Un’agenda rivoluzionaria per persone normali (parte prima)

di ROBERTO PECCHIOLI

Accadono strani fenomeni: mentre si diffonde a macchia d’olio il non voto- per mancanza di speranza e deficit di rappresentanza – le preferenze delle classi lavoratrici e dei ceti meno abbienti si spostano verso destra. Ci scusiamo per l’utilizzo dello schema destra-sinistra, largamente superato proprio in ragione dei movimenti descritti e per altre cause storiche, ma è il mezzo per svolgere un ragionamento complessivo. Da parte del variopinto mondo progressista e arcobaleno, lo smottamento non è compreso nella sua estensione e tantomeno nella profondità delle sue ragioni.

L’analisi più comune richiama il ribaltamento della “falsa coscienza” marxiana, ossia la convinzione che sia esclusivamente il contesto socio-economico a determinare il contenuto dei pensieri, delle idee (la coscienza sociale) degli individui. Ovvero, in parole povere, che i lavoratori, i precari, i disoccupati, i ceti marginali devono schierarsi a “sinistra” in base ai soli interessi materiali, che, nell’immaginario di ieri, erano difesi da quello schieramento.

La vittima, insomma, amerebbe il suo carnefice, una sindrome di Stoccolma determinata dalla manipolazione dei media e delle reti sociali: un caso singolare di illusionismo di massa. La verità è opposta. I ceti che hanno massicciamente cambiato il loro posizionamento ideologico-elettorale hanno compreso, con l’istinto sicuro dei popoli e soffrendo sulla carne viva, la realtà dell’impoverimento, della disoccupazione, della proletarizzazione e dell’insicurezza, lavorativa innanzitutto, e poi di città degradate dall’incuria, dall’illegalità e dall’immigrazione di massa. Infine, non meno importante, manifestano un disagio crescente nei confronti dei nuovi linguaggi, delle idee che distruggono tutto ciò che forniva senso all’esistenza. L’identificazione in una comunità, in una patria, in una condizione professionale, in un complesso di convinzioni e credenze anche spirituali devastate sino ai fondamenti. Non più uomo-donna, normalità- devianza, ma un calderone impressionante che il popolo considera nichilismo anche se ignora il significato della parola.

Si tratterebbe, dicono altri, della reazione difensiva dei perdenti della globalizzazione, di chi è a disagio nel mondo nuovo e non sa fare altro che rimpiangere il buon tempo antico, simboleggiato dalle forze conservatrici. La spiegazione è estremamente rozza, ma ha il pregio di superare in parte lo schema incapacitante destra (ricchi, conservazione dell’esistente, chiusura) – sinistra (progresso, difesa dei poveri, apertura).

Alla perdita dolorosa di ogni riferimento di senso, si aggiunge il processo di proletarizzazione dei ceti medi – il cui benessere si sosteneva sul sacrificio e sul lavoro- e della trasformazione dei poveri in miseri, senza alcuna contropartita, giacché le provvidenze sociali sono riservate ai nuovi arrivati, gli immigrati, protagonisti inconsapevoli della concorrenza al ribasso oltreché, inevitabilmente, corpi estranei nel nuovo ambiente, in cui sono a contatto non con le classi alte, ma con i loro omologhi autoctoni.

Le preoccupazione di chi lavora, di chi ha perso l’impiego, di chi non riesce a trovarlo se non nell’ambito dei lavoretti (la famigerata gig economy) ha assunto tratti di disperazione per la macelleria sociale di decenni di sconfitte nel conflitto (negato!) servo-padrone, con l’aggravante che ai perdenti viene fatto credere di essere inadeguati, inadatti a sopravvivere nella giungla della competizione globale. La risposta del potere è disperante: da un lato, acceleratore sulla precarietà sociale ed esistenziale, il modello del nomade con trolley che vive in affitto in un mondo dominato dalle piattaforme digitali, l’onnipotente caporalato postmoderno. Sull’altro versante, i nuovi cosiddetti diritti civili.

Non possiamo lavorare, né costruirci un futuro, nemmeno garantire ai figli una casa o l’ascensore sociale bloccato nel sottoscala, però possiamo sposarci tra persone dello stesso sesso, diventare donne, uomini, trans o quel che ci pare dalla sera alla mattina, possiamo farci ammazzare legalmente se depressi, malati o addirittura poveri (è legge in Canada). Possiamo, se siamo donne (o come diavolo si deve chiamare l’esemplare della specie umana provvisto di utero e ovaie) gettare via le cellule vive che sarebbero diventate esseri umani poiché l’aborto diventa non una possibilità o una triste necessità, ma un diritto universale. Possiamo accoppiarci a volontà con chiunque, meglio se dello stesso sesso; sono i diritti che Juan de Prada, intellettuale spagnolo, chiama “di biancheria intima”, che hanno soppiantato i diritti sociali, etici e umani. Logico che si presenti la reazione del senso comune.

Il bisogno di essere non cessa negli umani, esattamente come il bisogno di avere, possedere: entrambi sono iscritti nella natura umana. Il paradosso postmoderno è sul lato dell’offerta. Il sistema offre una modalità nuova: non ho più una casa, un destino professionale, una prospettiva familiare e comunitaria, non possiedo più beni materiali; in cambio mi è offerta un’identità surrogata di vittima nella sfera intima e sessuale, che diventa il mio unico patrimonio: la difenderò fino alla morte. Distribuire identità e metterle in competizione è più facile e comodo che distribuire denaro, creare benessere, diffondere il senso della verità e della libertà.

Più diventa difficile per la maggioranza accedere non solo a una casa degna e a un lavoro stabile e onestamente retribuito e addirittura al cibo e alle cure sanitarie, più i prodotti offerti sul mercato sono le identità, soprattutto se marginali, soggettive, bizzarre, capricciose, agonistiche e incompatibili tra loro. E’ la logica dell’agenda della sedicente sinistra dopo la caduta del muro di Berlino ma innanzitutto del potere economico, finanziario tecnologico concentrato in pochissime mani oligarchiche. Vivere è trascinare una vita decostruita, nomade, cangiante, saltando di città in città e di lavoro in lavoro senza stabilità, indifferenti al futuro, sino alla vecchiaia in cui il declino fisico, la malattia, l’inevitabile solitudine, la probabile povertà, renderanno inevitabile la gelida prospettiva della morte programmata, dispensata a richiesta da quel che resta dello Stato.

I perdenti, in questo supermercato drogato di false identità, sono i lavoratori e gli aspiranti tali, i padri e le madri di famiglia, le persone normali (nell’accezione antica…) e innanzitutto i malvagi per eccellenza, i maschi bianchi eterosessuali. Ma sono nemiche anche le madri, le donne comuni, tutti e tutte coloro che intendono vivere secondo le inclinazioni tipiche del loro sesso, luogo d’origine, cultura, civiltà, in libertà. Sofferenza economica, scippo del futuro più devastazione dei principi e valori fondanti ereditati. Infine, l’accusa folle di essere dei privilegiati, i carnefici per colpa ereditaria in un mondo che disconosce le origini.

Il terremoto riguarda le classi lavoratrici e anche gli immigrati che scommettono sul lavoro e sulla capacità di sacrificio. Si è spinti a partecipare alla competizione delle nuove identità, viene imposto di aggrapparci a un’unica parte di noi stessi, diventata prigione, ed allo stesso tempo respingere quello che si è per natura, questa parola orribile e definitiva, sostituita da biologia e da altre perifrasi. La più equivoche sono “sesso rilevato alla nascita”, per non pronunciare il fatidico maschio o femmina, e “salute riproduttiva”, il termine veterinario per definire il diritto universale all’aborto.

E’ stata necessaria una lunga panoramica per venire al punto, ovvero alla necessità di proporre un’agenda rivoluzionaria per persone normali. Sappiamo che il termine rivoluzione mette i brividi a generazioni allevate nella bambagia, nell’irresponsabilità, nell’orrore per le decisioni e per le posizioni nette, in particolare in Italia. Ci è noto anche che rivoluzione è termine associato al sangue, al disordine, a scelte dure, definitive, che rovesciano l’esistente. Tuttavia, che cosa dovremmo proporre, se non una rivoluzione –diciamo una rivolta ideale e morale – in un contesto nel quale siamo stati espropriati addirittura del nostro corpo fisico, penetrato da sostanze sconosciute e apparati tecnologici di controllo che – dicono- ci semplificano la vita in cambio della perdita del controllo su noi stessi?

Come dovremmo rispondere a un potere diventato biopotere, cioè dominio sulla vita, in cui siamo sorvegliati da remoto, impediti a manifestare liberamente le nostre idee con le parole che ci sgorgano dalle labbra, nel quale ci espropriano anche del denaro, frutto del nostro lavoro? Come chiamare altrimenti, se non rivoluzione, la digitalizzazione dell’uomo – riduzione a cifra, codice a barre – e come definire l’esproprio proprietario di chi ci toglie dalle tasche il denaro? Lo custodiscono loro, in forma virtuale, dunque non è più nostro. Con apposite carte – meglio ancora chip- ce lo restituiranno con le modalità, nei tempi e nella quantità decisa da loro, per spenderlo come e dove vorranno loro. Se risulteremo morosi, dissidenti, non allineati, ce lo toglieranno con un semplice clic di un server; meglio ancora, un algoritmo determinerà i criteri per erogare o negare il denaro virtuale, che, lo ribadiamo, era nostro. L’automatismo della discriminazione.

Non si risponde a una rivoluzione fatta contro di noi con parole gentili o cercando espedienti per sopravvivere ed evitare il peggio. Serve anche quello, ovviamente, ma occorre una speranza, una volontà di libertà e lotta, ovvero costruire un’agenda alternativa a quella del nemico. Sì, nemico. Alla fine, lo spiegò Carl Schmitt, la dialettica umana si riduce a questi due termini: amico e nemico. L’oligarchia che ci opprime è oggettivamente nemica, va contrastata a partire da tale presa d’atto. I governi, bracci secolari delle oligarchie tecno-finanziarie, vogliono e perseguono il nostro male, addirittura- ne è prova la storia dell’ultimo triennio- la nostra morte. Prendiamone atto, per quanto duro e sconcertante sia.

Bisogna attrezzarsi a un lotta di lunga durata. Il primo atto è liberarsi delle gabbie del passato: né destra né sinistra, piuttosto il popolo contro l’oligarchia, il basso contro l’alto, la periferia – immensa- contro il centro, la sovranità contro i poteri di fatto, l’informazione, la cultura, contro l’ignoranza, che significa conoscenza contro addestramento, consapevolezza contro indottrinamento, reale contro virtuale, identità comuni contro soggettivismo. Un vasto, enorme programma, troppo grande per le nostre spalle, ma non c’è alternativa. Esiste una speranza: una parte del popolo si sta risvegliando, ragiona diversamente dal passato e abbandona progressivamente gli schemi incapacitanti di ieri.

Importa ciò che è detto (e praticato), non chi lo ha detto. Ecco perché è decisivo prendere atto della scomposizione delle vecchie appartenenze e lavorare per una ricomposizione su basi diverse. Per questo serve un’agenda nuova, concreta, che mobiliti cuore e cervello, principi e interessi, spiriti e stomaco della gente. Il nemico è fortissimo, ma alla fine ha il consenso di una minoranza, potentissima per lo scoramento nostro, le divisioni, i reciproci pregiudizi (chi scrive ammette di fare grande fatica a liberarsene) e soprattutto perché ha a disposizione tutti i mezzi.

Ci stanno prendendo, conquistando per coazione a ripetere, lavorando con tenacia sulle aree cerebrali deputate al pensiero critico, al ragionamento, al giudizio. Il gesto del ribelle è liberarsi dalla dipendenza tossica dalle loro notizie, dai bisogni indotti, dalle mode obbligatorie. E’ l’ora delle persone normali, il riscatto di chi ha nel cuore la diffidenza verso il potere, di chi soffre il degrado, la mancanza di libertà.

Gli interlocutori sono la maggioranza dei nostri popoli, ma da qualcuno bisogna cominciare: chi ha capito l’inganno, chi vuole diritti sociali, chi rivendica l’identità comunitaria, la sovranità, chi non vuole morire liberista e mondialista. Da qualunque esperienza proveniamo, dobbiamo, con ogni sforzo intellettuale e con la massima generosità, aprire insieme una strada, un percorso a cui tendere, tracciare un segnavia. Secondo Antonio Machado, “viandante, sono le tue impronte il cammino, e niente più; viandante, non c’è cammino, il cammino si fa andando. Andando si fa il cammino, e nel rivolgere lo sguardo ecco il sentiero che mai si tornerà a rifare. “

Nella seconda parte di questo intervento cercheremo di fornire, con umiltà, aperti a contributi di buona volontà, qualche idea e indicazione: pillole di speranza e futuro per un nuovo, urgente umanesimo.