IL DIO NASCOSTO E RIVELATO seconda parte – di Luigi Copertino

IL DIO NASCOSTO E RIVELATO

 SULL’IMPOSSIBILE “CANONIZZAZIONE” DI MARTIN LUTERO

RAGIONI STORICHE, SPIRITUALI E TEOLOGICHE

SECONDA PARTE

NASCOSTO E RIVELATO

Il Nome di Dio è essenzialmente impronunciabile. Con questo si vuol dire che la Sua Essenza è, di per sé, inaccessibile all’uomo. Nella Bibbia il ricorso al tetragramma YHWE sta ad indicare esattamente questa inaccessibilità dell’uomo all’Essenza Divina. Il tetragramma, infatti, è appunto impronunciabile a meno di non vocalizzarlo, come è stato fatto, nella forma “Yawhè”. Che Dio non è accessibile, dunque non è “cosificabile” in schemi razionali, è testimoniato anche dall’intraducibile «Ego sum qui sum» di Esodo, III, 14. Questo “Io sono”, con il quale YHWE risponde alla domanda di Mosé circa la Sua identità, suona essenzialmente apofatico: «Io sono l’Io ­sono», «Io sono l’Essente», «Io sono nel mio Essere». E’ un modo per dire quel che non sarebbe possibile dire a meno che – ed è qui il punto focale e fondamentale – Dio stesso non si rivela rendendosi accessibile all’uomo che voglia aprirgli il cuore ed accettare il Suo Amore. Dio si è rivelato innanzitutto nella creazione perché creando Egli si è pronunciato ed ha reso possibile all’uomo pronunciare il Suo Nome, i Suoi Nomi (l’Altissimo, il Misericordioso, l’Onnipotente, il Signore). Ecco perché è stato legittimo vocalizzare il tetragramma nella sua forma Yawhé. Dopo essersi rivelato Egli comanda a Mosè: «Sic dices filiis Israel: QUI EST misit me ad vos» ovvero «“Colui che è”, “l’Essente”, “il Sempre­Presente” mi ha mandato a voi».

Nel “Cantico di frate Sole”, San Francesco mostra chiara consapevolezza della contemporanea impronunciabilità e pronunciabilità del Nome di Dio. Francesco inizia il Cantico lodando i Nomi di Dio ma riconoscendo, in tal modo, l’inacessibilità della Sua Essenza a meno che Egli stesso non si pronunci, non si riveli, nella sua creazione, che appunto l’assisiate esalta come Magna Opera del Suo Amore Infinito: «Altissimo, onnipotente, bon Signore,/tue so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione.
// A te solo, Altissimo, se confàno /e nullo omo è digno te mentovare
».

E’ significativo che Dio si riveli attraverso il tetragramma ossia attraverso un Nome impronunciabile che si rende pronunciabile perché questo indica che Lui è Verbo, è Parola di Dio, è Parola che Dio pronuncia per creare. Ecco perché Giovanni, nell’incipit del suo Vangelo, ha potuto proclamare che il Verbo è presso Dio, anzi che il Verbo è Dio e che tutto è stato fatto per mezzo di Lui, del Verbo. Dal canto suo, Paolo, proprio in virtù del fatto che Dio stesso si è rivelato ed ha reso pronunciabile il Suo Nome dall’uomo, nell’inno cristologico della Lettera ai Colossesi, 1, 15-17, ha potuto dire di Lui: «Egli è immagine del Dio invisibile,/generato prima di ogni creatura;/poiché per mezzo di lui/sono state create tutte le cose,/quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: …/ Tutte le cose sono state create/per mezzo di lui e in vista di lui./Egli è prima di tutte le cose/e tutte sussistono in lui».

La Qabbalah, ossia la Tradizione, ebraica – come notava Julio Meinvielle, esistono due diverse tipologie di Qabbalah, una pura e conforme alla Rivelazione ed un’altra spuria di tendenza panteista – è scienza sapienziale dell’alfabeto divino, ma anche dei numeri, quindi numerologia, dato che tra lettere e numeri sussiste stretta correlazione anche grafico-simbolica discendendo le une e gli altri dalle forme visibili delle costellazioni celesti. La Qabbalah pura adora, nel silenzio, il Mistero della Lettera Santa, del Verbo giovanneo e paolino, Fonte della Vita perché Volto del Vivente. Ma la Qabbalah spuria, al contrario, ha cercato di permutare e manipolare, con magico e iniziatico calcolo, le lettere-numeri del tetragramma per impadronirsi, con spirito prometeico, del segreto della Vita nell’illusione di sostituirsi a Dio nel creare la vita. Tragica metafora della volontà di potenza della scienza e della tecnica moderna che, ridotta la vita ad una formula bio-chimica, pretende anche di manipolarla per clonare animali ed uomini. La leggenda ebraica del Golem, ripresa dalla poesia di Borges, ammonisce l’uomo dal seguire la sua superbia paventandogli in anticipo a quale faustiano contrappasso va incontro nel suo orgoglio: «Il rabbino contemplava la sua opera con tenerezza, /Ma non senza orrore. Fui saggio,/davvero, pensava, nel fabbricare questo sgorbio/e nel lasciare l’Astenersi, sola saggezza?!» (“Il Golem” di Jorge Louis Borges).

La Qabbalah pura, quella rivelata, quella di san Giovanni evangelista – il discepolo che ascoltava, con il capo chinato sul suo petto, il Cuore di Gesù – e quella di san Paolo, ha invece sviluppato, in ambito cristiano, una mistica di umile contemplazione del Nome e degli Attributi di Dio che è anche una risposta cristiana all’ardire della Qabbalah spuria. Una mistica, quella cristiana, che dallo Pseudo-Dionigi Areopagita fino a Padre Pio da Pietrelcina, passando per Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Teresina di Lisseaux e tanti, tantissimi, altri, si pone in contemplazione e ascolto del Dio inaccessibile che per amore dell’uomo si rivela e si offre per essere accolto e per accogliere in Sé, nel suo abbraccio “materno”, l’uomo che riconosce umilmente la sua ontologica e partecipata sussistenza in Lui.

Paolo di Tarso, Ireneo di Lione,

La ragione, pur importante – anzi, componente essenziale, assieme alla volontà, dell’atto di fede – non può esaurire la fede stessa senza dissolverla, poiché la metterebbe in pieno potere dell’uomo e toglierebbe a Dio la sua iniziativa prioritaria e indispensabile. E’ Dio, l’Inaccessibile, che si rivela rendendo possibile all’uomo pronunciare il Suo Nome ma questo non significa, come ha erroneamente ritenuto Lutero, che la ragione e l’uomo sono nulla agli occhi di Dio, il Quale, anzi, si piega kenoticamente sulla sua creatura per soccorrerla laddove essa non può andare oltre per via naturale ossia ai confini superiori della razionalità. La fede si dissolverebbe nella ragione umana e, dunque, non avrebbe più all’origine la misteriosa e gratuita iniziativa divina, se Dio stesso non si rilevasse. Il Dio apofatico è anche, contemporaneamente, catafatico: «ciò che d’Iddio è conoscibile è manifesto in essi: Iddio, infatti, lo manifestò ad essi. Poiché le cose invisibili di lui sono scorte dal pensiero fin dalla creazione del mondo attraverso le opere di lui, sia la possanza eterna di lui sia la divinità …» così Paolo in Rom. I, 19-21. Sicché valgono entrambe le affermazioni: la fede non si può ridurre ad una semplice conseguenza logica ma anche che l’intelligenza esige di sapere “perché” deve credere. S. Tommaso d’Aquino: «Non crederei se non vedessi che devo credere». L’intelligenza non è un nulla perché essa, ben usata, vede le prove e le garanzie che la fede possiede per altre, non opposte, strade.

Ireneo di Lione, uno dei maggiori tra i Padri latini della Chiesa, nel suo “Adverus haereses”, II, 9,1, spiegava: «Gli antichi inneggiarono all’unico Dio creatore del cielo e della terra. Altri uomini, dopo di loro, furono richiamati a questa verità dai profeti di Dio. I pagani lo impararono dalla creazione stessa. Essa infatti mostra chi la creò, l’opera addita il suo autore, il mondo rivela chi lo compose. La Chiesa intera, diffusa su tutto il mondo ricevette questa tradizione dagli apostoli».

Oggi, rovinosamente andata in frantumi la gabbia dello scientismo grazie alla rivoluzione scientifica del XX secolo, sappiamo che le verità scientifiche non sono mai assolute ma sono sempre relative e rivedibili. Esse, se non falsificate, esprimono nel proprio ambito una verità ma soltanto in senso parziale. Quindi, la scienza, pur approssimandosi alla certezza ontologica, non potrà mai dire l’ultima parola sulla realtà e quanto sta dietro di essa. La realtà è creata da Dio. L’Essenza Divina supera infinitamente la nostra capacità di comprenderLa e pertanto di comprendere in senso assoluto anche la creazione. Questa, infatti, è certamente affidata all’uomo che Dio ha dotato degli strumenti per gestirla ma non per conoscerla o possederla nella sua interezza e intima natura. Ed è proprio questo nostro limite naturale che ci rammenta la nostra creaturalità, ci ricorda che non siamo noi il Creatore. Diverse da quelle scientifiche, per loro natura relative, sono le verità teologiche, i dogmi, che discendono dalla Rivelazione. Esse, se colte mediante la fede e la Grazia, ci consentono di comprendere qualche cosa del Divino e di essere introdotti al Suo Mistero. Ecco perché l’apostolo ha potuto dire «Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem» (Cor. I, 13,12). Sulla base di questo insegnamento di san Paolo, la spiritualità, la teologia e la filosofia medioevale colsero la realtà come simbolo della Trascendenza e la natura come una complessa tessitura mediante la quale Dio, insieme, celava e svelava la Verità ossia Sé Stesso. Dio si riflette nel mondo e la missione dell’uomo è, quindi, quella di leggere nello specchio per cercarvi le chiavi interpretative della volontà divina.

Agostino d’Ippona

Aurelio Agostino, nella sua riflessione, mistica più che semplicemente teologica, ha colto molto bene l’inaccessibilità apofatica di Dio nel momento stesso in cui Egli si rende catafaticamente accessibile all’uomo che lo cerca. Per Agostino la Sapienza che ha creato tutte le cose è nell’intimo dell’uomo che, per farne esperienza, deve allontanarsi dalle creature. Le quali, se nel cammino verso Dio possono essere di impedimento quando sono idolatrate, tuttavia esistono in Lui e per Lui e non esisterebbero senza di Lui. Sicché le creature ontologicamente sono sempre “cosa molto buona” (Gen. 1,31) perché la Verità si coglie nelle cose create. L’Ipponate, che leggeva la filosofia platonica alla luce della Rivelazione (e non il contrario come troppo facilmente alcuni hanno ritenuto), ha espresso questa sua sperimentale convinzione in alcune tra le sue pagine più belle, di sapore oltretutto eucaristico, che è inevitabile richiamare perché esse sono il fondamento della teologia e della mistica cristiana più autentica.

«Ammonito da quegli scritti (le opere dei platonici, nda) a guardare in me stesso, entrai nel mio intimo sotto la tua guida, e potei farlo perché “ti sei fatto mio sostegno” (Sal. 29,11). Vi entrai, e  vidi con l’occhio pur ottenebrato dell’anima una luce immutabile, che stava al di sopra del mio sguardo e al di sopra della mia stessa intelligenza. E non era questa luce ordinaria e visibile a tutti con gli occhi del corpo, né una luce più forte ma sempre dello stesso tipo, come se splendesse di gran lunga più luminosa e tutto riempisse con la sua grandezza; non era una luce come questa, ma tutta un’altra cosa dalle luci di quaggiù. Né stava al di sopra della mia intelligenza come, ad esempio, l’olio sta sopra l’acqua o il cielo sopra la terra, ma era superiore a me perché essa mi ha creato, e io inferiore perché creato da lei. Chi conosce la verità conosce quella luce, e chi la conosce, conosce l’eternità. L’amore la conosce. O eterna verità, vero amore, eternità desiderata! Tu sei il mio Dio, a te sospiro “notte e giorno” (Sal. 1,2). Appena ti conobbi, tu mi sollevasti per farmi capire che c’era qualcosa che avrei potuto vedere, ma ancora non ero capace di vederlo. Irraggiando con forza la tua luce su di me, tu colpisti la mia vista malata, e io tremai tutto d’amore e di timore; mi accorsi di essere lontano da te, in una regione diversa (Cf. Lc. 15,13) e mi sembrava di udire la tua voce dall’alto: “Io sono il cibo dei forti: cresci e ti ciberai di me; non sarai tu a trasformarmi in te, come fa il nutrimento per il corpo, ma tu, piuttosto, ti trasformerai in me”. Capii allora che “hai ammaestrato l’uomo per la sua iniquità e hai fatto consumare la mia anima come una tela di ragno” (Sal. 38,12), e dissi: “Forse che la verità non esiste per il fatto che non è una realtà estesa nello spazio né finito né infinito?”. E tu mi gridasti di lontano: “Anzi, Io sono Colui che sono” (Es. 3,14). Io udii come si ode nel cuore, e non avevo più motivo per dubitare; ormai mi sarebbe stato più facile dubitare della mia vita che non dell’esistenza della verità, che si coglie nelle cose create» (“Confessioni”, Libro 7, X).

Agostino ci sta dicendo che se la Verità si coglie nella cose create non è possibile svalutare il mondo, come facevano i neoplatonici, quasi che esso fosse solo ombra e non anche carne di quella Verità. Di fronte alla Maestà di Dio le creature, che non hanno autonoma consistenza, appaiono come nulla ma, proprio perché creature da Dio volute per il Suo Infinito Amore, esse, nella dipendenza, tuttavia sono ed hanno consistenza. Ed infatti egli così continua

«Le creature esistono e non esistono. Osservai le altre cose a te sottoposte, e capii che esse non hanno totalmente l’esistenza, ma neppure ne sono prive del tutto. Esistono, certamente, perché provengono da te, ma anche non esistono, perché non sono ciò che tu sei: esiste veramente solo ciò che rimane immutabile. “Per me è bene restare unito al mio Dio” (Sal. 72,28), perché, se non rimango in lui, non rimarrò neppure in me stesso. Egli, invece, “che è per sempre, rinnova tutte le cose” (Sap. 7,27); “tu sei il mio Signore, perché non hai bisogno dei miei beni” (Sal. 16,2)» (“Confessioni”, Libro 7, XI).

Quindi le cose sono buone proprio perché esistono, tutto ciò che esiste è un bene mentre il male, per questo stesso motivo, non è una cosa, altrimenti sarebbe un bene, ma è soltanto deficienza di essere, ossia nichilismo

«E mi si rivelò chiaramente la bontà delle cose corruttibili, in quanto esse non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi e neppure se non fossero in qualche misura beni. Se fossero sommi beni, non sarebbero corruttibili, e se non fossero beni, non ci sarebbe in esse nulla da corrompersi (…) tutte le cose che si corrompono subiscono una diminuzione di bene. Se poi venissero private di ogni bene, non esisterebbero più assolutamente (…). Dunque, se vengono private di ogni bene, non esistono più per niente; finché esistono, sono un bene. Ciò significa che qualunque cosa, per il fatto che esiste, è un bene, e quel male di cui (quando era manicheo, nda) andavo cercando la provenienza, non è una sostanza, poiché se lo fosse, sarebbe un bene (…). E così vidi e mi risultò chiaro che tu hai fatto buone tutte le cose, e che non esiste nulla che non sia creato da te. Le singole cose create esistono perché sono buone; anche se non tutte nella stessa misura; prese poi nell’insieme sono molto buone. Infatti il nostro Dio ha fatto “molto buone tutte le cose” (Gen. 1,31)» (“Confessioni” Libro 7, XII).

Il male non è una sostanza ed infatti Dio non ha creato il male perché in Lui non c’è il male ma solo la somma Bontà. Il male, la tendenza al nulla, viene dall’Avversario che odia la creazione come odia l’uomo nella cui carne il Verbo si è incarnato, scelta inconcepibile per colui che, preso dall’ebbrezza dell’orgoglio mistico di essere puro angelo e il più vicino alla Somma Purezza che è Dio, ha visto nella progettata Incarnazione un “insozzarsi” dello Spirito con l’oscura materia, disprezzando così ciò che Dio ha creato e che perciò è buono perché tutto ciò che esiste è buono – e nulla è cattivo – anche se secondo una gradualità dipendente dalla misura di essere donato a ciascuna cosa, giacché l’Invisibile si manifesta attraverso il visibile. Questo fu il peccato di Satana quando urlò il suo “non serviam”, disconoscendo come suo Creatore quel Dio che, secondo la follia del suo orgoglio angelico, abbassandosi per amore fino alla creatura di carne non avrebbe più avuto diritto ad essere adorato come Dio mentre tale diritto ora sarebbe dovuto spettare a lui. Per questo egli tentò l’uomo ed anche il Dio Umanato per farsi adorare, riuscendo nell’intento con il primo Adamo ma fallendo con il Secondo Adamo.

«In te il male non c’è assolutamente, e non solo in te, ma neppure nel creato preso nella sua universalità, perché non esiste al di fuori qualcosa che possa insinuarvisi a corrompere l’ordine che tu vi hai stabilito. Se però guardiamo le singole parti del creato, alcune sono ritenute come cattive, in quanto non sono in armonia con certe altre; ma anch’esse sono buone in quanto sono in armonia con qualcosa. In se stesse, poi, sono senz’altro buone. (…). Lungi da me il pensiero che queste cose sarebbe meglio che non ci fossero! E’ vero che si può desiderare che siano migliori, però già devo ringraziarti anche soltanto considerando queste. (…). Io ormai non potevo desiderare che esistessero cose migliori poiché riflettendo su tutte, con una valutazione più saggia, giudicavo sì le cose superiori un bene più grande di quelle inferiori, ma ritenevo ancora più buone tutte le cose prese nel loro insieme. (…). Certo non giudicano rettamente coloro ai quali dispiace qualcosa della tua creazione, così come non era sano il mio giudizio quando mi dispiacevano molte delle cose da te create. (…). Ho rivolto … lo sguardo (sulle) … cose e ho visto che esistono grazie a te e in te (…). E domandandomi poi che cosa fosse il male, trovai che esso non è un essere che esiste in sé, ma è il pervertimento della volontà che si allontana dall’essere sommo che sei tu, Dio (…). Ero stupito di ritrovarmi ormai ad amare te … ma nello stesso tempo, non sapevo godere stabilmente del mio Dio (…). Cercavo le ragioni per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti che terrestri (…). Così giunsi, in un lampo di commossa intuizione, a ciò che è. E allora vidi l’invisibile che è in te reso visibile attraverso le cose create (…). Cercavo la via per ottenere la capacità di gustare te, ma non potevo trovarla finché non avessi aderito al “Mediatore fra Dio e gli uomini, l’Uomo Cristo Gesù” (1 Tm 2, 5), “che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9, 5), e che chiama e dice: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv. 14, 6). Egli, a quel cibo che io non ero capace di prendere, mescola la carne perché “il Verbo si è fatto carne” (Gv. 1, 14) proprio al fine di rendere come latte per noi bambini quella tua  Sapienza con la quale creasti l’universo. Non ero così umile da riuscire ad avere in me l’umile mio Dio Gesù, né capivo che cosa significasse la sua umiltà. Il tuo Verbo, infatti, che è la verità eterna e si erge superiore a quanto v’è di più alto nel creato, innalza fino a sé chi gli si assoggetta, e nello stesso tempo si è edificato tra le bassezze di quaggiù un’umile dimora fatta del nostro fango. In questo modo vuol staccare da se stessi coloro che accettano di assoggettarglisi e attrarli a sé, guarendone l’orgoglio a alimentandone l’amore. Ha impedito così che andassero troppo lontani contando se stessi ma piuttosto li ha fatti sentire deboli facendo vedere ai loro piedi la Divinità resa debole perché partecipe del nostro stesso vestito di carne. Stanchi, si sarebbero appoggiati a lei, ed essa alzandosi li avrebbe sollevati con sé» (“Confessioni” Libro 7, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XVIII).

Per chi, come Agostino, comprende il Mistero di Dio non può non sorgere spontanea, in forma di poesia, la preghiera del cuore

«Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me, e io stavo fuori, ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le creature che, se non esistessero in te, non esisterebbero per niente. Tu mi hai chiamato, hai gridato, il tuo grido ha vinto la mia sordità; hai brillato, e la tua luce ha vinto la mia cecità; hai diffuso il tuo profumo, e io l’ho respirato, ed ora anelo a te; ti ho gustato, ed ora ho fame e sete di te; mi hai toccato, ed ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace» (“Confessioni”, Libro 10, XXVII).

Tommaso d’Aquino

«Non c’è che un Dio e questo Dio è l’essere: tale è la pietra angolare della filosofia cristiana; e non fu posta né da Platone né da Aristotele ma da Mosé», così Etienne Gilson spiega il fondamento stesso della filosofia cristiana, di ogni filosofia che voglia dirsi cristiana: Dio è l’essere perfetto, vero, supremo, tutto il resto è frutto del suo atto creativo d’Amore, atto libero, gratuito e consapevole.

Orbene, questo è stato il vero ed unico metro valutativo con cui Tommaso d’Aquino ha fatto filosofia e con il quale si è accostato ad Aristotele, non per diventare aristotelico ma piuttosto per elaborare una filosofia cristiana usando la materia aristotelica.

Nel quadro di una filosofia cristiana i problemi insoluti della filosofia greca risultano modificati e risolti. Nel contesto greco Dio è colui che da forma al mondo ma forgiandolo da una materia pre-esistente (Platone) oppure è colui che attira s è tutte le cose, essendone causa finale, ma senza averle create (Aristotele). Il Dio dei filosofi ellenici non da l’essere ma solo un certo modo di essere. Nel contesto cristiano, quello di Tommaso, Dio è la Fonte dell’essere, di tutto l’essere, sicché Egli non è solo creatore delle forme degli esseri ma anche il creatore dell’essere degli esseri. L’Essere auto-sussistente, Dio, si rivela attraverso le forme grazie all’atto creativo che partecipa, comunica, l’essere alle creature senza alcuna degradazione ontologica. Pertanto ogni realtà in tanto esiste in quanto da Lui voluta, non come pallido riflesso di un Nulla ma quale essere reale, relativamente autonomo, e quindi dotato per dono di significato e dignità.

Come è però possibile concepire la creatura quale realtà relativamente autonoma senza contraddire il Primato principiale di Dio? E’ possibile se si ammette che tra Dio e gli esseri ci sia partecipazione ontologica ovvero “analogia”, somiglianza ed ad un tempo dissomiglianza. Dio è l’essere per essenza, le creature solo per partecipazione. E’ per amore, gratuità donativa, libertà (nessuno costringe Dio ha creare alcunché bastando Egli a sé stesso) che Dio comunica il Suo essere agli esseri, rendendoli partecipi di Sé. Il Dio cristiano, a differenza di quello aristotelico (il motore immobile), non attira a sé esseri che si danno indipendentemente da Lui, ma li attira perché è il loro Creatore, saldando così il ciclo d’amore che ha aperto con l’atto creativo. Né questo atto toglie alcunché all’essere di Dio, degradandolo o diminuendolo, perché Egli crea affinché gli esseri godano del Suo Amore e della Sua Gloria. Il Dio cristiano di Tommaso d’Aquino è il Dio dell’Amore, creatore e provvidente, non chiuso nel cerchio immanente o olista dell’impersonalità apofatica come il Dio dei greci.

«Gli enti partecipano all’essere  – ha scritto padre Cornelio Fabro – e ciò significa che il loro essere non è l’Essere: la differenza è la partecipazione stessa: i molti sono “altri” dall’uno, non “fuori” dall’Uno. Grazie alla differenza l’Essere e gli enti stanno a un tempo nella più stretta appartenenza e nella massima distanza; partecipare è avere insieme; ma è a un tempo non-essere l’atto e la perfezione cui si partecipa, appunto perché si partecipa soltanto».

«Si comprende in questa direzione – scrivono dal canto loro Giovanni Reale e Dario Antiseri – il “realismo moderato” di Tommaso (…). Ogni realtà, sia il mondo sia Dio, è ente, perché sia il mondo sia Dio esistono. L’ente si predica di tutto, sia del mondo che di Dio, ma in maniera analogica, perché Dio è l’essere, il mondo ha l’essere. In Dio l’essere si identifica con la sua essenza, per cui è detto anche atto puro, essere sussistente; nella creatura invece si distingue dall’essenza, nel senso che questa non è l’esistenza ma ha l’esistenza o meglio l’atto grazie al quale non è … logica ma reale. I due concetti ricorrenti di “essenza” ed “atto di essere” (“actus essendi”), sono i due pilastri dell’ente reale. L’essenza indica il “che cos’è” una cosa, ossia l’insieme delle note fondamentali per cui gli enti – Dio, l’uomo, l’animale, la pianta – si distinguono fra loro. Se per quanto concerne Dio l’essenza si identifica con l’essere, per tutto il resto l’essenza significa semplice attitudine ad essere, cioè potenza all’essere (“id quod potest esse”). Il che significa che se le cose esistono, non esistono necessariamente, potrebbero anche non essere, e se sono, possono perire e non essere più. La loro essenza è attitudine all’essere e non identificazione, come in Dio, con l’essere. E poiché l’essenza delle creature non si identifica con l’esistenza, il mondo, nel suo insieme e nei singoli componenti, non esiste necessariamente (ossia esso non è eterno, quindi divino, come pensavano i greci e come pensano molti “olisti quantistici” oggi, nda), cioè è “contingente”, può essere e può non essere. Infine, poiché è contingente, se esiste, il mondo non esiste per sua virtù – la sua essenza non si identifica con l’esistenza – ma per virtù di un altro, la cui essenza si identifica con l’essere, cioè Dio. (…). Dall’insieme risulta che se è fondamentale il discorso sull’essenza, è ancora più fondamentale il discorso sull’essere p meglio sull’atto di essere, da Dio posseduto in forma originaria, dalle creature in forma derivata o per “partecipazione”. Non senza ragione la metafisica di San Tommaso è stata definita la metafisica dell’essere o dell’“actus essendi”. L’essere, infatti, è l’atto che realizza l’essenza che in se stessa non è che un poter-essere. Si tratta, dunque, di una filosofia dell’essere … di una prospettiva del tutto nuova rispetto all’ontologia greca. Di riflesso le domande più tipiche di questa filosofia … riguardano … l’“essere”: cos’è, perché c’è l’essere anziché il nulla? (…). Una tale filosofia è ottimista; perché scopre al fondo di ciò che è un senso profondo (…). Ma questa è anche la filosofia di un credente, perché solo questi può … cogliere l’atto fondante e positivo grazie al quale c’è qualcosa anziché il nulla» (2).

La filosofia tomista, dunque, in quanto filosofia cristiana, è filosofia dell’essere e non del nulla, filosofia della bontà dell’essere e non della negatività, filosofia della vita e non della morte, dell’ottimismo e non del pessimismo. Assolutamente vero! Ma, al tempo stesso, non si creda che l’Aquinate fosse un catafatico radicale e non conoscesse ed ammettesse anche la via per negationem, che del resto egli ebbe modo di praticare mediante il commento all’altro suo maestro, insieme ad Agostino, ossia lo Pseudo-Dionigi Aereopagita, del quale Tommaso studiò approfonditamente il “De divinis nominibus”. In Tommaso è proprio la scoperta e la rielaborazione della categoria della partecipazione analogica che consente anche la possibilità della teologia negativa e quindi di affermare non solo il Dio rivelato ma anche quello nascosto.

«Tommaso – scrivono ancora Reale ed Antiseri –, pur dando il dovuto spazio alla logica e alla trattazione dei suoi principi fondamentali (principio di identità, principio di non contraddizione, principio del terzo escluso e relativi annessi), ritiene che anche la metafisica si debba occupare della verità, e ciò perché il mondo e le singole creature sono l’espressione del progetto divino, sono il frutto del pensiero di Dio. Allorché, dunque, afferma che ogni ente è vero, egli vuol dire che ogni ente è espressione dell’architetto supremo che creando ha inteso realizzare un preciso progetto. Ed è questa la “verità ontologica”, cioè l’adeguamento di un ente, di ogni ente, all’intelletto divino (“adaequatio rei ad intellectum”). La verità ontologica e da distinguere dalla verità logica o verità umana, che è o deve tendere ad essere adeguazione del nostro intelletto alla cosa (“adaequatio intellectus nostri ad rem”). (…). La verità dell’ente dipende dal grado di essere che possiede. Dio è la somma verità perché sommo essere. Gli enti finiti sono più o meno veri in base al grado di essere o di partecipazione all’essere divino. Tutti gli enti però sono veri, perché ognuno a suo modo esprime un progetto, ha una ragion di essere, ha una vocazione: alcuni sono necessariamente fedeli a tale vocazione; altri, dotati di intelligenza e volontà, possono essere fedeli o tradire tale vocazione, che però resta inscritta, come una sorta di ineliminabile richiamo, nella loro stessa essenza o natura. (…) La bontà dell’ente (“omne ens est bonum”) … Se non può dirsi la tesi portante, … è certo la tesi che qualifica come cristiana la metafisica di Tommaso. Tutto ciò che è, ogni ente, è buono, perché frutto ed espressione della bontà suprema e liberamente diffusiva di Dio. (…). Tutte le cose, dunque, singolarmente e nel loro insieme, sono buone, perché hanno un grado di essere e perfezione. “Omne ens est bonum quia omen ens est ens”. Il Cristiano non può essere pessimista. Egli è radicalmente ottimista. L’ammirato stupore dinanzi al creato riflette un atteggiamento ancora più radicale, proprio di chi si sente partecipe della bontà di Dio, ed è fiero di scoprire tale dipendenza che esalta e non umilia. (…). Le cose sono buone in quanto volute da Dio in forma fondativa – Dio crea amando –; dall’uomo in forma derivata: l’uomo ama le cose perché sono buone. (…). Le creature, perché partecipano dell’essere di Dio, in parte gli somigliano e in parte no. Non c’è “identità” tra Dio e le creature; ma non c’è neppure “equivocità”, poiché nel mondo è riflessa la sua immagine. Tra Dio e le creature c’è dunque somiglianza e dissomiglianza, o anche un rapporto di “analogia”, nel senso che ciò che si predica delle creature si può predicare di Dio, ma non allo stesso modo né con la stessa intensità. Il fondamento metafisico dell’analogia sta nel fatto che la causa causando comunica in un certo senso se stessa. La somiglianza non è una qualità addizionale, ma è coessenziale alla natura dell’effetto, di cui non è che il segno esterno. Chi ricorda le implicazioni dell’essere e le sue proprietà, non stupirà dinanzi al rilievo che il mondo è sacro, perché la sua relazione di dipendenza da Dio è iscritta nel suo stesso essere (Per Tommaso il corpo è sacro come lo è l’anima). Se è vivissimo il senso della somiglianza, è ugualmente vivo il senso della dissomiglianza tra Creatore e creature. Si stabilisce qui il senso della “trascendenza di Dio”, e quindi “il senso della teologia negativa”. Se è certo che conosciamo qualcosa di Dio, è anche certo che tale nostra conoscenza, come è da noi formulata, non riflette la natura di Dio. “Deus non habet essentiam, quia essentia sua non est aliud quam suum esse”. Se Dio non ha alcuna essenza, perché questa si identifica con l’essere, e se ogni nostra conoscenza è un tentativo di precisarne la natura allora comprendiamo perché la teologia negativa sia superiore a quella positiva. Noi sappiamo più quel che Dio non è, che quel che Dio è. Per questo, a parere di alcuni, la analogia è più vicina all’equivocità che all’univocità» (3).

Si racconta che, negli ultimi anni della sua vita, Tommaso, in quel di Napoli, ebbe la grazia della Visione beatifica, mentre pregava davanti al Crocifisso. Chi fu presente ha testimoniato che, dopo aver celebrato la Santa messa, Tommaso fu sollevato da terra in estasi da terra fino ai piedi del Crocifisso, avvolto in una luce bianco-dorata, il voto trasfigurato dalla gioia e dall’amore e gli fu sentito dire «Nil nisi te, Domine». Era la risposta alla domanda che il Cristo, apparendogli, gli rivolse approvando, al contempo, la sua filosofia «Bene scripsisti de me, Thoma. Quam ergo mercedem accipies?». Da quel momento, Tommaso non volle più scrivere nulla e poco ci mancò che non desse alle fiamme le sue opere. Il fatto era che, come confidò al suo discepolo prediletto nonché segretario, Reginaldo, dopo aver conosciuto l’essenza di Dio, l’Essere auto-sussistente, l’Amore Infinito e non cosificabile in formule filosofiche, egli aveva compreso che nessuna parola, nessun concetto, nessuno scritto può racchiudere o catturare, neanche parzialmente, Colui che si è rivelato come l’“Io Sono”.

Si badi: se Tommaso non ha voluto più scrivere nulla perché non aveva più parola per parlare di Dio dopo averLo conosciuto misticamente, nel suo nascondimento, Nostro Signore non ha negato la bontà della sua opera filosofica: “Hai scritto bene di Me, Tommaso!”, quasi a voler dire che Egli è anche rivelato, non solo nascosto, e che pertanto, pur nell’umiltà, possiamo approcciarci a Lui anche in modo positivo.

Dopo la visione mistica, Tommaso si strugge per non essere ancora entrato nella Terra promessa del Paradiso, che è il Cuore stesso di Gesù Cristo. Questo è accaduto a tutti i mistici che “assaggiato” l’Amore hanno poi dovuto sperimentare la dura prova della “noche oscura”. Tuttavia, nonostante non volesse più filosofare, Tommaso non disprezzò la vita terrena pur avendo, ormai, l’intelligenza ed il cuore oltre il mondo. Egli trascorse il tempo che gli restava da vivere amando Dio ma senza disprezzare la creazione. Non avrebbe mai potuto proprio perché era ormai preso completamente da Colui che il mondo ha creato ed al Quale ora aspirava solo di unirsi nell’Amore eterno. Aveva così finalmente trovato la risposta alla domanda che si era posta sin da bambino “Che cosa è Dio?”. Nella “Summa” aveva scritto che il desiderio naturale fondamentale dell’uomo è quello di vedere Dio nella sua essenza, mentre sulla terra lo si può conoscere solo indirettamente ossia contemplandolo nel tessuto del cosmo che ne reca la somiglianza, come aveva già cantato il Poverello di Assisi “Di Te, Altissimo, porta significatione”.

Gli studiosi più attenti del pensiero dell’Aquinate, che non sono gli affetti dal vizio “scolastico” e “razionalista” ma coloro che mettono in evidenza il lato mistico della sua filosofia, hanno da tempo dimostrato che egli, riprendendola dalla filosofia ellenica ma non da Aristotele bensì dal platonismo e dal neoplatonismo, concepisce la creazione come mossa da un duplice moto, di “uscita” (“exitus”) e di “ritorno” (“reditus”). Tutti gli esseri spirituali escono da Dio ed aspirano a ricongiungersi con Lui. Nell’origine è contenuta la finalità. L’anima, avevano detto Platone ed i suoi succedanei, finché è separata dal suo Principio è in esilio, è in terra come in un luogo che non è la sua patria d’origine. Da qui l’idea del corpo come prigione dell’anima e la svalorizzazione del mondo reale a favore di quello archetipico, iperuranico. Già prima di Tommaso, questa concezione greca era stata usata dal pensiero cristiano ma in un perenne sforzo di mostrarne il lato anticipatore della Rivelazione e quindi il lato positivo, nel tentativo di purificarla da quanto di inconciliabile in essa c’è con la fede in Cristo. Tommaso compie l’impresa in un modo che, forse, resta ancor oggi insuperabile. Egli, infatti, al posto dell’Uno neoplatonico, che assorbe l’anima nell’indistinzione “nirvanica”, pone il Dio personale che si è rivelato ad Abramo proclamando, al contempo, a Mosè la Sua inaccessibilità, il Dio in dialogo con la sua creatura. In luogo dell’emanazionismo plotiniano, con la sua necessarietà ontologica, Tommaso pone la gratuità dell’iniziativa creatrice e salvifica di Dio che chiama l’uomo libero di rispondere o meno. In tal modo, depurata dall’emanazionismo e dal determinismo neoplatonico, la dinamica “exitus-reditus” viene assunta dall’Aquinate nell’orizzonte cristiano della creazione e della salvezza. Ma Tommaso sottolinea che questa dinamica è impossibile, sicché non potrebbe darsi nessun ritorno a Dio, se non interviene, immeritato dall’uomo, un intervento diretto e gratuito di Dio nella storia ossia l’Incarnazione del Verbo Divino. In Cristo, che opera la nostra Redenzione, il ciclo del dinamismo cosmico può finalmente chiudersi – “Io sono l’Alfa e l’Omega” è proclamato nell’Apocalisse – perché Gesù è l’Unico Mediatore che Dio Padre ha voluto. Cristo incarnandosi mostra che Egli è Colui che attua il ritorno, rende possibile a coloro che sono “usciti” di “ritornare”, come nella parabola evangelica del figliol prodigo, alla Casa del Padre. Cristo, per Tommaso, è la strada del ritorno, in sintonia con Caterina da Siena, che nel “Dialogo della Divina Provvidenza”, su rivelazione di Dio Padre, dice essere Cristo il Ponte tra Cielo e Terra – immagine biblica della Scala di Giacobbe – sul quale gli uomini devono passare se vogliono salvarsi. Non a caso uno degli archetipi del viaggio oltremondano delle anime è quello del ponte da attraversare che per i giusti diventa largo mentre per i reprobi sottile a tal punto da farli cadere nelle fiamme dell’inferno.

«Nel radicale teocentrismo tommasiano – ha scritto Umberto Galeazzi – c’è il fondamento della pienezza, no del sacrificio dell’umano: “La natura di una realtà non porterebbe ad amare Dio se non perché ogni realtà dipende da quel bene che è Dio” (I, q. 60, a. 5, ad 2). E’ per questo che “amare Dio al di sopra di ogni realtà è qualcosa di connaturale all’uomo” (I-II, q. 109, a. 3) e non eccede la sua capacità naturale (cf. I-II, q. 109, a. 3, ad 2). Perché l’amare Dio come ogni bene supremo non esclude ma autentica nella verità ogni altro amore; non esclude ma implica l’amore di ogni altro essere e in primo luogo del proprio essere, nell’ordine che implica il loro rispetto e pieno compimento. Mentre l’amore di qualsiasi bene particolare, scambiato falsamente per il bene supremo, esclude che si ami veramente il Bene infinito; ma ciò costituisce una grave perdita per l’uomo, anzi la più grave. (…) il considerare e l’amare Dio come il Bene sommo e la fonte di ogni bene, non significa che si ritiene il creato, “il mondo sensibile … il mondo di qua” come “apparente o irreale”. Quest’ultima convinzione, attribuita da Heidegger non solo alla “tarda interpretazione greca” ma anche alla interpretazione “cristiana della filosofia platonica”, non è invece affatto cristiana e tanto meno dell’Aquinate. Per il quale certamente si può dire che “il mondo vero, l’autenticamente reale” è “il mondo del sovrasensibile” (ibid.), se per mondo del sovrasensibile si intende Dio, ma nel senso preciso che abbiamo esaminato, il quale non implica affatto che il mondo creato sia apparente o irreale, o che sia, secondo una pretesa nicciana, “solo un modus della realtà assoluta”, destinato quindi a scomparire nella sua distinta realtà e ad essere riassorbito nell’Uno-Tutto o nel Bene separato. No, l’amore dell’uomo per Dio non implica una fusione come l’annegamento spersonalizzante, come la goccia che, ritornando nell’oceano, non esiste più come realtà distinta nella sua intrinseca positività. Il vedere il mondo sensibile come una degradazione rispetto al Bene può essere proprio di un certo platonismo, ma non del teismo creazionistico e cristiano; il misconoscimento della positività della creatura può essere una tentazione del luteranesimo, ma è certamente estraneo alla posizione tommasiana, in cui la partecipazione creaturale salvaguarda la trascendenza del Creatore e l’intrinseca positività della creatura. Per Tommaso la creatura ha una positività non apparente, ma reale e sua propria; è una positività partecipata, donata, ma, una volta donata, è propria dell’essere creato, inalienabile, incancellabile: “ogni realtà si dice buona per una somiglianza sua propria della divina bontà ad essa inerente, che è formalmente la sua bontà e dalla quale si denomina” (I, q. 6, a. 4). Se non si tiene conto della peculiarità della metafisica della creazione, non si capisce la posizione tommasiana, e allora si arriva ad assimilarla al platonismo (o, peggio, allo spinozismo), che, privo della prospettiva creazionistica, non poteva riconoscere, con la dovuta chiarezza, l’intrinseca positività della creatura. Invece ciò che è voluto e amato nel progetto creativo di Dio non è una “degradazione”, come pretende un altro fraintendimento heideggeriano; la tensione alla perfezione della creatura non esclude la sua intrinseca positività, per quanto possibile alla creatura, (…) la tensione al dover essere non vuol dire che “non è più l’essere a fornire la misura”, perché la misura e nell’Essere stesso sussistente, che è la Sapienza creatrice. Così la posizione tommasiana è agli antipodi del nichilismo, perché considerando gli enti non dimentica certo l’Essere. La posizione platonica, criticata da Heidegger e da lui attribuita anche al teismo cristiano, è stata esaminata e confutata da Tommaso. Egli ritiene falsa l’opinione secondo cui le cose si denominano buone per la partecipazione al bene separato, che rimarrebbe comunque loro estrinseco, come Socrate si direbbe uomo per la partecipazione all’idea di uomo, separata da lui, e non per l’umanità a lui intrinseca (cf. QDV, q. 21, a. 4). In questa prospettiva è chiaro che l’essere sensibile, l’essere finito non ha una intrinseca e distinta positività. Al contrario, l’Aquinate sostiene che se si tiene fermo che la prima Bontà crea tutti i beni, bisogna riconoscere che imprime nelle relatà create una sua somiglianza, “cosicché ogni realtà si dice buona per una somiglianza a sé intrinseca del sommo bene, come forma a sé inerente, e in un senso più lato (“ulterius”) per la prima bontà come causa esemplare ed efficiente di ogni realtà creata …” (QDV, q. 21, a. 4). Difficilmente poteva essere sottolineato con maggior vigore l’intrinseco valore della creatura, che emerge anche se si pone mente al fatto che per l’Aquinate è positiva la distinzione della realtà create e quindi la peculiarità irriducibile di ciascuna di esse. Infatti Dio è la causa agente perfettissima, e quindi a Lui conveniva imprimere nel modo più perfetto la sua somiglianza nel creato, per quanto è possibile alla natura creata. Ora, giacché nessuna creatura può eguagliare Dio, bisogna dire che la perfezione insondabile e ineguagliabile di Dio è manifestata meno imperfettamente dalla molteplicità e varietà delle realtà create, perciò “l’universo creato è più perfetto se le creature sono molteplici che se ci fosse un grado unico di esse … la diversità e la disuguaglianza delle cose create proviene non dal caso … bensì dall’intenzione diretta di Dio, il quale ha voluto dare alle creature quella perfezione che era loro possibile” (CG, II, c. 45). Come si vede, questa prospettiva assiologica è tutt’altro che orientata nella direzione di una unità negatrice delle diversità. La differenza non è il male, al contrario la ricca molteplicità e diversità delle creature riflette meglio la grandezza di Dio. Analogamente anche per gli uomini (fatta salva la loro uguale dignità, saldamente fondata, …) la meta non è una uguaglianza livellatrice, né una omogeneizzazione repressiva, ma che ognuno si realizzi nella sua specifica peculiarità, in un’autentica solidarietà che è scambio fecondo fra i diversi» (4).

Luigi Copertino

CONTINUA

NOTE

2) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri “Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi”, La Scuola, Brescia, 1983-1995, pp. 424-425. Anche la citazione di Cornelio Fabro è tratta da quest’opera, p. 428.

3) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri “Il pensiero occidentale …”, op. cit., pp. 426-427.

4) Cfr. Umberto Galeazzi “L’Etica filosofica in Tommaso d’Aquino”, Città Nuova Editrice, Roma, 1990, pp. 94-97.