“Vi toglieremo tutto e dovrete essere felici!”
di Martino Mora
-durante la prima Messa green della storia, a Castel Gandolfo, un Leone XIV vestito di verde (altrimenti che green sarebbe?) ha affermato la necessità della “conversione”.
A Cristo? No all’ambientalismo: “Dobbiamo pregare per la conversione di tante persone – ha affermato Prevost – dentro e fuori della Chiesa, che ancora non riconoscono l’urgenza di curare la casa comune. Tanti disastri naturali che ancora vediamo nel mondo, quasi tutti i giorni in tanti luoghi, in tanti Paesi, sono in parte causati anche dagli eccessi dell’essere umano, col suo stile di vita. Perciò dobbiamo chiederci se noi stessi stiamo vivendo o no quella conversione: quanto ce n’è bisogno!”.
Caspita. Quindi si può essere dentro la Chiesa e non essere “convertiti” al green. Mentre quelli fuori debbono convertirsi… anche loro al green.
Come Bergoglio, né più né meno. Come Greta Thunberg.
Intendiamoci: che il consumismo, lo spreco, la bulimia di beni materiali indotti dal capitalismo siano anticristiani non ce ne corre. E se il Papa li denuncia fa benissimo. Un cattolico deve essere distaccato dai beni materiali e estraneo al consumo ipertrofico. Ma qui è ben diverso: si auspica una “conversione” che non è a Cristo, ma è all’ideologia ambientalista. Tutta la malizia infatti sta nel termine “conversione”, in una perversa imitatio (l’ennesima) della dottrina di sempre. Prevost parla di “legge naturale” e intende i diritti umani dell’Onu. Parla di “conversione” e intende l’accettazione dell’ambientalismo. Un incubo.
Il cattolicesimo e il papato sono divenuti una parodia di sé stessi. Da sessant’anni, dal Concilio Vaticano II, sono un grottesco simulacro di ciò che dovrebbero essere. In una rincorsa sempre più folle e disperata alle ideologie dei potenti di turno. Ora c’è persino la Messa green, l’ennesima buffonata di una lunga serie.
La Chiesa da maestra si è fatta allieva. Non è il papa che insegna a Greta Thunberg, ma Greta Thunberg (e chi le sta dietro) che insegna al papa. Che si fa grottesco ripetitore. Tutto questo mi inquieta, mi mette i brividi.
Prevost è il Bergoglio dal volto umano. Cambiano i modi e lo stile, resta ahimè la sostanza: l’autodissoluzione della Chiesa.
Sul genocidio invece non una parola, come ha promeso all’American Jewish Congress
Stragi
Soldato israeliano racconta le uccisioni deliberate di civili
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Pubblicato 2 giorni fa il
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Un riservista israeliano che ha prestato servizio per tre volte a Gaza ha dichiarato all’emittente Sky News, in una rara intervista davanti alle telecamere, che alla sua unità veniva spesso ordinato di sparare a chiunque entrasse nelle aree definite dai soldati come no-go zone, indipendentemente dal fatto che rappresentasse una minaccia o meno, una pratica che, a suo dire, lasciava civili morti sul posto.
«Abbiamo un territorio in cui ci troviamo, e gli ordini sono: chiunque entri deve morire», ha detto. «Se sono dentro, sono pericolosi, bisogna ucciderli. Non importa chi sia».
Parlando in forma anonima, il soldato ha affermato che le truppe uccidevano i civili in modo arbitrario, raccontando che i criteri per aprire il fuoco sui civili variavano a seconda del comandante.
Il soldato è un riservista della 252ª Divisione delle Forze di Difesa Israeliane (IDF). È stato assegnato due volte al corridoio di Netzarim, una stretta striscia di terra che attraversava la Striscia di Gaza centrale all’inizio della guerra, dal mare al confine con Israele. Era stata progettata per dividere il territorio e consentire alle forze israeliane di avere un maggiore controllo dall’interno della Striscia.
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Il militare ha spiegato che quando la sua unità era di stanza ai margini di un’area civile, i soldati dormivano in una casa di proprietà di palestinesi sfollati e tracciavano un confine invisibile attorno ad essa, definendo una zona vietata agli abitanti di Gaza.
«In una delle case in cui eravamo stati, avevamo un territorio molto vasto. Era il più vicino al quartiere dei cittadini, con gente dentro. E c’è una linea immaginaria che, ci dicono, tutti gli abitanti di Gaza conoscono, e che sanno di non poterla oltrepassare. Ma come fanno a saperlo?» si chiede.
Le persone che attraversavano questa zona venivano spesso colpite, ha detto. «Era come tutti coloro che arrivano nel territorio, un po’ come un adolescente che va in bicicletta».
Il soldato ha descritto la convinzione diffusa tra le truppe che tutti gli abitanti di Gaza fossero terroristi, anche quando si trattava di civili palesemente disarmati. Questa percezione, ha detto, non è stata messa in discussione ed è stata spesso avallata dai comandanti. «Non ti parlano molto dei civili che potrebbero venire a casa tua. Come quando ero sulla strada di Netzarim, e dicono che se qualcuno viene qui, significa che sa di non dover essere lì, e se continua a venire, significa che è un terrorista», ha detto il riservista dell’esercito dello Stato Ebraico.
«Questo è quello che ti dicono. Ma non credo che sia vero. Sono solo persone povere, civili che non hanno molta scelta». Ha affermato quindi che i criteri per aprire il fuoco sui civili cambiano a seconda del comandante. «Potrebbero essere fucilati, potrebbero essere catturati», ha dichiarato a Sky News. «Dipende molto dal giorno, dall’umore del comandante».
Il soldato ha rammentato un episodio in cui un uomo aveva oltrepassato il confine ed era stato colpito. Quando un altro uomo si era avvicinato al corpo, si era deciso che sarebbe stato catturato. Ore dopo, l’ordine cambiò nuovamente: sparare a vista a chiunque oltrepassi la «linea immaginaria».
In un’altra occasione, la sua unità era dislocata nei pressi della zona di Shujaiya, nella città di Gaza. Descrisse alcuni palestinesi che rovistavano tra rottami metallici e pannelli solari da un edificio all’interno della cosiddetta «no-go zone».
«Certo, non ci sono terroristi lì», ha detto. «Ogni comandante può scegliere da solo cosa fare. È un po’ come il Far West. Alcuni comandanti possono davvero decidere di commettere crimini di guerra e azioni malvagie senza subirne le conseguenze».
Il soldato ha affermato che molti dei suoi compagni credevano che non ci fossero innocenti a Gaza, citando l’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas, che ha ucciso circa 1.200 persone e ne ha prese in ostaggio 250. Da allora, decine di ostaggi sono stati liberati o tratti in salvo dalle forze israeliane, mentre circa 50 rimangono prigionieri, tra cui circa 30 che Israele ritiene morti.
Ha ricordato che i soldati discutevano apertamente degli omicidi. «Direbbero: “sì, ma queste persone non hanno fatto nulla per impedire il 7 ottobre, e probabilmente si sono divertite quando è successo a noi. Quindi meritano di morire”».
«La gente non prova pietà per loro» ha dichiarato. «Penso che molti di loro sentissero davvero di fare qualcosa di buono. Credo che il nocciolo della questione sia che, nella loro mente, queste persone non sono innocenti».
Mons. Strickland contro l’assedio sinodale all’interno della Chiesa. «Quando i lupi indossano paramenti…»
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Pubblicato 2 giorni fa il
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Renovatio 21 pubblica questo messaggio di monsignor Giuseppe Edoardo Strickland, vescovo emerito della diocesi di Tyler, Texas, apparso su LifeSiteNews.
Cari fratelli e sorelle in Cristo,
Ci sono momenti nella storia della Chiesa in cui le pecore devono guardare in alto, non a causa delle tempeste del mondo, ma perché i pastori stessi sono rimasti in silenzio… o peggio, si sono uniti ai lupi.
San Paolo una volta ammonì la Chiesa di Efeso con acuta chiarezza:
«So infatti che, dopo la mia partenza, entreranno tra voi de’ lupi rapaci; i quali non risparmieranno il gregge» (At 20,29).
E quei lupi sono arrivati. Indossano paramenti sacri. Parlano di misericordia, ma deridono la verità. Predicano l’inclusione, ma escludono la fedeltà al Deposito della Fede. Benedicono ciò che Dio ha chiamato peccato.
Stiamo vivendo un assedio, non dall’esterno, ma dall’interno. Questa è l’ora del tradimento, non dissimile dal giardino del Getsemani. Ma questa volta i traditori indossano mitre e portano pastorali.
La Croce è ancora qui. L’Eucaristia è ancora qui. Ma siamo circondati da mercenari che abbandonano le pecore – o peggio ancora, le conducono tra le spine.
Voglio essere chiaro. Questa crisi non è semplicemente confusione: è una rivoluzione calcolata. Una rivoluzione contro la dottrina. Contro l’ordine. Contro la natura stessa della Chiesa, istituita divinamente da Cristo.
E quindi oggi voglio accompagnarvi in un viaggio in tre parti attraverso questa realtà.
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M. Scott Peck iniziò il suo famoso libro, «La strada meno battuta», con tre parole: «la vita è difficile». Ma anche questa semplice verità è ora rifiutata, non solo dal mondo, ma anche all’interno della Chiesa. Ci viene detto che la Croce è facoltativa. Che la santità è opprimente. Che la dottrina divide, mentre il dialogo unisce.
Ma Cristo non ha offerto il dialogo. Ha offerto le Sue ferite. Non ha costruito un centro comunitario: ha fondato una Chiesa come un «edifizio eretto sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendone pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2, 20).
E disse chiaramente: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24).
Dove sono ora quelle parole?
Invece, ascoltiamo sermoni sugli ecosistemi e sulla fratellanza umana. Ci vengono dati slogan sinodali, ma nessun invito al pentimento. Ci vengono consegnati documenti, non dottrine – consultazioni, non comandamenti.
Il beato Papa Pio XII ammonì:
«Il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato» (Radiomessaggio al Congresso Catechistico Nazionale degli Stati Uniti a Boston, 26 ottobre 1946).
E ora, il peccato non viene più nemmeno menzionato. È rinominato. È «accompagnato». È «pastoralmente benedetto». Ma mai denunciato.
Padre James Martin continua a benedire le unioni omosessuali. Il cardinale McElroy minimizza il peccato sessuale in nome dell’«inclusione radicale».
La Messa latina tradizionale – la Messa dei santi – viene soppressa. E lo stesso Deposito della Fede viene trattato come un pezzo da museo da rimodellare.
Ma come ha affermato Papa Benedetto XVI: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande» (Lettera ai Vescovi, 7 luglio 2007).
E papa san Pio V proclamò solennemente: «La presente Costituzione non potrà mai essere revocata o modificata, ma rimarrà per sempre valida e avrà forza di legge» (Quo Primum, 14 luglio 1570).
Ci crediamo? O seguiamo la «nuova via» promossa dal cosiddetto Sinodo sulla Sinodalità?
Il profeta Isaia vide questo giorno e gridò: «Guai a voi che dite male il bene e bene il male, che fate tenebre la luce e luce le tenebre» (Is 5,20).
E Papa San Pio X ammoniva: «i fautori dell’errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma (…) si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista» (Papa San Pio X, Pascendi Dominici Gregis, 8 settembre 1907).
Stiamo vivendo quella profezia.
Il Sinodo sulla sinodalità è diventato una cortina fumogena per la trasformazione ecclesiale. Non rinnovamento, ma reinvenzione. Non Pentecoste, ma Babele.
Ci viene detto di «ascoltare il Popolo di Dio». Ma non quando queste persone si inginocchiano per la Messa in latino. Non quando invocano riverenza, penitenza o purezza. No, allora quelle voci vengono liquidate come troppo rigide, troppo tradizionali.
Ma la voce di Cristo continua a parlare: attraverso la Scrittura, la Sacra Tradizione e il Magistero della Chiesa correttamente tramandato.
«Non illudetevi: Dio non si lascia deridere» (Gal 6, 7).
Cari amici, si conclude così la prima tappa del nostro viaggio. Abbiamo dato un nome alle ferite.
Nella seconda parte, esamineremo il meccanismo della rivoluzione; la struttura sinodale stessa: il suo linguaggio, i suoi obiettivi e i suoi gravi pericoli. Dobbiamo sapere come si muove il nemico se vogliamo proteggere il gregge.
Eppure non dobbiamo disperare. Perché quando i lupi incombono, il Pastore rimane. Mentre i mercenari fuggono, i santi sorgono. Mentre gli altari vengono derisi, la Lampada del Santuario arde ancora perché il Tabernacolo non è vuoto.
Tenetevi forte.
«Nel mondo avrete tribolazioni; ma confidate; io ho vinto il mondo!» (Gv 16, 33).
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Parte II: L’assedio sinodale
Entriamo ora nella seconda fase di questo avviso:
I lupi hanno un nome. Anche le loro tattiche hanno un nome: sinodalità.
Non la sinodalità come la Chiesa l’ha sempre intesa – consultazione collegiale sotto l’autorità del Papa – ma una ridefinizione. Un «nuovo modo di essere Chiesa», come lo chiamano ora.
Ma sia chiaro: ciò che viene proposto sotto la bandiera della sinodalità non è altro che la decostruzione della Chiesa gerarchica, sacramentale e apostolica e l’ascesa di qualcosa di nuovo, indefinito e pericoloso.
Secondo la presentazione ufficiale del Vaticano, il Sinodo sulla sinodalità è descritto come un «processo di ascolto e discernimento». Ma ciò che ascolta sono i sentimenti, e ciò che discerne è il compromesso.
Invece di proclamare il Vangelo, questo Sinodo cerca di rifare il Vangelo a immagine dell’uomo decaduto.
I documenti preparatori del Sinodo parlano di «inclusione» e di «camminare insieme». Ma verso cosa?
- Verso l’accettazione delle relazioni omosessuali
- Verso le benedizioni per i divorziati risposati
- Verso l’inversione del sacerdozio maschile attraverso una spinta verso il diaconato femminile
- Verso la soppressione della Messa latina tradizionale, nell’illusione che sia una minaccia all’unità