Il SUMMIT in Alaska e le manovre euro-golpiste per farlo deragliare

di Fabrizio Poggi per l’AntiDiplomatico

Ecco Zelenskij, «volto eroico della resistenza» ucraina, che tenta di uscire dall’isolamento per battersi contro la «testardaggine brutale dei russi» i quali, chissà perché, non ne vogliono proprio sapere di offrire «garanzie serie di sicurezza per Kyiv, come l’ingresso nella Nato» e magari, perché no, anche il dispiegamento di testate atomiche USA sul territorio ucraino. Genera più pietà cristiana la battuta in sé o chi la contrabbanda al lettore?

In questi sintetici passaggi di uno dei maggiori quotidiani italici (La Stampa, 10 agosto 2025) c’è forse l’intero ventaglio del panico suscitato nelle cancellerie europee e nei media al loro servizio, dopo il definitivo annuncio dell’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin, il prossimo 15 agosto, in Alaska, «troppo lontano da noi», aveva piagnucolato Zelenskij il 9 agosto, appena ricevuta la notizia.

Ma, ben più di sostanza delle parole, quello che molti osservatori russi paventano ora è che, da qui al 15 agosto, i golpisti di Kiev e i loro sponsor europei tentino qualche sortita che, nelle intenzioni, dovrebbe far saltare il vertice. Dopotutto, a dispetto delle catechistiche omelie “pacifiste”, è proprio nell’interesse politico e, soprattutto, economico, delle capitali UE, che il conflitto in Ucraina si prolunghi il più possibile.

Tra i media a libro-paga del liberal-bellicismo, ha cominciato la tedesca Bild (campione di giornalismo giallo), con l’attribuire all’inviato americano Witkoff, nell’incontro con Putin di cinque giorni fa, parole “confuse”, scrivendo che non avrebbe avuto idea “di cosa stesse parlando”, addirittura perché era “sovraccarico di lavoro e poco competente”. Il tutto, sulla base di anonime fonti “tedesche” e di “funzionari ucraini”, immediatamente riprese dai vari fogli “europeisti”, La Stampa compresa. Un’uscita, quella della Bild, che fa il paio con le “fonti” anonime secondo cui Vladimir Putin avrebbe conferito a Witkoff nientemeno che l’Ordine di Lenin, mai più attribuito dopo il 1991. Non rimane che piangere.

Alcuni canali Telegram ucraini riferiscono che l’ufficio presidenziale, con l’onnisciente Andrej Ermak – un vero spasso l’elegia pietistica sulla “democrazia ucraina” a firma sua e dell’inconsolabile ukro-sionista Bernard-Henri Lévy, ancora su La Stampa del 10 agosto – starebbe coordinando le mosse con Londra per far saltare il vertice.

Così che non sono da escludere le solite provocazioni nazigolpiste, con esplosioni in teatri, bombardamenti di ospedali, ripetizioni di Bucha o della stazione di Kramatorsk, ovviamente da attribuire alla «testardaggine brutale dei russi», oppure, come ventilato dal comandante in capo Aleksandr Syrskij, qualche nuova avventura in territorio russo.

Lo stesso Zelenskij si è trasformato in centralino telefonico verso le capitali europee, all’insegna del “no-vertice in Alaska”.

Dopo il colloquio col premier britannico Keir Starmer, il pianista timoroso che gli si spari addosso, ha cercato parole di conforto nel Primo ministro estone Kristen Michal, nel presidente francese Emmanuel Macron e nella premier danese Mette Frederiksen. Non potevano mancare i Baltici, che si sono già rivolti a Trump secondo lo schema indicato dal meschino: se i confini possono essere modificati con la forza, allora nessuno di loro è sicuro, ha detto il Ministro degli esteri estone Margus Tsahkna e l’omologo lettone Baiba Braže, come da copione: la «pace deve includere l’Ucraina e garantirne la sovranità e l’integrità territoriale». Anche nell’incontro inglese tra il vice Presidente USA James Vance e i rappresentanti di Ucraina, Gran Bretagna, Francia e Germania, la questione principale per le cancellerie europee era proprio quella di come muoversi per contrastare fattivamente i negoziati tra Mosca e Washington.

Ancora come da copione l’omelia recitata da Francia, Italia, Germania, Polonia, Gran Bretagna, Finlandia e Bruxelles, secondo cui Kiev deve essere inclusa nei negoziati in Alaska, devono cessare le azioni di guerra prima dei negoziati e, terzo, se l’Ucraina fa concessioni territoriali, allora anche la Russia deve cedere i territori conquistati. Inoltre, bisogna «fermare l’aggressione russa e le uccisioni in Ucraina».

Ucraina che, per parte sua, ha già cominciato con massicci attacchi di droni contro almeno tredici regioni russe, da Orël, Tver, Smolensk, a Rjazan, Rorstov, Tula, Kaluga, Saratov, Stavropol, Voronež, Belgorod, Brjansk, Krasnodar. E i prossimi giorni non promettono nulla di buono. Nell’ultima notte, i droni ucraini hanno causato almeno tre vittime civili nelle regioni di Belgorod e Nižnyj Novgorod.

Secondo il canale Telegram “Winwin”, Kiev sta concentrando le forze maggiori sulle aree per le quali è sul tavolo la questione delle zone cuscinetto: il recente tentativo di sfondamento nel distretto di Manev, nella regione di Brjansk, potrebbe essere stato un’operazione di ricognizione. Non si esclude che nel corso dei prossimi 4-5 giorni Kiev possa intensificare gli attacchi, per testare la solidità delle difese russe.

In ogni caso, a detta del politologo ucraino Ruslan Bortnik, le previsioni non sono rosee in generale: in Alaska, Trump e Putin potranno concordare solo un cessate il fuoco più o meno lungo che, al massimo, durerà fino alla fine del mandato di Donald Trump, dopodiché i combattimenti in Ucraina riprenderanno. Europa e Ucraina faranno tentativi «titanici per far cambiare posizione a Trump, per impedire un accordo sui territori ucraini riconosciuti a livello internazionale. D’altra parte, la Russia si farà beffe di loro e cercherà di dimostrare che ora è d’accordo su tutto, mentre l’Ucraina rappresenta un ostacolo al raggiungimento della pace». Se i negoziati dovessero fallire, dice Bortnik, la guerra continuerebbe almeno fino al prossimo autunno, «fino alle rielezioni del Congresso, forse persino fino alla fine del mandato di Trump». Se invece le parti riuscissero a trovare un accordo, la pace potrebbe durerare fino alla fine del mandato di Trump. E, comunque, senza un accordo completo, la pace sarà solo di breve durata e, dice Bortnik, «mi sembra che le parti non siano ancora d’accordo per un’intesa di pace completa».

Un’intesa tipo quella, aggiungiamo noi, di cui si sussurra a La Stampa, dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO: una delle cause prime dello scoppio del conflitto; almeno che, parlando della guerra, non si prendano sul serio le fandonie à la Ermak-Lévy sulla “democrazia” modello ucraina nazigolpista, aggredita dalla dittatura che guida “l’asse del male” mondiale.

https://www.lastampa.it/esteri/2025/08/10/news/ucraina_guerra_trump_zelensky_putin_pace-15265596/?ref=LSHA-BH-P2-S2-T1

https://news-front.su/2025/08/10/kak-zapad-isterit-na-fone-predstoyashhih-pryamyh-peregovorov-rossii-i-ssha/

https://news-front.su/2025/08/10/kievskaya-marionetka-staraetsya-isportit-trampu-obednyu/

https://www.kp.ru/daily/27736.5/5125986/

https://www.mk.ru/politics/2025/08/10/eksperty-preduprezhdayut-kiev-gotovit-pyatidnevnuyu-volnu-massirovannykh-udarov-po-strane.html

https://politnavigator.news/zamorozka-budet-dejjstvovat-do-konca-sroka-trampa-potom-opyat-vojjna-prognoz.html

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_vertice_in_alaska_e_le_manovre_eurogolpiste_per_farlo_deragliare/45289_62326/#google_vignette

Il Corriere loda la svolta “europea” della Meloni …..

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di Antonio Polito| 11 agosto 2025

Firmando i due documenti sull’Ucraina e su Gaza insieme agli altri leader europei la premier ha completato un lungo percorso di allineamento internazionale

Oscurata dall’estrema incertezza del momento, uno di quei momenti in cui la storia è davvero in bilico, la «conversione» di Giorgia Meloni è passata quasi inosservata. Ma firmando i due documenti sull’Ucraina e su Gaza insieme agli altri leader europei la premier ha completato un lungo percorso di allineamento internazionale. L’ex campionessa della destra sovranista ha oggi in politica estera posizioni quasi del tutto sovrapponibili a quelle del Cancelliere democristiano della Germania.

Né si può attribuire questa omologazione in senso europeista a furbizia o convenienza. Avviene infatti, paradossalmente, nel momento di maggior pericolo per la credibilità del progetto europeo. Nel giro di pochi giorni — speriamo di no! — l’Unione potrebbe vedere sancita la sua irrilevanza in Alaska, se Trump la porterà in dono a Putin; e in Palestina, se Netanyahu distruggerà l’ultima speranza di tregua occupando la Striscia.

Tempi non comodi, dunque, per fare l’europeista a basso costo, senza pagare prezzi. Anche perché su entrambi gli scacchieri della crisi internazionale Meloni ha dovuto distinguersi dai due suoi più cari «amici». A Trump ha chiesto, insieme con gli altri leader, di invitare in Alaska anche l’Ucraina, altrimenti non sarà vera pace ma un tradimento mascherato. A Netanyahu ha detto, per la prima volta, che la via della guerra perpetua non è più giustificabile né accettabile. Per rendere chiaro quanto impegnativa sia stata la firma di Meloni, basti pensare che il documento sull’Ucraina si impegna a sostenere Kiev anche attraverso quella «Coalizione dei Volenterosi» cui l’Italia si era sempre rifiutata di partecipare, e che era addirittura costata una mini-crisi diplomatica con la Francia di Macron.

Che significa tutto ciò? Due cose, entrambe importanti. La prima: il destino geopolitico di un Paese come l’Italia prevale sulle preferenze ideologiche dei governi pro tempore. Tutto, l’interesse nazionale, la storia del dopoguerra, le alleanze militari, la collocazione geografica, tengono l’Italia saldamente in Europa. Dunque anche il progetto di coltivare una relazione speciale con gli Stati Uniti di Trump, che Giorgia Meloni non ha mai smesso di perseguire, ha senso, valore e chance di successo solo se l’Italia sta dentro l’Europa. Fuori, siamo simpatici ma contiamo poco.

La forza delle cose, questa nostra vocazione nazionale, è tale che neanche un governo di opposte tendenze potrebbe sfuggirle. Osiamo pensare che perfino Giuseppe Conte avrebbe finito per firmare un documento anti russo con Macron e Starmer se fosse stato ancora premier; e che, come Merz, non si sarebbe affrettato a riconoscere una Palestina in cui operi ancora Hamas. D’altra parte, ai suoi tempi, seguiva la Merkel anche al bar durante i vertici europei, e ostentava una grande intimità con Donald, che lo ricambiava chiamandolo affettuosamente «Giuseppi».

Certo, si può rimproverare alla Meloni un eccesso di realpolitik. Per esempio: quando Trump le ha proposto di tenere a Roma il vertice con Putin non risulta che lei gli abbia obiettato: guarda che lo zar di Mosca è inseguito in Europa da un mandato di cattura per i crimini commessi in Ucraina. Ma sono tempi difficili per il diritto internazionale: dall’Onu al Wto, dalla Corte penale all’Organizzazione mondiale della sanità, le istituzioni del multilateralismo sono a pezzi, ed è difficile per tutti farsene scudo.

Ma c’è un secondo significato dei due documenti firmati dall’Italia che può aprire uno spiraglio di ottimismo anche da questo punto di vista. Sosteniamo tutti, e con ragione, che la debolezza politica dell’Europa non è stata mai così evidente e drammatica come in questi mesi. Che nessuno la sta a sentire, né ha i mezzi per alzare la voce. Tutto vero. Però, che il processo di disgregazione da molti previsto non sia almeno finora avvenuto, e che anzi un Paese come l’Italia, pur guidato da forze che provengono dal populismo e dal sovranismo, sia oggi saldamente schierato con gli altri fondatori, vuol dire che l’Unione Europea è forse più necessaria di quanto non si dica. O meglio: ineluttabile. Di fronte a un passaggio che la sta mettendo a dura prova si sta anzi espandendo, non rimpicciolendo. Perché per un Orbán che fa il russo, c’è una Londra che è tornata a fare Londra, a esercitare una leadership in politica estera e di sicurezza di cui l’Europa non può fare a meno.

Ovviamente non le basterà una dichiarazione di esistenza in vita, se non si doterà presto dei mezzi per resistere e contare nel nuovo mondo, in cui vige la legge del più forte. Tanti anni fa un itali