Veneziani: Perché ci turbano le nozze omo del carabiniere

(il Totalitarismo dell’Innaturale)

di Marcello Veneziani

Ora aspettiamo il prete gay, magari con la barba, che bacia in bocca sull’altare il suo fidanzato mentre si autocelebra le nozze. Sarebbe l’ultima tappa, l’ultimo gradino, il coronamento di una parabola, almeno nella sfera dell’umano.

Sarei ipocrita se dicessi che quella fotografia del carabiniere in alta uniforme che si sposa con un uomo e lo bacia in bocca, passando in mezzo ad altri carabinieri in alta uniforme e picchetto d’onore, che fanno il tradizionale ponte di sciabole, mi lasci indifferente. No, non mi lascia indifferente. E non bastano tutti i pannicelli caldi allestiti per l’occasione: ti devi abituare, il mondo cambia, ora va così, non essere antiquato, ciascuno è libero di vivere come vuole e di fare le scelte che vuole, se non danneggia nessuno. Si, però insisto, mette a disagio, e non solo me, che ho la sincera temerarietà di dirlo, ma molta gente, e su questo disagio proverò a ragionarci su.

Cominciamo col dire altre cose. Suscita rabbia e sdegno il carabiniere o il poliziotto infedele, colui che tradisce il suo compito, la sua divisa, il suo giuramento, che abusa del suo ruolo, si lascia corrompere, è vile, fa affari approfittando della divisa. Un carabiniere in alta uniforme, con la barba – un tempo era vietata anche quella, erano permessi solo austeri baffoni, magari all’insù – che si bacia in bocca con uno dello stesso sesso, non suscita rabbia e sdegno, ma altri sentimenti e disorientamenti. Estetici, etici e simbolici. Intendiamoci, non è morto nessuno, non sono messi a repentaglio l’ordine pubblico, la sicurezza e la legalità. Però quell’immagine scuote un’abitudine, un modo antico e radicato di vedere il mondo. Infrange una tradizione; l’uomo ha bisogno di tradizioni, di continuità, di regole, di confini. La libertà non è tutto ciò che mi va di fare, la libertà confina in alto col dovere, in basso con la responsabilità, ai lati col rispetto degli altri e da ogni parte con la misura. Nella misura c’è la discrezione, la non ostentazione, la capacità di discernere ciò che è intimo da già che è pubblico, ciò che è privato da ciò che è solenne. E tutto questo si chiama buon gusto. E la netta separazione tra ciò che è intimo e privato e ciò che è pubblico e solenne.

Ogni scelta che si fa nella vita ti apre delle cose e te ne preclude delle altre, non si può essere tutto e il contrario di tutto, volere tutto e anche di più. Bisogna accettare un ruolo, sposare uno stile e ogni stile è fatto di cose da fare, altre da evitare. Una civiltà regge su questi reticoli rituali e simbolici che creano anche un circuito di affidabilità, autorevolezza e riconoscibilità. Ogni forzatura nei costumi è una violenza verso gli altri; lasciate che tutto maturi nel tempo, secondo natura, anche se la parola sembra stridente.

Insomma, quel che a me disturba, e presumo non solo a me, è l’interruzione di una tradizione e di un ordine naturale delle cose; la prevalenza, anzi la prevaricazione, di un fattore soggettivo su un’istituzione, su uno stile, su una condotta impersonale. Ancora una volta, l’irruzione del narcisismo pone l’io al centro di tutto, signore di ogni cosa, rispetto a cui non valgono norme, precedenti, costumi consolidati.

Certo, se col tempo muteranno queste abitudini, se saremo nei secoli infedeli – per rovesciare il motto e il blasone dei carabinieri – potranno cambiare anche quei costumi. Tutto sarà possibile, anche che l’umanità si estingua per troppo amor di sé, dell’io o dell’uguale, o lasci agli algoritmi il compito servile di procreare, a una specie d’intelligenza artificiale applicata agli organi sessuali. Col concorso di uteri in affitto e maternità surrogate, almeno fino a quando non si troveranno uteri artificiali e maternità col metaverso.

Il problema, signori, è che noi siamo umani, semplicemente umani, figli di madri e di padri, che erano a loro volta figli di padri e di madri, partoriti perfino a casa (neanche in clinica). E non possiamo che pre-occuparci da umani. Quel che verrà dopo, se ci sarà un dopo, non ci riguarda. Abbiamo il senso dei nostri limiti.

Ora torniamo al caso e a quell’immagine. Potrei venir fuori con un’ipotesi opposta a quella della vulgata, di coloro che si credono più svegli perché seguono la corrente. Che cioè queste immagini, o addirittura queste scelte, passata l’ebbrezza iniziale della (finta) trasgressione con elogio universale, superato il fervore della novità, abbiano una veloce parabola. Prima crescono e poi spariscono. Ricordo, ad esempio, le processioni e i riti dedicati ai principi astratti e alla natura idealizzata, imposti con la rivoluzione francese, che pretendevano di sostituire le tradizioni religiose e civili. Sparirono nel giro di breve tempo, tornarono le antiche processioni cristiane, anche se nel lungo periodo una parabola più grande tocca anche quelle.

La stessa cosa magari succederà con queste “uscite”, che gradualmente scemeranno, si faranno rare, marginali, trascurabili perfino, una volta esaurito il lato esibizionistico e narcisistico.

Aggiungo anche un’altra notazione: queste cose avvengono nel vuoto e nella noia del nostro vivere attuale. Se eventi più importanti, anche drammatici, dovessero riportarci crudamente alla realtà, capiremo che ci sono cose più importanti, più vere, più significative a cui dedicarci. Per ora viviamo in surplace il declino di una civiltà e ogni giorno si stacca un cornicione, un pezzo, cede una colonna o un capitello, e noi guardiamo distratti che precipita la storia, poi l’arte, poi il pensiero, poi la religione, quindi la famiglia; insomma tutta la filiera che costituiva una civiltà e una tradizione. Dal più grande al più piccolo dettaglio.

Più realisticamente diciamo che il futuro è aperto almeno a due ipotesi principali: che ci faremo l’abitudine e non ci baderemo più, o che questi episodi finiranno nella marginalità, subiranno una graduale rarefazione, una volta perso il fattore notizia e novità. In entrambi le ipotesi, non ci faremo più caso. Amen.

La Verità – 11 maggio 2023