L’Antimafia non serve più, intanto ha ucciso il diritto
7 Marzo 2024 – 07:36
L’apparato che tutta Europa invidia (e non adotta) è diventato un “mostro giudiziario” fuori controllo
Filippo Facci – Il Giornale
Finirà in niente, diranno che il Parlamento si limitò a recepire una direttiva di Bruxelles (2018/843) e che il governo si limitò a trasformarla nel Decreto legislativo sull’antiriciclaggio (n.90) con l’applauso dei Cinque Stelle del Partito Democratico: da qui l’articolo 1 che dà la possibilità al Dipartimento nazionale antimafia (Dna, via Giulia, Roma) di chiedere e ricevere informative da Bankitalia e da altre banche dati: questo su qualsiasi cittadino italiano, non importa se sia indagato o no, perché l’Antimafia si muove a prescindere sulla base delle «misure di prevenzione» che esistono solo in Italia. È così dal 19 giugno 2018, quando prese forma quando il potere del Gruppo Sos retto sino a pochi mesi fa dal luogotenente della Finanza Pasquale Striano, ora indagato a Perugia.
È da quel giorno che la Dna «in forma preventiva» ha assunto una serie di prerogative tra le quali essere il terminale di segnalazioni di ogni operazione che ritenga: 155mila nel 2022 con 800 accessi abusivi certi, una centralizzazione che monìtora tutti i politici e che il guardasigilli Alfonso Bonafede (Governo Conte) difese e confermò per com’era: un mostro con competenza illimitata. Se ne accorsero le procure di Milano, Roma e Napoli secondo le quali la Dna esulava dai propri limiti, ma nulla accadde, tranne che le fughe di notizie si fecero regola, e certi giornalisti rincorsero «notizie» come i cani con gli ossi gettati loro. Uscì di tutto, soprattutto su personale di centrodestra, ma anche sulla compagna di Giuseppe Conte e sul fidanzato di Rocco Casalino. Una sconcezza.
La Dia doveva essere un «organismo servente» (funzione immaginata da Giovanni Falcone nel suo discorso al Csm del 24 febbraio 1993, osteggiatissimo a sinistra) ma la Superprocura divenne un luogo di transito per magistrati in attesa di accedere a un incarico direttivo (in qualche procura, se le correnti avessero collaborato) o addirittura aspettando uno scranno da parlamentare del Pd, come fu per gli ultimi tre procuratori nazionali. Il discorso non valse per Pierluigi Vigna (1997-2005) ma in seguito, dopo la mancata nomina di Gian Carlo Caselli, cominciò la politicizzazione: a partire dall’ottimo Pietro Grasso, che diverrà presidente dopo un passaggio da senatore del Pd. Lo stesso varrà per Franco Roberti, eurodeputato del Pd nel 2019. Intanto le procure tendevano a trasformarsi in granducati autonomi, per buona pace della «colleganza» auspicata da Falcone, mentre la Superprocura, e tutta l’Antimafia, presero i contorni del mostro che è oggi.
Passaggio chiave ne fu la Legge Orlando, che nel settembre 2017 tese a equiparare i corrotti ai mafiosi e fece largo a un «Codice antimafia» senza che esistesse neppure più la mafia propriamente detta, ma solo una criminalità simile o meno pericolosa di quella presente in tanti altri paesi. Restava l’Antimafia, un sistema burocratico e giudiziario cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito, un’eterna emergenzialità che spazzava via le garanzie e la presunzione d’innocenza, con sequestri e confische «preventive» che rovinavano un’infinità di cittadini (e sindaci) perché figuravano estese anche a reati come il semplice peculato mentre furoreggiava anche una versione estesa del «trojan», un virus informatico in grado di intercettare dal telefono anche password, messaggi, immagini e insomma tutto. Era questa la legislazione «che tutta l’Europa ci invidia» ma che tu guarda, nessuno (nessuno) ci ha mai copiato, nessun altro Stato ha adottato, anche se i traffici e il riciclaggio, altrove, sono peggio dei nostri.
C’è un racconto che Alessandro Barbano, ex direttore del Mattino e neo del Riformista, ha scritto nel suo libro «L’inganno» (2022) dedicato proprio agli «usi e soprusi del professionisti del bene»: era a un dibattito cui partecipava anche Federico Cafiero de Raho, ex capo della Dna e della procura di Reggio Calabria, tirato in ballo proprio in questi giorni; capitò che lui, Barbano, chiese a de Raho se non fosse preoccupato della deriva giustizialista che stava prendendo il Paese; la risposta: «Non c’è nessun allarme, poiché la garanzia per ogni cittadino è il processo, sede in cui può accertarsi l’innocenza di chiunque». Ancora Barbano: «Gli feci notare tuttavia che, se la garanzia per il cittadino diventa il processo, fuori dal processo questi è un presunto colpevole. Tutti siamo presunti colpevoli. Ma non raccolse l’obiezione, poiché il processo, abituato a viverlo da protagonista, doveva sembrargli i migliore dei mondi possibili».
La superprocura antimafia non serve più a niente: è solo il grimaldello per scardinare lo stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria. È un’emergenza fattasi istituzione, e dirlo è difficile: perché occorre resistere all’accusa di offendere chi, per combattere la mafia, sacrificò la vita. Ma basta niente per confiscare aziende e immobili assai prima di una sentenza, basta la discrezionale «pericolosità sociale» per mandare in malora patrimoni e famiglie, basta sfogliare i giornali per apprendere di imprenditori (assolti) cui l’antimafia frattanto ha ucciso tutto. La netta sconfitta di Cosa Nostra non ha fermato questo sistema, non l’ha ridimensionato o adeguato alla realtà: c’era un sistema di potere che andava mantenuto.
Filippo Facci, ma quale privacy: la prova che siamo spiati peggio che in Germania est
“Abbiamo intercettazioni ambientali e telefoniche come non le aveva neanche la Germania dell’Est” incontenibile Filippo Facci su Il Giornale. L’editorialista lombardo dice la sua sul caso dossieraggio e sulla nuova e scottante inchiesta di Perugia. Lo fa in punta di fioretto. “Figuratevi se non ci associamo alla segretaria della Federazione della Stampa dopo l’inchiesta sui cronisti del quotidiano Domani: a pubblicare le notizie i giornalisti non commettono mai un reato… – commenta Facci – ci associamo, da colleghi, soprattutto perché sappiamo che non è vero”.
“I giornalisti rischiano di commettere un reato anche se pubblicano segreti di Stato, o atti segretati – sottolinea lo scrittore – Non è che per procurarsi una notizia (pur vera) un cronista possa armarsi di bazooka e fare qualsiasi cosa”. Il punto della questione per Facci però è altro: capire cosa rimanga del concetto di “segreto” e della sacralità del non essere “spiati” in uno Stato liberale. Per farlo “ci soccorre una memoria da anziani”, spiega lo scrittore che fa un tuffo nel passato.
“Il bancomat delle inchieste non l’avevo mai sentito”. Dossieraggio, l’attacco di Cerno
“Quando il mondo in teoria era peggiore, nel 1997, alcuni di noi descrissero nel dettaglio due incubi da futuro orwelliano: l’anagrafe tributaria e il redditometro. Ora sono realtà, ci siamo arrivati”. Si stava meglio quando si stava peggio: “si prendeva l’aereo senza doversi denudare ai controlli, in treno nessuno telefonava, nessuno ti intercettava, non eravamo tutti «tracciabili» come bistecche attraverso cellulari”. Potevi rinunciare a carte di credito e bancomat e “girare con mazzettoni di contanti come uno spacciatore” spiega ironicamente. E ricorda un vecchio articolo del collega Massimo Fini: “Io il mio denaro ho diritto di metterlo dove mi garba, di ficcarmelo anche nel c… se così mi piace – ricorda Facci – E noi sperammo che Fini non ne avesse troppo, di denaro”.