Da pellegrini a turisti: non luoghi per non persone

La crisi della filosofia occidentale- cioè del pensiero meditante- è evidente. Sconfitta la metafisica sull’altare dell’utilitarismo, del pragmatismo e di un individualismo materialista, “povera, e nuda vai, filosofia,   dice la turba al vil guadagno intesa. Pochi compagni avrai per l’altra via”, come cantava il Petrarca. Il pensatore forse più interessante del presente è coreano, sia pure di cultura tedesca, Byung Chul Han. Critico acutissimo della postmodernità, di cui è divenuto una sorta di perito settore che esegue l’autopsia di un cadavere – la società di quest’angolo di mondo- ha appena scritto un libro dal titolo urticante, per l’uomo contemporaneo, Ueber Gott, Su Dio, non ancora tradotto in italiano.

E’ un dialogo sul muro del tempo tra il filosofo fattosi cattolico con Simone Weil, la sfortunata pensatrice francese di origine ebraica, anch’ essa probabilmente convertita. Segno che la trascendenza, la riflessione sul senso ultimo del transito terreno della creatura umana , non è ancora stata del tutto scacciata dall’orizzonte della modernità postera di se stessa. Ugualmente, i filosofi italiani più importanti recuperano il valore del sacro rispetto alla “nuda vita”, come Giorgio Agamben o addirittura dialogano con il totalmente altro, tendendo ponti verso il mistero. E’ il caso di Massimo Cacciari e del suo “L’angelo necessario”, recentemente ampliato e riveduto. L’Angelo , secondo l’intelletuale veneziano, “testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo tradisce per i sensi”. Segnali, fuochi di recupero di un pensiero non appiattito sull’oggi e sulle luci accecanti ma fugaci di un tempo senza profondità.

E’ più popolare la sociologia, la fotografia di ciò che si vede, il sapere che sviscera, analizza, indaga ma troppo spesso non giudica, non fornisce alternative né arriva al fondo dei problemi. Tuttavia due sociologi contemporanei , Marc Augé e Zygmunt Bauman, hanno fornito un’interpretazione della postmodernità – dopo Jean François Lyotard che coniò il termine- inventando a loro volta due delle espressioni più azzeccate del nostro tempo. Per Bauman ( 1925- 2017) la chiave di una vita di indagini è l’aggettivo “liquido”. La nostra è un’epoca di precarietà, incertezza e cambiamento costante, in contrasto con la solidità delle società passate. Istituzioni, relazioni, identità diventano fluide,  instabili, frammentate. Tutto è orientato al consumo immediato e all'individuo; i legami sono temporanei: liquidi , per l’appunto . L’umanità diventata fluida, senza equilibrio, guidata da bussole che indicano punti cardinali cangianti, cerca continuamente nuove esperienze, in un crescendo di ansia, aspettativa e successiva delusione.

Si perde il senso di appartenenza a comunità, valori, legami stabili, sotituiti da connessioni virtuali e temporanee, affannosamente ricercate e presto abbandonate. Zygmunt Bauman ci offre una preziosa immagine nel saggio Da pellegrino a turista, una breve storia dell'identità, all’interno de La società dell’incertezza. La modernità – ancora solida- era popolata da pellegrini, ossia persone che costruivano la vita con progetti a lungo termine, con una direzione e un significato, con un orizzonte verso cui procedere. Il soggetto poteva perdersi, ma aveva una destinazione. Il pellegrino è diventato un turista, un vagabondo, un passeggero in transito perenne, un giocatore d'azzardo che mette in palio la vita. Un passante senza direzione, una sorta di flaneur alla Baudelaire che cerca di cogliere gli stimoli della vita moderna, ma senza un legame personale con lo spazio urbano. Questi ruoli condividono la tendenza a rendere le relazioni frammentate e discontinue, ostacolano la costruzione di reti durature di doveri e obblighi reciproci, alimentano la distanza tra l'individuo e l'Altro. Diventata turista dell’esistenza, l’umanità liquida non cerca una destinazione, ma un'esperienza e poi un’altra, compulsivamente. Non abita, consuma; non mette radici, si sposta con bagaglio leggero, giusto il contenuto di un trolley il cui peso non deve eccedere il limite al banco del check in.

L’essere liquido vive nella provvisorietà, nella logica dell' "essere in transito", nella condizione di fugace passante indifferente a ciò che lo attornia, alla continua ricerca di novità che non si fissano mai nella memoria. Un personaggio siffatto, l’uomo liquido traformato in turista, passeggero come progetto di vita, eppure provvisorio, non può neppure immaginare la riflessione filosofica, che è insieme contemplazione, giudizio, ricerca interiore dell’universale. Era un sociologo o un filosofo Franco Cassano, il cui concetto di “pensiero meridiano” indica un modo di vivere e di pensare lento – la sosta nelle ore più calde che lascia fuori il baccano e la corsa- legato al luogo piuttosto che al tempo, contrapposto all’accelerazione di cui siamo vittime ? La preferenza per il tempo rispetto al luogo, il paradossale radicamento nel transito del turista e del casuale passante è stato oggetto dell’analisi dell’ antropologo e sociologo francese, Marc Augè ( 1935-2023) inventore della categoria di “nonluogo”. Il nonluogo è il paradigma del transito, dell’assenza di radici e di stili, della stessa bruttezza seriale, stereotipata, strumentale, di gran parte di ciò che produce la contemporaneità.

Immaginiamo una scena quotidiana: un tizio è seduto in una sala d’attesa di un aeroporto. Davanti a lui una lunga sequenza di cancelli d’imbarco. I passeggeri affannati corrono con valigie, cuffie nelle orecchie e in mano smartphone e tablet sui cui schermi tengono fissi gli occhi, incuranti del resto. Potrebbero essere a Roma, New York o Singapore, e a malapena noterebbero la differenza. Tutto è identico, asettico, intercambiabile. In quello spazio nessuno si conosce, nessuno si saluta; tutti aspettano, tutti consumano. La vita come intervallo: l'aeroporto non è una destinazione, né una casa, né una piazza pubblica. E’ semplicemente un punto di passaggio. Qualcosa di simile accade nelle sale d'attesa ferroviarie, nelle aree di servizio, nei centri commerciali, nei mezzi pubblici e in tanti altri spazi detti "comuni": luoghi privi di identità e di storia che rendono impossibili relazioni umane significative. Ambienti privi di un'essenza propria che non generano alcuna connessione sociale. Eppure il centro commerciale è il tempio ateo della religione del consumo e della forma merce; il mezzo di trasporto è il demiurgo che conduce “altrove”,
per lavoro, turismo, perfino per riempire/consumare il tempo di generazioni terrorizzate dalla sosta, dal dialogo con se stesse.

I nonluoghi sono spazi funzionali dedicati alla circolazione, al consumo e all’intercomunicazione , spesso tra altri nonluoghi, come i raccordi autostradali. Aree o interstizi anonimi attraversati interpretando ruoli impersonali (cliente, passeggero, turista, utente, consumatore). Universali e omogenei, generano una relazione strumentale, liquida, con uno scopo esclusivamente pratico, senza promuovere un senso di appartenenza. L’abitudine li rende finanche familiari : nonluoghi per esseri non-più-pensanti, rassicurati dall’uguaglianza anonima di corridoi, scaffali, camminamenti, cartelli indicatori. Ambienti

di sosta veloce in cui compiere gesti previsti in spazi dedicati, ad esempio pagare beni o servizi in casse automatizzate, prive anche delle parole sempre uguali degli operatori. Ci voleva un antropologo per cogliere il mutamento della specie umana dinanzi ai luoghi- nonluoghi in cui è rinchiuso. Augé li definisce ambienti della “surmodernità”. Il concetto è distinto da postmodernità (Lyotard) , ne è anzi il rovescio, poiché attiene alla categoria dell’eccesso . Di tempo, per la sovrabbondanza di avvenimenti ( e di notizie). Di spazio, grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto, una dimensione in cui nascono e si moltiplicano i  nonluoghi. Eccesso di ego- minimo ed ipertrofico, un ossimoro trai tanti- che si manifesta nel momento in cui l'individuo “surmoderno” si considera un mondo a sé.

Nella surmodernità invasa da nonluoghi non esistono identità, memoria, comunità. Ambienti iper-regolati caratterizzati dall'anonimato, dalla ricerca di soddisfazioni e interessi esclusivamente personali, dalla provvisoria coesistenza spazio-temporale, dal disinteresse per gli altri e dal consumo di esperienze. Scenari di transito: autostrade, centri di vendita, catene alberghiere, supermercati, autostazioni. Nonluoghi reali o virtuali, come le reti impropriamente chiamate sociali. Basta guardarsi attorno per rendersi conto del fenomeno. Negozi di oggetti “firmati” in franchising delle grandi aziende proprietarie di brand, rivendite di gadget inutili e di apparati elettronici occupano le ex librerie, le drogherie e le mercerie di quartiere. Strade e piazze non sono più luoghi di incontro, passeggio e conversazione, ma forme geometriche e più spesso sghembi frattali da attraversare. Zone effimere, astoriche, senza volto né nome, insignificanti, che non lasciano traccia nella nostra memoria. Spazi in cui circoliamo circospetti, consumiamo e scompariamo.

E in cui, ahimè, non pochi si identificano, come nelle esposizioni commerciali (ma si deve dire show room) dei marchi, diventati identità a pagamento surrogate, posticce che indossiamo, sostituti di ciò che (non)siamo. I non luoghi esprimono l'impossibilità di molti spazi del mondo post o surmoderno di fungere da punti di riferimento, come la casa, il quartiere, la città, la piazza pubblica, la chiesa, il municipio o il monumento storico. Le grandi città sono già diventate veri e propri non-luoghi, poiché in esse scompaiono gli spazi della socialità. Gli stessi modelli e i medesimi criteri architettonici si ripetono nelle strade, producendo paesaggi identici tra loro, tutti senz’anima. Andy Warhol, icona pop e astuto imprenditore del proprio talento, arrivò ad affermare che la bellezza della catena Mac Donald sta nell’assoluta uguaglianza dei suoi interni, esterni e menù, ovunque nel mondo. Il nonluogo per eccellenza. (Segue)