Contagi biologici e contagi psicologici

Paolo Azzone

Senza dubbio il coronavirus ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia per ridurre il contagio impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia.

La pratica clinica della psichiatria territoriale mi ha spesso portato a contatto con pazienti molto preoccupati per le malattie contagiose. In questi casi il lavaggio delle mani diventa un rituale defatigante, le disinfezioni di luoghi od ambienti occupano via via gran parte della giornata, ma la serenità non ritorna, la sicurezza sfugge, le energie profuse si esauriscono senza offrire alcun conforto. Il partner, i familiari, spesso anche il paziente stesso, avvertono le pratiche di purificazione come ridondanti ed assurde e chiedono aiuto. La società ed il sistema sanitario offrono risorse professionali. Una costellazione emotiva (contagio/infezione/purificazione) viene configurandosi su un piano culturale e scientifico come un comportamento irragionevole, manifestazione di una implicita follia. Le diagnosi formulate dai clinici includono senza dubbio quelle di fobia e di ipocondria.

In questo senso le società occidentali moderne si differenziano dalle civiltà primitive o semplicemente arcaiche dove il contatto con determinate oggetti, situazioni o membri della società (il tabù degli antropologi, cfr. Douglas 1966) comportava un pericolo strettamente rituale. Ad esempio nella cultura indiana il contagio rituale è incardinato alla gerarchie delle caste. Qualsiasi contatto con le caste inferiori produce una inevitabile e pericolosa impurità.

Nel corso della storia europea la rappresentazione culturale dell’impurità si è modificata profondamente. Il cristianesimo medioevale la ha riformulata prevalentemente nei termini di contatto sessuale impuro. L’acqua delle antiche purificazioni è stata sostituita dai riti della penitenza, non raramente caratterizzati da altrettanto evidenti componenti magiche e da un carattere di coattività.

Le malattie epidemiche hanno inevitabilmente attivato periodici processi di regressione. La paura del contagio promosso da ipotetici untori si è periodicamente sostituita alla interazione sessuale come paradigma della minaccia.

Oggi, appunto, l’umanità si confronta di nuovo, dopo vari decenni, con una malattia contagiosa gravata da significativa morbilità e mortalità, soprattutto nei soggetti anziani. E la paura cresce senza sosta. Epidemiologi, opinione pubblica, media e governo e si rincorrono chiedendo provvedimenti sempre più restrittivi della libertà personale. Cresce l’ostilità tra i cittadini. Anziane pensionate non mancano di apostrofare i rari passanti, agguerrite commesse dettano precise disposizioni igieniche a consumatori attoniti, cittadini zelanti denunciano alle forze dell’ordine ogni ipotetica violazione delle prescrizioni governative, mentre i giovani più dotati di competenze informatiche non esitano ad esporre alla gogna mediatica innocenti runner o bambini indisciplinati.

Senza dubbio l’agente della SARS covid-19 ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia. I problemi sociali ed economici che attanagliano il nostro paese sono pressoché scomparsi dal dibattito politico, mentre la ricchezza pubblica è stata profusa senza risparmio nel tentativo, peraltro non riuscito, di arrestare il progredire della pandemia. Come ha osservato il noto filosofo della politica Giorgio Agamben (2018), l’epidemia da coronavirus ha rapidamente configurato uno stato di eccezione di fronte al quale le stesse garanzie costituzionali sono apparse come assolutamente irrilevanti, preoccupazioni superflue per giuristi perditempo.

Libertà, giustizia sociale, esperienza religiosa – i principi guida attorno a cui si è organizzata la nostra costituzione e per i quali sono stati versati fiumi di sangue  – hanno perso improvvisamente qualsiasi importanza. La paura ha assunto una centralità assoluta nell’immaginario collettivo della società contemporanea. Si è rapidamente affermata l’idea che tutta la struttura sociale e l’organizzazione economica debbano essere riorganizzate esclusivamente in funzione del controllo del contagio.

Come nelle società primitive, contatto, contagio e terrore sono ritornati al centro dell’immaginario collettivo. Le angosce ipocondriache sono traboccate dal recesso in cui il pensiero moderno le aveva relegate. Le parti fobiche e ipocondriache della personalità hanno preso il controllo della cultura contemporanea. Così, nelle società avanzate del XXI secolo la follia diviene pensiero ufficiale, anzi pensiero unico, e inquietanti guardiani della rivoluzione esigono dagli organi della pubblica sicurezza scrupolosi interventi censori su ogni forma di dissenso.

La pratica clinica della psichiatria territoriale mi ha spesso portato a contatto con pazienti molto preoccupati per le malattie contagiose. In questi casi il lavaggio delle mani diventa un rituale defatigante, le disinfezioni di luoghi od ambienti occupano via via gran parte della giornata, ma la serenità non ritorna, la sicurezza sfugge, le energie profuse si esauriscono senza offrire alcun conforto. Il partner, i familiari, spesso anche il paziente stesso, avvertono le pratiche di purificazione come ridondanti ed assurde e chiedono aiuto. La società ed il sistema sanitario offrono risorse professionali. Una costellazione emotiva (contagio/infezione/purificazione) viene configurandosi su un piano culturale e scientifico come un comportamento irragionevole, manifestazione di una implicita follia. Le diagnosi formulate dai clinici includono senza dubbio quelle di fobia e di ipocondria.

In questo senso le società occidentali moderne si differenziano dalle civiltà primitive o semplicemente arcaiche dove il contatto con determinate oggetti, situazioni o membri della società (il tabù degli antropologi, cfr. Douglas 1966) comportava un pericolo strettamente rituale. Ad esempio nella cultura indiana il contagio rituale è incardinato alla gerarchie delle caste. Qualsiasi contatto con le caste inferiori produce una inevitabile e pericolosa impurità.

Nel corso della storia europea la rappresentazione culturale dell’impurità si è modificata profondamente. Il cristianesimo medioevale la ha riformulata prevalentemente nei termini di contatto sessuale impuro. L’acqua delle antiche purificazioni è stata sostituita dai riti della penitenza, non raramente caratterizzati da altrettanto evidenti componenti magiche e da un carattere di coattività.

Le malattie epidemiche hanno inevitabilmente attivato periodici processi di regressione. La paura del contagio promosso da ipotetici untori si è periodicamente sostituita alla interazione sessuale come paradigma della minaccia.

Oggi, appunto, l’umanità si confronta di nuovo, dopo vari decenni, con una malattia contagiosa gravata da significativa morbilità e mortalità, soprattutto nei soggetti anziani. E la paura cresce senza sosta. Epidemiologi, opinione pubblica, media e governo e si rincorrono chiedendo provvedimenti sempre più restrittivi della libertà personale. Cresce l’ostilità tra i cittadini. Anziane pensionate non mancano di apostrofare i rari passanti, agguerrite commesse dettano precise disposizioni igieniche a consumatori attoniti, cittadini zelanti denunciano alle forze dell’ordine ogni ipotetica violazione delle prescrizioni governative, mentre i giovani più dotati di competenze informatiche non esitano ad esporre alla gogna mediatica innocenti runner o bambini indisciplinati.

Senza dubbio l’agente della SARS covid-19 ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia. I problemi sociali ed economici che attanagliano il nostro paese sono pressoché scomparsi dal dibattito politico, mentre la ricchezza pubblica è stata profusa senza risparmio nel tentativo, peraltro non riuscito, di arrestare il progredire della pandemia. Come ha osservato il noto filosofo della politica Giorgio Agamben (2018), l’epidemia da coronavirus ha rapidamente configurato uno stato di eccezione di fronte al quale le stesse garanzie costituzionali sono apparse come assolutamente irrilevanti, preoccupazioni superflue per giuristi perditempo.

Libertà, giustizia sociale, esperienza religiosa – i principi guida attorno a cui si è organizzata la nostra costituzione e per i quali sono stati versati fiumi di sangue  – hanno perso improvvisamente qualsiasi importanza. La paura ha assunto una centralità assoluta nell’immaginario collettivo della società contemporanea. Si è rapidamente affermata l’idea che tutta la struttura sociale e l’organizzazione economica debbano essere riorganizzate esclusivamente in funzione del controllo del contagio.

Come nelle società primitive, contatto, contagio e terrore sono ritornati al centro dell’immaginario collettivo. Le angosce ipocondriache sono traboccate dal recesso in cui il pensiero moderno le aveva relegate. Le parti fobiche e ipocondriache della personalità hanno preso il controllo della cultura contemporanea. Così, nelle società avanzate del XXI secolo la follia diviene pensiero ufficiale, anzi pensiero unico, e inquietanti guardiani della rivoluzione esigono dagli organi della pubblica sicurezza scrupolosi interventi censori su ogni forma di dissenso.

Ma da questo contagio non può difenderci nessuna, per quanto accurata, misura di sicurezza, nessuna mascherina chirurgica o con valvola. Dalla fatica delle relazioni interpersonali può liberarci definitivamente solo la solitudine. O la morte.

Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/2020/05/coronavirus-paura-contagio/