Un diverso parere qualificato
La vicenda dell’acquisizione dell’infrastruttura di rete TIM da parte del fondo americano KKR è decisamente più complessa di quanto non abbiano sostenuto in questi giorni molti analisti. Il Governo si sta a tutti gli effetti ricomprando un pezzo di TIM. Il punto è: per darlo a chi?
Un’analisi molto profonda a cura di Terra Cava.
la vicenda di TIM e del fondo KKR può essere liquidata con un semplicistico «Qui ci stanno svendendo tutto» oppure, opzione assai più interessante, diventare un caso di studio per comprendere a fondo alcune dinamiche economiche e geopolitiche all’interno del mondo globalizzato.
Andiamo con ordine. TIM, che poi sarebbe la ex Telecom, è il principale operatore di telefonia mobile e fissa in Italia: dall’inizio degli Anni ’30 sino al 1997 è stata una società di proprietà pubblica (tramite l’IRI) e, a partire dal 1958, anche monopolista. Ad un certo punto si è deciso che bisognava fare il mercato unico europeo e dunque si rendeva necessaria la vendita degli asset statali e la liberalizzazione di vari settori strategici, dall’energia alle telecomunicazioni.
Mentre Germania e Francia si adeguavano a tale impostazione in maniera estremamente creativa (tradotto: famo come ce pare), la classe politica italiana del tempo – servile per natura, babbea per vocazione – aveva invece adottato un approccio rigorosissimo per dimostrare a sé stessa ed al mondo quanto credesse a questo sogno comunitario: privatizzare è figo, privatizzare è divertentissimo, privatizzare fa bene al Paese. Pensate che, per spiegarne i “benefici”, l’allora Presidente del Consiglio Ciampi (era il 1993) fece produrre un fumetto cringissimo dove si paragonava lo Stato italiano ad un salumiere rincoglionito e pieno di debiti.
Nonostante le prime cessioni nel corso degli Anni ’80 (come quella di Alfa Romeo), l’IRI controllava ancora centinaia di aziende e, non potendole (s)vendere una ad una, si decise di creare dei veri e propri pacchettoni societari in cui ficcare tutte le realtà di uno stesso settore così da sbolognarle più agevolmente: grazie ad un assoluto colpo di genio, al gruppo che si occupava di telecomunicazioni venne assegnato il nome di… Telecom!
L’operazione “funzionicchia“: se da un lato lo Stato incassa senza difficoltà la cifra obiettivo (l’equivalente di circa 14 miliardi di euri, un po’ pochi ma tant’è), dall’altro fallisce nel tentativo di trovare un nuovo azionista di riferimento tra le holding industriali private. Si pensa agli Agnelli che, ovviamente, rispondono da Agnelli: comprano una quota ridicola (meno del 7%) ma pretendono di comportarsi da padroni.
Il Governo di centrosinistra – che, attraverso il Ministero del Tesoro, dispone ancora di una piccola partecipazione del 3% e, soprattutto, dei poteri speciali garantiti dalla cosiddetta “golden share” – si disinteressa da subito dei destini di Telecom e da lì nasce una delle più incredibili e durature soap-opera aziendali della storia umanità. Dai celebri “capitani coraggiosi” di D’Alema arrivando agli innumerevoli tentativi di scalata (falliti o riusciti), Telecom ci ha insegnato che per la finanza speculativa nulla è impossibile.
Sapete da dove deriva la mole di debiti che ha paralizzato Telecom in tutti questi anni? Dai suoi stessi compratori che, tramite manovre ad alto rischio (tra cui i “leveraged buyout”) nel frattempo legalizzate anche in Italia, sono riusciti a scaricare i debiti contratti dal soggetto acquirente sui debiti del soggetto acquisito. In pratica è come se Telecom si fosse indebitata da sola per farsi comprare. Bello, vero?
Se tutto questo vi suscita un profondo senso di nausea, sappiate che è solo la punta dell’iceberg. Tra fusioni, liquidazioni, spin-off, joint venture, acquisizioni, equity swap, OPA ostili, scandali e lobbismi vari, la Telecom/Tim privatizzata ha fallito clamorosamente tutti gli obiettivi aziendali (per non parlare di quelli afferenti al “bene collettivo” tanto decantati nel 1997) e si è trasformata in una sorta di testa di ponte con cui la finanza internazionale può mettere un piede in casa nostra e relazionarsi con la partitocrazia – di qualsiasi schieramento – al riparo da occhi indiscreti.
Non andrò a mentire: quando ho letto sui social che «Meloni ha venduto Tim agli americani di KKR», ho tirato un sospiro di sollievo. Ero mezzo addormentato e la mia prima interpretazione – evidentemente sbagliata – è stata questa: KKR si è comprata la quota di Cassa Depositi e Prestiti in Tim (circa il 10%) e adesso, con quei soldi, il Governo potrà finalmente dare seguito alle promesse in campagna elettorale sulla questione Open Fiber. Sì, perché in Italia abbiamo un piccolo – gigantesco – problema con il tema delle infrastrutture di rete: le torri sono pressoché monopolizzate da INWIT (che è la vecchia rete di Telecom fusa con quella di Vodafone, ma di cui adesso Tim possiede meno del 3% delle azioni) mentre i cavi della fibra sono una gara a due tra FiberCop (con azionisti Tim, KKR e Fastweb) e Open Fiber (fondata da Enel, oggi partecipata al 60% da Cassa Depositi e Prestiti). Sulle prime mettiamoci il cuore in pace: ogni tanto si legge qualche lamentela dell’Antitrust o di Iliad ma sostanzialmente è una storia di cui non frega più niente a nessuno (anche perché il cinqueggì è stato un mezzo flop commerciale, pertanto ciaone).
Dai secondi, invece, passa buona parte dello sviluppo non solo economico ma anche tecnologico (e, se vogliamo, sociale) dell’Italia nei prossimi decenni quindi il consolidamento di un attore pubblico – Open Fiber – ne garantirebbe una maggiore diffusione senza impantanarsi nelle solite baggianate sullo “svantaggio economico dell’iniziativa privata” («Nooo ma in quella frazione non ci sarebbero abbastanza clienti!»). Parliamoci chiaro: Tim, come compagnia telefonica che vende gli iPhone in abbonamento o che si inventa la versione sfigata di Netflix, non è più un investimento strategico in ottica statale. KKR offre qualche billions per le azioni di Cassa Depositi e Prestiti? Vai, prenditele, e buona fortuna con i francesi: noi adesso abbiamo dei fottuti cavi da mettere sotto terra (qui immaginatevi una foto di Meloni che spacca l’asfalto con un pugno fortissimo).
Peccato che in questi giorni non sia accaduto nulla di tutto ciò. L’ennesimo amministratore delegato di Tim, Pietro Labriola (tizio con mega-tatuaggio sul braccio in bella mostra anche nelle occasioni più importanti), ha infatti presentato qualche mese fa l’ennesimo piano industriale per il rilancio dell’azienda con cui, di fatto, si opererà uno smembramento in due realtà distinte: da una parte ci sarà la realtà ServCo (con tutte le aziende del gruppo che si occupano di servizi, inclusa la Tim intesa come operatore telefonico) e dall’altra ci sarà la NetCo (che invece gestirà le società proprietarie delle infrastrutture, tra cui FiberCop). È una scelta più che legittima – anzi, bisognerebbe chiedersi perché ci hanno messo quasi un quarto di secolo per arrivarci – ma, naturalmente, possono sorgere delle controindicazioni (o delle nuove opportunità, dipende dal punto di vista).
La proposta di KKR rientra in questo scenario: già azionista di FiberCop, ovvero il pezzo più pregiato nella NetCo insieme a Sparkle (che mette i cavi sottomarini e che, per ora, è fuori dalla proposta), il fondo americano ha “semplicemente” deciso di rilevare le quote in mano a Tim così da ottenere la maggioranza assoluta. C’è però un dettaglio extra che rende la vicenda, appunto, “paradigmatica”: insieme a KKR si sta muovendo anche il Ministero dell’Economia che, con 2 miliardi di euro già stanziati, diventerà socio di minoranza in NetCo con il 20% delle azioni.
A quanto pare, come nel famoso meme, «si sta ribaltando la situazione»: non solo Meloni non ha venduto Tim agli americani ma, tecnicamente, ne sta addirittura ricomprando un pezzo. Ora: se di fronte a questa notizia il vostro istinto vi spinge a gridare «GRANDE GIORGIAAAA!» e se non siete pronti ad affrontare un’ulteriore delusione “patriottica”, il mio consiglio è di interrompere qui la lettura. Tranquilli, non mi offendo, ma ci tengo ad affrontare una serie di implicazioni abbastanza pericolose.
Mi spiego. Tralasciando alcune buffe coincidenze formali (il Ministero dell’Economia è seduto sia al tavolo degli acquirenti che a quello dei venditori, grazie al già citato 10% in Tim tramite Cassa Depositi e Prestiti), gli sviluppi futuri di questa operazione sono facilmente immaginabili. Uno lo stiamo già vedendo: i francesi di Vivendi non hanno gradito la dinamica e hanno minacciato azioni legali. Premesso che valuto sempre positivamente qualsiasi iniziativa che possa far allontanare quel furbacchione di Bolloré dall’Italia, ho il timore che la sua richiesta di passare dall’assemblea degli azionisti possa essere accolta: qui detiene la maggioranza relativa e con essa potrebbe sconfessare la decisione del CdA di vendere la NetCo a KKR.
Ciò potrebbe rallentare, se non compromettere definitivamente, gli obiettivi di Giorgetti e Meloni che non hanno mai fatto mistero di voler accorpare FiberCop con Open Fiber (ed è letteralmente il pretesto che gli avvocati transalpini stanno usando per opporsi). Come visto in precedenza, le due aziende sono le uniche che si occupano di fibra in Italia e, tramite il PNRR, in questi anni riceveranno qualcosa come 7 miliardi di euro per i vari progetti sulla banda larga: potrei sbagliarmi ma, rileggendo la sua storia imprenditoriale, dubito fortemente che il signor Vincent da Parigi sia disponibile a rinunciare così a cuor leggero a 3-4 miliardi di “soldi gratis dell’Europa” (gratis per lui; noi invece li dobbiamo restituire).
In caso contrario, cioè se la decisione del CdA dovesse essere considerata valida senza ulteriori passaggi, si procederebbe con lo scorporo della NetCo dal gruppo Tim (a cui rimarrebbe solo la ServCo, che diventerà a sua volta cliente della NetCo) e con la successiva fusione con Open Fiber: la nuova società avrebbe il monopolio dei cavi della fibra, sarebbe libera dalle ingerenze francesi (così come da tutti i deliri manageriali a cui ci ha abituato Tim) e avrebbe una consistente partecipazione statale. Non saprei quantificarla, sicuramente non sarà la maggioranza (che andrà a KKR) ma nemmeno una robetta di poco conto: a voler essere generosi, potremmo dire che in NetCo stiamo scambiando due padroni deboli – Vivendi, che può esercitare un’influenza indiretta tramite il 24% nella controllante Tim, e KKR che, ricordiamolo, è già azionista di FiberCop – con un unico padrone forte.
È un passo avanti o un passo indietro? Dipende da come ci si pone di fronte a questi scenari e da come si vuole interpretare il celeberrimo “male minore”. Di sicuro sappiamo che le reazioni infuocate in stile «Stanno vendendo le nostre reti di telecomunicazioni agli americani! Dietro c’è la CIA! Ci controlleranno tutti!» sono in ritardo di qualche anno nonché esageratamente banali: anche bloccando la cessione, KKR conserverebbe comunque una posizione rilevante nell’azienda e, casomai non lo sapeste, questa cosa del “controllo” a stelle e strisce sull’Italia va avanti dal 1945 senza la necessità di esporsi con siffatte bagatelle.
La maggiore criticità, a mio avviso, si colloca in una dimensione molto più pragmatica e corrisponde all’evidente divergenza di obiettivi di lungo periodo tra il Ministero dell’Economia e KKR. Mentre fondi come Vanguard e BlackRock preferiscono tessere le loro ragnatele con tante piccole partecipazioni in aziende affermate che possono garantire un flusso costante di dividendi, KKR acquista grandi quote di realtà con «elevato potenziale inespresso» (un modo elegante per dire che stanno con l’acqua alla gola) e, agendo direttamente sulle scelte strategiche (che possono anche includere chiusure, dismissioni e licenziamenti di massa come con Magneti Marelli), le rivende al miglior offerente dopo aver raggiunto determinati risultati industriali e, soprattutto, finanziari.
Alla luce di questo aspetto, e in assenza di accordi blindatissimi che stabiliscano chiaramente sin da subito come verrà gestita l’uscita di KKR, si potrebbe giungere ad un epilogo paradossale in cui tanto meglio avrà operato la società e tanto più sarà difficile per il Ministero dell’Economia consolidare la propria posizione al suo interno. Magari rispunta Vivendi con un’offerta irrinunciabile e se la compra per vendicarsi del torto subito! Oppure la partecipazione di KKR viene sparpagliata tra una pletora di investitori e si ritorna alle stesse dinamiche paralizzanti di Tim. O ancora: il rimborso della componente a debito del Recovery Fund prende una brutta piega e il Governo decide di vendere le sue azioni per trovare qualche soldo. Chi può dire cosa accadrà nei prossimi dieci anni?
Vada come vada, la lezione che impareremo a caro prezzo sarà sempre la stessa: quando lo Stato non rivendica le sue superiori prerogative e accetta di adeguarsi alle regole del libero mercato, presto o tardi resta con il cerino in mano. Il piano escogitato da Giorgetti non ha nulla di diverso, in termini di forma e di sostanza, da quanto avrebbero potuto formulare i vari Elkann, De Benedetti o Benetton se non per l’aggravante di esporre un asset già di proprietà pubblica – la rete di Open Fiber – ai futuri appetiti degli speculatori: troppo spesso ci si appella alle fantomatiche discipline della golden share e del golden power prospettandole come reti di sicurezza infallibili per la difesa degli “interessi nazionali” senza rendersi conto che, nella migliore delle ipotesi, equivale al voler salvare il Titanic dal naufragio utilizzando uno scolapasta.
Sarà che sono pieno di pregiudizi ma, anche senza mettermi a leggere tutti gli spiegoni accademici, mi basta sapere che la prima è stata inventata dalla Thatcher e il secondo è stato normato dal Governo Monti per arrivare alla conclusione che l’unica cosa “dorata” che possiamo aspettarci è un’abbondante doccia di piscio. Non ho dubbi che i feticisti di questa pratica saranno contenti, ma insomma…
E pensare che un’alternativa ci sarebbe: si chiama “espropriazione per pubblica utilità” che, sempre per restare nell’ambito delle perversioni strane, è persino prevista dall’articolo 42 della costituzione. Certo, non è una strada che si può percorrere così dall’oggi al domani ma, se l’obiettivo di Meloni & Friends è quello di consegnare al popolo italico la spina dorsale delle telecomunicazioni del futuro, un tentativo lo si sarebbe potuto fare. Anche solo in memoria dei vecchi tempi quando laggiù si parlava di “sovranismo”. Ma ve lo immaginate? Una roba del genere avrebbe creato un precedente potentissimo in grado di mandare nel panico i burocrati di Bruxelles mettendo a nudo le ipocrisie e i trattamenti di favore in tema di intervento pubblico degli Stati membri nei settori strategici. Vaso di Pandora in mille pezzi proprio. Invece nulla: ancora una volta si va a chiedere aiuto agli americani sperando che le conseguenze non siano troppo disastrose. Non vi basta mai, eh.