenticare, come non fosse mai esistito: non è da un simile carattere, che coltiva una idea di sé grandiosa ed eccezionale, riconoscere uno scacco personale.

Così, quando nel 2013 il vescovo di Cordoba, in visita a Roma, lo informò che due giornalisti (Javier Camara e Sebastian Pfaffen), stavano indagando su quei mesi oscuri, intervistando testimoni locali del suo “esilio”, ecco che cosa ha fatto: “Papa Francesco chiamò al telefono i due cronisti non una ma più volte e non mollò più la presa. Intrecciò con loro una fitta corrispondenza via mail. Diede fondo ai suoi ricordi e trasformò il libro in una sorta di sua autobiografia cordobana, con numerosi suoi giudizi e racconti virgolettati”.

Come volevasi dimostrare: invadente, astuto ed ossessivo, ha manipolato i due , li ha “sedotti” con le sue “informazioni”, impedendo loro di condurre un’inchiesta indipendente. Il libro,  “Aquel Francisco“, porta le firme dei due, ma l’autore è lui, Bergoglio, che l’ha scritto e riempito della sua versione dei fatti. Ovviamente, i suoi “nemici” ne risultano sminuiti e messi in cattiva luce dai suoi “giudizi virgolettati”; lui, ne esce ingrandito, martire e santo.

E studioso. “A Córdoba – rivela Bergoglio in ‘Aquel Francisco’ – ripresi a studiare per vedere se potevo procedere un poco nella stesura della tesi di dottorato su Romano Guardini. Non riuscii ad ultimarla…”.

La sua “tesi dottorale su Romano Guardini”, ecco un altro mito su cui Bergoglio ha molto manovrato e fatto ricamare – per nascondere la realtà. Sul sito ufficiale del Vaticano ha fatto scrivere: “Nel marzo 1986 va in Germania per ultimare la tesi dottorale…”, quasi come se l’avesse ultimata.   Avvenire: “Papa Francesco ha trascorso quasi due anni in Germania per leggere e studiare Guardini…”.

http://www.centroculturaledimilano.it/wp-content/uploads/2013/05/Romano-Guardini-rilegge-Bonaventura-Silvano-Zocal-Avvenire.pdf

Quanto a L’Espresso è andato oltre: …”Proprio su Romano Guardini il gesuita Jorge Mario Bergoglio scrisse la sua tesi di dottorato in teologia, a Francoforte nel 1986″.

Sbagliato – ha corretto Sandro Magister – . Bergoglio né scrisse quella tesi né conseguì il dottorato. Questo era piuttosto un suo progetto, al quale dedicò alcuni mesi nel 1986 in Germania, presso la facoltà filosofico-teologica Sankt Georgen di Francoforte. Ma poi lo lasciò cadere”.

La facoltà di teologia e filosofia di Sankt Georgen di Francoforte, ha reso noto che il futuro Papa “passò alcuni mesi presso la facoltà per consigliarsi con alcuni professori su un progetto di dottorato che non è arrivato a conclusione”. Laconica nota, da cui si intuisce che i professori l’hanno visto poco o niente; certo è che  la tesi di dottorato è rimasta “progetto” inconcluso, che di Guardini il Bergoglio non ha probabilmente mai letto una pagina. Infatti nella storica “’intervista di papa Francesco a “La Civiltà Cattolica“, in cui egli dedica ampio spazio ai suoi autori di riferimento, Guardini non c’è”.

Del resto, quando lo mandano in Germania a finire la tesi, ha 50 anni. Un gesuita di 50 anni senza tesi di dottorato, senza cultura superiore! A Francoforte, lo disse lui stesso, andava fino al cimitero dove si vedeva l’aeroporto a “salutare gli aerei che vanno in Argentina”.

Il basso livello di curiosità intellettuale è tipico del narcisista patologico. Lui intende il sapere come un mezzo di potere; ragion per cui (elencano i manuali diagnostico-statistici) invidia chi lo ha: “Se le altre persone ricevono delle lodi e lui no, si sente amareggiato. – . A volte prova a screditare le persone che ricevono dei riconoscimenti o lascia la scena se qualcuno riceve lusinghe perché contrariato”.
E’ il tipo umano che si irrita profondamente in un ambiente dove altri sono evidentemente superiori intellettualmente a lui: “Si sente arrabbiato e contrariato se vede gli altri raggiungere successo o compiere buone azioni. Si sente arrabbiato e contrariato nel vedere la felicità altrui”.

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“Senza motivo”. E anche il cardinal Muller l’ha umiliato volontariamente.

In più, è incapace di solitudine. “E’ di cattivo umore se non riceve attenzioni o se trascorre del tempo da solo”.  Il che spiega alla perfezione come mai abbia scelto di vivere nell’albergo di Santa Marta invece che nelle stanze papali…

Ma il fallito progetto di tesi su Guardini rivela un tratto ancor più importante e fatale di questo malato mentale: la sua inconcludenza.  Vulcanico attivista in apparenza, quando affronta progetti seri, non riesce a portarli a termine. Il che particolarmente dannoso, quando il malato riesce a raggiungere posizioni di leadership.

Altri malati mentali finiscono in ospedali psichiatrici o barboni  senza tetto, per disadattamento sociale. Al contrario, l’affetto da disturbo narcisistico, spesso “ha successo” e “fa carriera”. Il motivo è chiaro: agli altri, queste persone appaiono “fortemente sicure di sé, autoritarie e affascinanti, che riescono a farsi seguire dagli altri; non hanno paura di calpestare, ma nemmeno di correre dei rischi”.

Sono – nel nostro mondo malato – i caratteri “ideali” per salire nella carriera e arrivare al successo politico.

Il guaio è quando arrivano al vertice. Perché allora il loro autoritario  “stile di comando”, le loro rabbie imperiose e punitive, non bastano a nascondere la sconclusionatezza dei progetti, grandiosi ma senza costrutto, impossibili da portare a termine e inefficaci.

Ciò che ormai risulta palese agli osservatori oggettivi delle cosiddette “riforme” di Papa Francesco, tanto applaudito (dai media) come “rivoluzionario” riformatore della Chiesa. Ma questo capitolo richiederà un’altra puntata.