Nella prima parte abbiamo descritto i non luoghi e la condizione di turisti o passanti dell’umanità che vi transita senza alternative. Quesi tutto è diventato nonluogo. Finanche le stazioni di servizio per il rifornimento delle automobili sono progettate e organizzate allo stesso modo degli aeroporti e dei supermercati. L’ultimo simulacro di rassicurazione per gli individui non-persone che vi deambulano. Non c'è bisogno di uscire di casa per rintracciare un nonluogo: tutti seduti davanti alla TV, e contemporaneamente a fissare lo smartphone indossando le cuffie. Non condividiamo neanche i suoni ! È come se evitassimo la catastrofe di dover trascorrere del tempo insieme, creare spazi di identità, significato e scopo. I dispositivi ci stanno rinchiudendo in gabbie che isolano.
Nel mondo iperconnesso siamo soli , circondati da nonluoghi tutti uguali, spinti a ripetere l’identico per non sentirci sperduti. Tra percorsi obbligati indicati da frecce e pittogrammi, servizi standardizzati, azioni obbligate, viviamo in territori in cui è possibile muoversi senza lasciare traccia. Nell’omologazione, che ne è dell’identità – cioè del Sé autocosciente- se abitiamo non-luoghi?
La modernità solida era popolata da pellegrini con una destinazione precisa: famiglia, lavoro, la casa di proprietà. Cose solide, beni durevoli. Oggi il pellegrino è diventato un turista, un vagabondo, un girovago o un giocatore d'azzardo. Questi ruoli rendono le relazioni umane frammentate e discontinue, ostacolano la costruzione di reti robuste di doveri e obblighi reciproci e favoriscono la distanza tra i singoli, escludendo l'Altro. Le non-persone abituate ai non luoghi non cercano una destinazione ma un'esperienza. Non abitano, consumano; non mettono radici, si spostano. Vivono nella provvisorietà, nella logica del transito continuo, alla ricerca di novità che non si fissano mai nella memoria per diventare vissuto personale (erlebnis, nella fenomenologia di Edmund Husserl).
Il non-luogo diventa il palcoscenico di non-identità fluide: turisti perpetui, passeggeri trafelati, figurine in transito, passanti: ruoli momentanei che esistono solo all'incrocio tra l’esibizione di un biglietto con codice QR, il pagamento –rigorosamente elettronico- di un prodotto o di un servizio e l’occupazione di un posto numerato sui mezzi di trasporto. Ma cosa rimane di noi quando tutto è transitorio e provvisorio? L'identità del Proteo
surmoderno può essere adottata e abbandonata come un cambio di biancheria intima. Le opzioni rimangono sempre aperte. Bauman rileva che difficilmente possiamo agganciare un'identità a relazioni che sono di per sé programmaticamente slegate, provvisorie. Ci viene anzi solennemente consigliato di non provarci nemmeno, dato che l'impegno forte, l’attaccamento profondo possono far male. Sfuma anche la lealtà, l’idea obsoleta che un
legame abbia conseguenze vincolanti e produca obblighi. Entrambi i concetti, non-luoghi e identità frammentate, fugaci, postulano l'autonomia individuale in opposizione alle responsabilità morali. Morali, dunque impalpabili o ridicole nella società dei contratti, dei protocolli e delle clausole minuziose.
A proposito di nonluoghi, l'architetto olandese Rem Koolhaas parla di spazi spazzatura, frammenti urbani che proliferano nella globalizzazione: vetrine e centri commerciali, resort, uffici con facciate in cristallo, periferie replicate mille volte senza riguardo a nazioni, costumi, stili. Funzionalità prive di significato che non hanno storia, memoria, anima. Tutto è standardizzato. Un centro commerciale di Milano assomiglia più a uno di Shanghai che alla piazza di una città lombarda. L'architettura diventa un linguaggio universale di acciaio, vetroresina, marchi e loghi commerciali. Inquieta non solo la ripetizione (in)estetica uniformata, ma la sua conseguenza esistenziale: uno spazio senza
radici produce individui sradicati. Quando i luoghi che abitiamo non raccontano storie né custodiscono ricordi, la nostra identità si erode.
La fragilità di questa esperienza si accentua perché, come ricorda Byung-Chul-Han, i rituali sono scomparsi, come i simboli. I rituali sono pratiche che ancorano al tempo e allo spazio, creano legami, si ripetono con significati compresi e condivisi. Accendere una candela, riunirsi attorno a un tavolo, salutarsi in piazza, festeggiare un santo o un evento storico: modi per dare sostanza alla vita quotidiana, generare comunità, incontrare l’altro e riconoscersi in lui. Nei non-luoghi i rituali evaporano, i simboli scompaiono e si perdono anche le buone maniere tra fretta, indifferenza e malcelata ostilità. Gesti antichi sono sostituiti da protocolli tecnici: passare attraverso un controllo di sicurezza, scansionare un codice QR, pagare con carta di credito, esibire una card plastificata. Ripetizioni vuote, prive di simbolismo. Senza rituali, il tempo si frammenta in istanti identici, accelerati, devitalizzati. Nel nonluogo non c'è ieri né domani, solo un presente operativo deprivato di memoria.
Lo scrittore portoghese premio Nobel José Saramago ( 1922-2010) narrò la profondità del pericolo nel romanzo La Caverna. Un umile vasaio scopre che un mercato commerciale in costruzione vicino a casa sua, chiamato il Centro, sta divorando la vita del quartiere, assorbendo mestieri, relazioni e affetti. Quello spazio luminoso e apparentemente ordinato soppianta il mondo esterno, divenendo fulcro e arbitro di ogni attività economica e sociale.
Come i prigionieri di Platone scambiavano le ombre della caverna per realtà, i personaggi di Saramago finiscono per credere che ciò che viene consumato equivalga a ciò che è stato vissuto. La caverna non è sotto terra: sta in ogni galleria commerciale, in ogni flusso continuo di contenuti (feed) in rete, in ogni aeroporto identico in qualsiasi parte del mondo. È la metafora della vita ridotta a non-luogo, dove ciò che conta non è esserci – il Dasein di Heidegger- esistere, in definitiva vivere, bensì circolare. Nei non-luoghi siamo circondati da innumerevoli altri, eppure restiamo anonimi. L'esperienza è paradossale: insieme, da soli. Il sociologo Erving Goffman (1922-1982) ha spiegato che la vita sociale è una serie di prestazioni. Nei luoghi tradizionali recitiamo ruoli davanti a un pubblico noto con aspettative condivise: è ciò che egli chiama face, volto, immagine, il valore sociale positivo che una persona rivendica per sé attraverso gli altri.
Nei non-luoghi agiamo di fronte a sconosciuti, senza continuità o comunità. L'interazione è minima, strumentale e vigilata. Psicologicamente sono spazi che producono alienazione, stanchezza, disorientamento. L'omogeneità sopraffà, la sorveglianza inquieta, la mancanza di punti di riferimento erode il senso di appartenenza. Eppure i nonluoghi offrono anche una tregua: lì si può scomparire, diventare invisibili, liberarsi dalla pressione dello sguardo altrui. Questa invisibilità è un sollievo fugace che si trasforma in vuoto. L'anonimato senza radici finisce per essere una dipendenza che fa sopportare la vita.
Simone Weil espresse con chiarezza che “ il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'anima umana". Mettere radici non significa ristagnare, ma essere nutriti dalla pianta. Come l’ albero si rafforza avendo solide radici, anche gli esseri umani prosperano quando sanno di far parte di una storia, di una memoria, di una comunità.
Perfino i nonluoghi, tuttavia, possono essere riconvertiti, una sfida difficile perché sono stati progettati come scatole isolate dall'esterno, con pochissime finestre o luce naturale, in modo che l'attenzione si concentri sul consumo o sulla funzione specifica . Anziché accettare i non-luoghi come semplici infrastrutture di transito, possiamo tentare di abitarli in modo diverso. Orti urbani che trasformano lotti vuoti in spazi di socialità; caffè di quartiere che sostengono i semplici rituali di conversazione; piazze riprogettate per incoraggiare gli incontri. Anche in un aeroporto o in una stazione ferroviaria, la scintilla può accendersi se qualcuno aiuta un altro o si condivide una storia; un gesto gentile rompe la logica del transito. La relazione faccia a faccia rende più felici, aiuta a vivere meglio e forse più a lungo. Guardare, ascoltare, condividere il tempo sono pratiche che rafforzano le difese fisiologiche e proteggono dalla solitudine. Dobbiamo riumanizzare i non-luoghi, restituire loro un volto, una storia, un gesto di comunità, una particolarità che li distingua. Dove tutto sembra fatto per il semplice passaggio, bisogna seminare radici. Dove tutto è
anonimo, far irrompere il nome proprio; dove tutto è consumo, recuperare la gratuità dell’incontro.
I non-luoghi sono lo specchio della nostra epoca: identità liquide, terre desolate, antri consumistici. Sono l'espressione spaziale di una postmodernità in cui tutto scorre e nulla rimane. Ciononostante, possono diventare l'occasione per compiere gesti trasformativi. La domanda è se accetteremo di essere turisti in spazi vuoti, passanti perpetui in transito, prigionieri della caverna illuminata dalle vetrine, abitanti casuali del tempo, o se saremo in
grado di riappropriarci di questi spazi per intrecciare memoria, identità e comunità. Tutto grida che il mondo ha cessato di essere un luogo di appartenenza, di accoglienza, come i nostri corpi, le nostre relazioni personali , la nostra nazione, la nostra religione, divenendo il gelido luogo funzionale di esperienze omologate. La rivoluzione inizia con un gesto semplice: guardare qualcuno negli occhi, salutare il vicino, conversare in coda al supermercato, perfino sorridere. Perché un luogo è uno spazio di riconoscimento reciproco. Circondati da non-luoghi tra figurine umane di passaggio, non è perduta la speranza di trasformarli in focolari.