SUL CASO CASAPOUND – di Luigi Copertino

SUL CASO CASAPOUND

L’UTOPIA DELLO “STATO DI DIRITTO”  ED I SILENZI STORIOGRAFICI

lotta politica, strumentalizzazione del diritto e falsificazioni storiche

Quella che segue, per i motivi che diremo, non è affatto una difesa di Casapound ma soltanto una serena riflessione sui più recenti eventi di cronaca nella prospettiva della realistica presa d’atto sull’impossibilità effettiva per lo Stato di essere, in senso assoluto, “di diritto” ovvero politicamente neutro e senza “nemici”.

Una presa d’atto alla quale porta l’analisi disincantata dei fatti, sotto il profilo storico e filosofico, non senza però una punta di rammarico perché la prospettiva di una convivenza civile nel reciproco rispetto delle diverse posizioni religiose, filosofiche, politiche – anche di quelle meno presentabili –, che certo presuppone l’assenza di violenza e di intimidazione, resta una bellissima “utopia”, non realizzabile se non in forme molto ma molto parziali e deficitarie.

Probabilmente questa “utopia” non è nelle possibilità umane, almeno non lo è senza un cambiamento del cuore: ma qui si entra in una dimensione trascendente che, purtroppo, non è da tutti accettata. Solo da pochi.

L’idea della tolleranza, fondamento della pretesa liberale dello Stato di diritto, nasce, dopo le guerre di religione, tra XVII e XVIII secolo quale istanza di neutralizzazione del conflitto politico e di garanzia dell’accesso a tutti dello spazio pubblico e civile.

E’ certamente vero che sin dall’inizio vennero fatte delle eccezioni. Ad esempio John Locke invocava tolleranza per tutti tranne per gli “oscurantisti” cattolici, perché, a suo giudizio, per il loro dogmatismo intrinsecamente intolleranti. Ma, in linea di principio, la tolleranza doveva essere generale.

Il famoso adagio, attribuito a Voltaire, “non sono d’accordo con quanto sostieni ma darei la vita affinché tu possa liberamente affermarlo” è stato preso a simbolo della neutralizzazione giuridica del conflitto politico che sta, o dovrebbe stare, alle fondamenta dello Stato di diritto.

Nella sua accezione più genuina e radicale questa concezione liberale dello Stato non dovrebbe ammettere “nemici pubblici” e dovrebbe garantire a tutti i gruppi, chiese, partiti politici, circoli culturali, i medesimi diritti di libertà e di azione. Con il solo limite dell’esclusione della violenza contro le altre realtà associative.

Abbiamo avuto in questi giorni una ulteriore riprova dell’utopismo che caratterizza lo Stato di diritto. Quanto è emerso nella vicenda Palamara-Salvini e, soprattutto, quanto sta emergendo nella vicenda giudiziaria imbastita contro Casapound dimostra che anche lo Stato liberale può avere nemici pubblici e che anche nello Stato liberale, presuntivamente neutro, il diritto è arma di lotta politica.

Dicono che il magistrato titolare dell’azione penale contro il movimento neofascista romano sia vicino, idealmente, all’Anpi ossia all’organizzazione promotrice della “notizia criminis” per il reato, tutto da dimostrare, di “istigazione all’odio razziale”. Il quotidiano Il Giornale ha pubblicato un servizio sul profilo facebook di Eugenio Albamonte, il magistrato in questione. Secondo l’inchiesta in questione, pare che tale profilo si fregiasse, fino a pochi giorni prima, di simboli e richiami all’Anpi. Sembra, inoltre, che dopo l’inchiesta giornalistica il magistrato si sia affrettato a togliere quei simboli dal suo profilo.

Anche nella vicenda Salvini la strumentalizzazione politica del diritto è stata lampante laddove nelle conversazioni intercettate tra magistrati si ammetteva l’insostenibilità delle accuse contro l’ex ministro degli interni e tuttavia si perorava l’azione penale contro di lui inteso quale nemico politico da abbattere.

Tutto questo non meraviglia chi, con disincanto, ha appreso la realistica lezione di Carl Schmitt sul fondamento conflittuale del Politico e quindi sull’impossibilità in assoluto di uno Stato di diritto. Il grande giurista e filosofo politico ha smontato, con sagace realismo storico, le illusioni liberali sulla neutralità giuridica evidenziando come, al contrario, il diritto sia espressione del Politico, quindi a maggior ragione dei paradigmi filosofici e persino teologici che presiedono al Politico stesso. Per Schmitt non esiste dimensione politica, ovvero vivere associato, senza conflitto. I gruppi umani si formano, secondo Schmitt, in ragione della designazione del nemico pubblico. In altri termini il nemico comune fonda l’amicizia e quindi l’appartenenza politica. Ciò vale per gli Stati come per le comunità minori.

Il Carl Schmitt che teorizza questa concezione è lo Schmitt della fase hobbesiana. Ma il giurista tedesco partiva da premesse cattoliche, anche se eccessivamente sbilanciate verso l’antropologia negativa. Infatti se è vero che nella concezione cattolica il Politico si fonda primariamente sull’amicizia determinata dal “bene comune” – il conflitto, come la morte, non faceva parte del Disegno Originario – resta altrettanto vero che, causa il conseguito deficit ontologico dell’uomo ossia il peccato, l’inimicizia, nella condizione post-adamica, è sempre presente e costituisce una realtà ineludibile con la quale bisogna costantemente fare i conti. E’ possibile, certo, attutirlo, mediarlo, contenerlo, renderlo sopportabile, ma il conflitto sarà, fino alla fine dei tempi, un triste compagno di strada dell’uomo.

La pretesa di neutralità assoluta dello Stato liberale ha avuto la sua smentita storica più eclatante nella prima parte del XX secolo quando la democrazia liberale fu travolta dai suoi nemici dichiarati, il fascismo ed il comunismo (nelle loro diverse varianti). Nemici che, nell’assetto liberale dell’ordinamento fuoriuscito dalle rivoluzioni borghesi dell’ottocento, non potevano essere ostracizzati né repressi con la forza avendo essi, proprio in base al citato principio volterriano, ogni diritto non solo di esistenza ma anche di parola e di propaganda.

Cadute tragicamente le ideologie totalitarie, le democrazie liberali occidentali hanno revisionato il proprio approccio ammettendo che lo Stato di diritto non è una concezione neutrale in assoluto ma ha i suoi nemici – quelli che Karl Popper ha indicato come “nemici della società aperta” – e che detti nemici non possono godere di garanzie di libertà nell’ambito pubblico. Garanzia di libertà per tutti tranne che per i non liberali.

Ma così facendo lo Stato di diritto ha smentito sé stesso. Perché se il suo fondamento è il principio di assoluta indifferenza verso qualunque posizione teologica, filosofica, politica – tutte relativizzate nella visuale liberale – è evidente che, nel momento nel quale si ammettono nemici pubblici della democrazia liberale, si sta dicendo che lo stesso Stato di diritto altro non è che una costruzione politica, nel senso schmittiano del termine, ovvero un assetto di esercizio del potere, nudo e crudo, a giustificazione di un ben preciso paradigma ideologico, e dei sottostanti rapporti di forza, con esclusione di tutti gli altri o perlomeno di alcuni altri.

Questo smascheramento del volto intollerante del liberalismo, nascosto dietro una facciata di tolleranza, ha avuto una manifestazione in grande stile, su scala internazionale, da quando, dopo il 1989, le democrazie liberali occidentali hanno messo in atto “operazioni di polizia internazionale” per esportare a suon di bombe la “democrazia” contro gli “Hitler” di turno, i Saddam, i Gheddafi, l’Iran, la Russia. Chi non accetta il paradigma liberale – come osservava Carl Schmitt nella sua analisi critica dei fondamenti ingannevoli del liberalismo – è “fuori dell’umanità”, è, in altri termini, un non-uomo, un barbaro, un incivile e quindi come tale può essere trattato fino alla repressione.

In Italia, per evidenti motivi storici, del paradigma di intollerante tolleranza liberale si è impadronita, pro domo sua, una certa sinistra, quella di riferimento dell’Anpi, che ha imposto – sul piano dell’opinione pubblica e del dibattito mediatico, perché in realtà sul piano accademico e della scienza storica le cose stanno ben altrimenti – la fasulla narrazione secondo la quale il partito comunista sarebbe stato il vero motore della resistenza contribuendo in modo determinante alla rinascita, dopo la dittatura fascista, della democrazia. Questa narrazione non fa alcuna distinzione tra la resistenza monarchica, cattolica, socialista, azionista, liberale e quella comunista. Anzi, quest’ultima è la resistenza tout court, sicché i comunisti degli anni ’40 e ’50 sarebbero stati dei democratici progressisti, tutti virtuosi liberali, mentre gli altri antifascisti sotto sotto erano meno virtuosi ed al servizio degli americani. Il che è vero ma non meno vero del fatto che i comunisti fossero al servizio di Mosca.

Si è così costruito un “mito” fondatore che identifica nel partito comunista, la vera e sostanzialmente unica forza sicuramente antifascista, l’anima stessa della resistenza. Per questo motivo, oggi, l’Anpi e gli Albamonte si sentono legittimati ad agire contro i “nemici pubblici” della democrazia nella prospettiva, che abbiamo visto, dello Stato di diritto rivisto e corretto nel senso della sua parziale neutralità.

Ma la realtà storica è ben altra ed a ricostruirla schiere di studiosi hanno dedicato sforzi e fatica purtroppo non ricompensati dall’acquisizione da parte del più vasto pubblico di quanto la loro fruttuosa ricerca storica veniva appurando. Tra l’accademia e l’opinione pubblica, anche quella più colta, si è frapposto il filtro selezionatore dei “sacerdoti” della vulgata, alla quale abbiamo fatto cenno, che immediatamente hanno bollato, a scopi di ostracismo dal dibattito, come “revisionismo”, o, peggio, “negazionismo”, le ricerche storiche non in linea con la narrazione ufficiale.

Si è così tenuto in piedi una mitologia falsificante della resistenza, che fu invece un fenomeno storicamente molto più complesso di quanto si è voluto far credere e non privo delle sue ombre ed anche dei suoi crimini (in certi casi perpetrati a guerra finita). Una mitologia alla quale – va detto con altrettanta onestà intellettuale – il neofascismo ha opposto un’altra mitologia, dialetticamente complementare alla prima nel senso che si sostengono a vicenda, ossia quella di un “fascismo puro”, tradito dalla pratica di potere del ventennio, che è l’equivalente, a farci caso, dell’approccio con il quale a sinistra si parla del “comunismo puro” di Lenin tradito da Stalin (un altro falso storico dato che Lenin non era certo un socialista aperto ad istanze di libertà politica).

Orbene la vittima di questa guerra, tra le opposte tribù del neofascismo e del neoantifascismo, è la complessità della storia ed anche della filosofia. Una complessità che travalica e smonta ogni schematismo precostituito dall’una e dall’altra parte.

Si dimentica, ad esempio, che il partito comunista italiano non ha ereditato soltanto molta parte del patrimonio immobiliare delle organizzazioni di massa fasciste ma anche l’intellighenzia nata e cresciuto nel seno di un Mussolini che su di essa puntava per portare a compimento la “rivoluzione fascista”. Ebbe a spiegarlo, ben prima delle più approfondite ricerche storiche di Renzo De Felice e della sua scuola, un Ruggero Zangrandi, nel libro del 1962 “Il lungo viaggio attraverso il fascismo”. Zangrandi, diventato poi dirigente comunista, era stato compagno di banco di Vittorio Mussolini, figlio del duce, del quale conservò sempre il bel ricordo di una sincera umana amicizia, e poi un quadro dei Guf (Giovani Universitari fascisti). Fu esponente, per usare la definizione defeliciana, di quel “secondo” o “nuovo” fascismo degli anni ’30 il quale spingeva per il compimento della svolta antiborghese ed anticapitalista del regime, in polemica con le componenti conservatrici dello stesso, inneggiando alla rivoluzione sociale. Un fascismo giovanile che soprattutto nei “Littoriali della cultura”, organizzati da Bottai, si esprimeva in totale libertà di critica, tanto è vero che molti di quei giovani, disillusi dal fallimento delle speranze riposte nel corporativismo, iniziarono a maturare il trapasso al comunismo proprio in quei raduni culturali. Questo fascismo di sinistra, che poi altro non era che il riemergere del primo fascismo espressione della sinistra sindacalista ed interventista degli anni 1914-1919, nel secondo dopoguerra passò armi e bagagli nelle fila del partito comunista per – attenzione! – continuare la stessa battaglia anticapitalista iniziata con il fascismo ossia senza soluzioni ideali di continuità, non per tradimento o voltagabbanaggine.

Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, era anche lui parte di questo neofascismo giovanile degli anni ’30. Nei suoi articoli sulla stampa gufina all’indomani del Patto Ribbentrop-Molotov, invocava, con buona dose di velleità forse ma con sincera convinzione ideale, l’Asse Roma-Berlino-Mosca contro le democrazie plutocratiche occidentali, ossia un’alleanza degli Stati totalitari contro l’Occidente capitalista. All’epoca “totalitarismo” non era una parolaccia, benché in realtà il fascismo italiano non fu mai effettivamente totalitario ma piuttosto un autoritarismo modernizzante di massa.

Anche l’accademia universitaria formatasi all’ombra dell’idealismo gentiliano – si pensi, per fare un esempio, al nome di Delio Cantimori – passò al partito comunista seguendo lo sviluppo, verso sinistra, della linea culturale egemone nell’università del regime. Era stato lo stesso Giovanni Gentile, nel 1943, ad invitare i comunisti alla pazienza definendoli “corporativisti impazienti delle more di sviluppo di un’idea”. In altri termini, Gentile diceva ai comunisti che se avessero avuto meno fretta avrebbero ottenuto dagli sviluppi del corporativismo fascista la realizzazione del comunismo. Uno sviluppo comunista del corporativismo già intravisto, nel famoso convegno di Ferrara del 1932, come una concreta possibilità da Ugo Spirito quando presentò, tra molte critiche ma con l’appoggio segreto di Mussolini, la tesi della “corporazione proprietaria”.

Si dimentica, per fare un altro esempio, che Palmiro Togliatti parlava di “via nazionale al socialismo” nell’immediato dopoguerra perché aveva ben compreso la lezione del fascismo e la necessità dell’alleanza tra operai e ceto medio in chiave sociale e nazionale. Esattamente quell’alleanza che nel 1919-1922 il Psi, illudendosi sulla possibilità di una rivoluzione sovietica anche in Italia (impossibile data la più avanzata realtà sociale italiana rispetto all’arretrata Russia zarista), rifiutò ponendosi contro la “piccola borghesia anticapitalista” ed interventista, della quale i Fasci di combattimento fondati da Mussolini nel 1919, erano una espressione politica. L’incomprensione del socialismo ufficiale, chiuso in un utopico operaismo, verso il cento medio contribuì allo scivolamento del primo fascismo socialista verso una controversa e sofferta alleanza con i fiancheggiatori di destra interessati, ad iniziare dai nazionalisti, soltanto ad usare gli squadristi come forza d’urto contro la sinistra, benché gli squadristi, almeno fino al 1920, si opponessero ai socialisti non per antisocialismo ma perché il Psi rifiutava di portare la nazione vittoriosa alle masse operaie. Se non ci fosse stata la stupida cecità socialista le cose potevano andare diversamente.

Si dimentica che il meglio della cultura europea ed internazionale – da Ezra Pound a Thomas Stearn Eliot, da Pirandello ad Ungaretti, da Marconi a Chesterton, da Orage a Thomas Mann, da Brasillach a Drieu La Rochelle, da Maritain a Mounier, da Ramiro de Maetzu a Ortega y Gasset, da D’Annunzio a Ardengo Soffici, solo per citare qualcuno dei nomi di un lunghissimo e quasi interminabile elenco – aderì o civettò con il fascismo o con qualche sua variante. Gli studiosi antifascisti onesti hanno preso atto di questo entusiasmo che contagiò il meglio della cultura dell’epoca e, contestando la stupida condanna di Bobbio per il quale il “fascismo è stato un errore contro la cultura”, hanno concluso che esso è stato piuttosto un “errore della cultura”.

E che dire del fatto che Antonio Gramsci fosse, filosoficamente parlando, debitore e nascosto allievo di Giovanni Gentile oltre che di docenti, poi “fascisti”, come Roberto Michels e Gaetano Mosca, dei quali seguiva le lezioni a Torino?

Oppure che dire di un Nicolino Bombacci, insieme a Gramsci ed Amedeo Bordiga (quest’ultimo nel 1940 era un segreto “tifoso” dell’Asse contro l’Inghilterra capitalista), cofondatore del PCd’I nella scissione socialista di Livorno del 1921, con la barba del quale gli squadristi, secondo una loro canzonaccia, avrebbero voluto fare lo spazzolino per lustrare le scarpe di Benito Mussolini e che invece, protetto ed aiutato (insieme ad altri, come Pietro Nenni) durante il ventennio dal vecchio compagno diventato dittatore che non gli chiese mai abiure, aderì entusiasta al fascismo repubblicano – si presentò da Mussolini, a Salò, dicendogli che dopo il tradimento della monarchia e della borghesia finalmente sarebbe stato possibile realizzare il socialismo – per morire fucilato dai partigiani gridando “Viva il socialismo!”?

E delle dichiarate simpatie – lo attestano i suoi diari – del comunista Cesare Pavese per la Repubblica Sociale e il fascismo socializzatore cosa si deve dire? Oltretutto Pavese negli anni ’50, prima di suicidarsi, riuscì ad imporre la pubblicazione di autori “dannati”, perché sospetti fi fascismo, come Mircea Eliade il più importante storico delle religioni del XX secolo.

O ancora che dire del carattere speculare dell’azionismo liberalsocialista rispetto al fascismo di sinistra, entrambi dipendenti in gran parte dalla lezione idealistico-volontarista di Giovanni Gentile, sicché, come ha dimostrato Augusto Del Noce, l’azionismo era un sorta di “fascismo allo specchio”?

Renzo De Felice e Giordano Bruno Guerri hanno messo in luce la filiazione mazziniana, giacobina e di sinistra risorgimentale che presiedette alla dannunziana Carta del Carnaro del Libero Stato di Fiume, in realtà elaborata dal sindacalista Alceste De Ambris (poi, incurante degli appelli rivoltigli da Mussolini affinché tornasse per guidare i sindacati del regime, finito esule antifascista a Parigi mentre il fratello Amilcare diventò un esponente del sindacalismo fascista). In essa era prefigurata una democrazia sociale, di impianto corporativista, molto avanzata. Modello al quale un fascista critico come Giuseppe Bottai, grande organizzatore della cultura del regime, si ispirò nei suoi, purtroppo inutili, tentativi di democratizzare le strutture corporative e sindacali fasciste.

Nella sua ultima, recente e importante fatica – “Quando Mussolini non era il duce” (2020) – lo storico Emilio Gentile, forse il vero erede di Renzo De Felice, ha ricostruito il passaggio di Mussolini dal socialismo ufficiale, nel 1914 neutralista – Mussolini fino a quel momento era stato il leader dell’ala massimalista e rivoluzionaria del Partito socialista e come tale aveva assunto la direzione de “L’Avanti” nel 1912 aumentandone in modo considerevole le vendite come anche le adesioni al partito –, all’interventismo di sinistra con parallelo avvicinamento alla linea mazziniana e risorgimentale del socialismo e del sindacalismo. Fino ad assestarsi, tra il 1918 ed il 1919, su una posizione di socialismo riformista – tanto  è vero che rivalutò pubblicamente su “Il Popolo d’Italia” la figura di Filippo Turati – che faceva del gruppo che andava  coagulandosi intorno a lui ed al suo quotidiano, e che sarebbe stato ufficializzato come “antipartito” con la fondazione il 23 marzo 1919 dei “fasci di combattimento” (il termine “fascio” apparteneva da tempo alla tradizione democratica), un movimento del tutto inserito nella scia del riformismo repubblicano, democratico e social-riformista, in una chiave “produttivista” – collaborazione tra capitale e lavoro nel momento produttivo e lotta rivendicativa operaia nel momento redistributivo della ricchezza prodotta – che era la stessa del De Ambris della Carta del Carnaro ma anche del miglior socialismo europeo ad iniziare dalla CGT, il maggior sindacato francese di sinistra. Alla luce di questo percorso, che prima della marcia su Roma non lo allontanava affatto dal socialismo riformista di un Giacomo Matteotti, diventa comprensibile il motivo per il quale Mussolini al potere tentò, prima dell’Aventino, di riannodare i legami, mai del resto del tutto venuti meno, con i suoi vecchi compagni socialisti. L’assassinio di Matteotti, come lo stesso Mussolini comprese e in confidenza affermò, fu un’operazione diretta contro la “pacificazione”, auspicata da settori dell’una e dell’altra parte, ma contestata proprio dal deputato socialista e dagli estremisti, sia fascisti come Roberto Farinacci sia fiancheggiatori come il nazionalista Luigi Federzoni, del “blocco nazionale”. Certo poi su Mussolini ricade tutta la responsabilità storica per aver ceduto (o consentito volontariamente) alle pressioni dei “duri” che a fronte dell’indignazione pubblica per l’uccisione di Matteotti, la quale sembrò far vacillare il primo governo fascista, volevano un “giro di vite”, realizzato per l’appunto mediante il discorso del 3 gennaio 1925 con l’inaugurazione della dittatura.

E’ fastidioso per la vulgata corrente, essa sì “negazionista”, dover fare i conti con le origini sindacaliste e socialiste del fascismo ma anche con dati storici innegabili come il fatto che la basi dello Stato sociale in Italia furono messe negli anni ’30 dal regime, per far fronte alla crisi del 1929. Lo Stato dirigista ed interventista in economia – con i suoi enti pubblici dall’Iri all’Agip (sul cui troncone, nel dopoguerra, Enrico Mattei creò l’Eni), dall’Inps (che perfezionò il sistema previdenziale già avviato in età liberale) fino alla ingente mole legislativa in materia sociale ed Legge Bancaria del 1936, la quale nazionalizzò la Banca d’Italia ed impose alle banche ed alla finanza di operare in favore dell’economia reale e non per i propri interessi autoreferenziali – fu avviato dal fascismo e le strutture da esso realizzate, come anche la legislazione promulgata, furono ereditate ed ulteriormente sviluppate dalla Repubblica antifascista.

Si nasconde, per evitare imbarazzi, che molti tra i “padri costituenti” si formarono, con convinta adesione alle idealità del momento, sotto il regime fascista e che quella formazione culturale portarono nell’elaborazione della Costituzione del 1948, come si evince dai dibattiti, conservatici, in sede di Costituente.

Basta solo dire che Amintore Fanfani – al quale si deve la formulazione dell’articolo 1 della Costituzione laddove si afferma che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” – fu negli anni ’30, quale docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, un convinto, seppur critico, sostenitore dell’esperimento corporativista inteso come ricostruzione di un necessario organicismo sociale nel cui quadro elevare le condizioni dei lavoratori. Dal dibattito in Costituente tra Fanfani e Giuseppe Di Vittorio, capo della Cgil e già vicino in un breve momento della sua vita al sindacalismo rivoluzionario nel primo anteguerra, si desume chiaramente che, nella formulazione di articoli come il 39 ed il 46, si volesse riprendere la finalità del controllo economico cui mirava il corporativismo fascista ma democratizzandolo per volgerlo verso la realizzazione di una democrazia sociale ad interclassismo avanzato e fortemente riformatore. Questa, in fondo, era la stessa aspirazione di un Bottai, ministro fascista delle Corporazioni, e della sinistra fascista (sul “progetto mancato” della quale si rinvia al bellissimo libro dello storico Giuseppe Parlato “La Sinistra fascista”, 2000).

Veniamo, quindi, quasi in conclusione, ad un esame più ravvicinato delle conseguenze alle quali porta il “negazionismo storiografico” della vulgata corrente.

Un giornalista di lungo corso e certamente persona colta – dettaglio importante che nell’occasione però costituisce una “aggravante” – come Gad Lerner sul “Il Fatto Quotidiano” del 5 giugno scorso, commentando il provvedimento di incriminazione di Casapound e di sgombero dello stabile abusivamente occupato dai “fascisti del duemila” (come invece non si fa per i tanti intoccati ed intoccabili centri sociali di sinistra e per il palazzo Inps, occupato da migranti, presso il quale l’elemosiniere di Papa Bergoglio, alcuni mesi fa, riallacciò la corrente elettrica tagliata per morosità), ha testualmente scritto, riferendosi alla eccessiva tolleranza che a suo giudizio ha goduto l’organizzazione neofascista: «Un’indulgenza plenaria figlia dei tempi, riservata a militanti che hanno fatto dell’intimidazione xenofoba il loro biglietto da visita, presentandosi come fautori – cito – di “un’Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana”. ».

Orbene non è dato di capire, se non nella logica di chi, come Lerner, ricco radical-chic di sinistra, fa professione di cosmopolitismo ritenendo tutte le identità ed appartenenze pericolose – se si tratta di quelle degli altri popoli e non sia invece quella del popolo israeliano il quale pare, in quest’ottica, l’unico ad aver diritto ad una appartenenza storica e ad uno Stato nazionale –, come è possibile accostare, in modo falso e falsificante, le correnti culturali enumerate nella citazione lerneriana alla xenofobia ed al razzismo, se non peggio all’antisemitismo.

Ammesso e non concesso che nella sede di Casapound si organizzi l’odio xenofobo, accusa che è ancora tutta da dimostrare in sede processuale, e ammesso e, invece, ampiamente concesso che effettivamente il livello culturale di molti militanti nelle organizzazioni neofasciste, le quali li reclutano tra le tifoserie calcistiche, sia non a zero ma sotto zero – benché i vertici di Casapound si siano dimostrati capaci organizzatori di incontri culturali aperti all’“altro da sé” ed ai quali hanno partecipato persino Giulio Tremonti, Nicola Porro, Enrico Mentana, solo per fare qualche nome altisonante –, non è affatto consentito neanche a Gad Lerner ed a “Il Fatto Quotidiano” di scrivere corbellerie storiche.

L’Italia sociale cui, stando alla citazione di Lerner, si richiama Casapound appartiene ad una più che degna cultura politica che risale, per l’appunto, al Risorgimento. Non a quello moderato, cavouriano, liberale e conservatore ma a quello democratico dei Mazzini, dei Pisacane, dei Garibaldi, dei Buonarroti, con i suoi addentellati francesi  da Babeuf a Proudhon, e che fu sconfitto per trovare però continuazione nel sindacalismo rivoluzionario e nel socialismo riformista e che, come tale ossia come socialismo tricolore e nazionale, attraversò il fascismo costituendone l’“anima movimentista”: il “fascismo movimento” distinto da Renzo De felice dal “fascismo regime” condizionato dai conservatori di destra.

Quindi come si può accostare, al modo surrettizio e strumentale di Lerner, un democratico quale Giuseppe Mazzini o un sindacalista rivoluzionario quale Filippo Corridoni (l’“arcangelo dei lavoratori” era chiamato) o aggiungiamo noi, perché era sulla stessa linea, un socialista come Cesare Battisti, sul quotidiano del quale scriveva il suo amico ed esule Benito Mussolini nel Trentino ancora asburgico, alle pulsioni xenofobe e razziste che allignano in certi settori del neofascismo più becero?

Se è vero che da una certa concezione del “Popolo”, approcciato secondo la tradizione filosofica storicista come inveramento immanente di “Dio” nella storia, concezione che fu anche dell’hegelismo ma – attenzione! – anche del sionismo di Theodor Herzl, è possibile transitare verso la “deificazione del popolo”, e quindi al razzismo, non è però lecito affermare che questo passo sia sempre ineluttabile e soprattutto che sia stato definitivamente compiuto dalle correnti politiche alle quali si richiama Casapound ed ai personaggi che Lerner ha tirato in ballo.

D’altro canto cosa hanno a che fare Filippo Tommaso Marinetti ed il futurismo nonché Gabriele D’Annunzio con il razzismo e la xenofobia dato che sia il primo che il secondo protestarono contro le leggi razziali e l’alleanza con la Germania hitleriana. Il Vate, nel 1938, prima di morire ammonì Mussolini a guardarsi dalla Germania e lo stesso Mussolini nel suo discorso a Bari nel 1934, difendendo l’Austria del piccolo cancelliere cristiano-sociale Engelbert Dollfuss, che sarebbe stato assassinato dai nazisti austriaci, ironizzò sulle “dottrine d’oltralpe di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare la propria storia, nei tempi nei quali Roma aveva già Virgilio ed Augusto”.

E Giovanni Gentile poi? Il dominus dell’università italiana, sotto il regime, non solo prese pubblica posizione contro l’antisemitismo tedesco e le leggi razziali italiane ma anche aiutò concretamente e protesse colleghi ed allievi ebrei.

Come dunque ha potuto Gad Lerner accostare tutto ciò, tutti costoro, alla xenofobia ed al razzismo?

Forse qualche fondamento storico di effettivo avvicinamento a posizioni razziste potrebbe esserci per Alessandro Pavolini. Ma anche in tal caso non si possono dimenticare alcuni non trascurabili “dettagli”. La provenienza familiare di Pavolini da un padre noto docente di indoeuropeistica, una scienza al tempo non aliena da certe sviste “ariane” oggi superate, e la sua persistente amicizia, anche negli anni dello squadrismo fiorentino, con Nello e Carlo Rosselli. Così come non si può dimenticare che alla rivista da lui fondata, “Il Bargello”, collaborarono Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Ardengo Soffici, Indro Montanelli (quest’ultimo disse di lui che sotto l’apparenza dell’intellettuale tollerante si celava tuttavia l’estremista). Protetto dal genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, fece carriera nei ranghi del partito fascista ma insieme al suo mentore ebbe una linea prudenziale e guardinga nei confronti dell’alleanza con la Germania nazista. Questo atteggiamento antitedesco trapelò apertamente nel 1939, in occasione dell’invasione hitleriana della Boemia, quando Pavolini ebbe a dire, in pubblico, che si trattava dell’occasione buona per mettere a posto per sempre la Germania, provocando un piccolo incidente diplomatico con Berlino. Come segretario del Partito Fascista Repubblicano capeggiò, è vero, insieme a Farinacci, gli estremisti di Salò, che Mussolini tuttavia cercò di contenere nell’intento di non esacerbare ulteriormente l’odio tra italiani, ed in questo finì per farsi strumento della volontà repressiva tedesca creando le “Brigate Nere” allo scopo di reprimere quella che Mussolini, con linguaggio da giacobino rivoluzionario, quale in fondo era per origini culturali socialiste, aveva definito la “Vandea” ovvero le zone di più ampia ed indisturbata operazione partigiana. Tuttavia i “franchi tiratori” da lui organizzati per la difesa di Firenze, gruppi di giovani e donne che sacrificarono la loro vita fucilati dagli americani, suscitarono l’ammirazione del generale statunitense Harold Alexander che ebbe a dire di amare il capoluogo toscano perché è stata l’unica città della penisola nella quale fu accolto a fucilate dagli italiani. Pavolini sarebbe finito a piazzale Loreto insieme a Mussolini, dopo aver messo in salvo la sua amante l’attrice Doris Duranti. Ma anche per Pavolini non è possibile affermare una convinta adesione a concezioni razziste e xenofobe se non nella misura propria dei tempi nei quali l’idea di una superiorità dell’uomo bianco era comune anche alle democrazie e nella misura poi indotta dallo sviluppo delle alleanze politiche e della guerra.

In realtà xenofobia e razzismo non erano affatto connaturati al patrimonio ideale del fascismo né nei suoi albori, ascrivibili al novero della tradizione democratico-socialista, né nel corso del regime, per quanto all’interno dei molteplici circoli culturali e politici, che vivevano all’ombra del potere fascista spesso in aperto conflitto tra loro dato che ciascuno di essi interpretava il fascismo a modo suo e sovente in letterale contrapposizione a quello degli altri (si pensi alle opposte correnti di “stracittà” e di “strapaese”), ce ne fossero alcuni che teorizzavano un razzismo tutto “italiano e romano” per distinguerlo dal razzismo nazista: dal circolo di Telesio Interlandi, massone influenzato dalle teorie darwiniane – che, dopo il 25 aprile, fu salvato e nascosto, insieme al figlio Cesare, per “laica pietà” dal suo avvocato, un socialista antifascista che aveva subìto la persecuzione del regime, mentre negli stessi frangenti un medico ebreo si rifiutò di curare Cesare molto malato – ed alle cui riviste collaborarono Brancati, Moravia, Pirandello, Soldati, Cardarelli e Alvaro, al circolo di Julius Evola, esoterista tradizionalista, che argomentava di un non meglio precisato “razzismo spirituale”, in opposizione a quello materialista e biologico del nazismo, e che piacque allo stesso Mussolini come teorizzazione fascista del problema quasi in polemica con l’approccio nazista.

Ma anche il rapporto di Mussolini con l’antisemitismo non è così automatico e lineare come ha fatto presumere nel suo maldestro intervento Gad Lerner. Anzi è sempre stato un rapporto artificiale e posticcio, persino negli anni delle leggi razziali come dimostrano i tentativi, certo ridicoli, di distinguere il razzismo fascista, “romano e spirituale”, da quello nazista, “materialista e biologico”.

Ancora Emilio Gentile, nel suo libro “Mussolini contro Lenin” (2017), ha ricostruito una polemica del 1919 su “Il Popolo d’Italia” tra Mussolini ed un suo lettore ebreo e patriota, sincero estimatore delle posizioni politiche espresse dal giornale del futuro duce. Mussolini aveva pubblicato un maldestro articolo sui rapporti tra bolscevismo e comunismo. L’invettiva antiebraica di Mussolini, ci dice Emilio Gentile, apparve inconsueta agli stessi fascisti della prima ora. Egli, infatti, non aveva mai fatto dell’antisemitismo un elemento ideologico o programmatico. Anzi molti ebrei avevano aderito all’esordiente movimento fascista. Una adesione sincera mossa da spirito patriottico e/o social-riformista. Tra questi ebrei, sostenitori del fascismo alle origini, anche l’interlocutore di Mussolini nell’occasione in questione, tal Bachi, che gli rimproverò, in una lettera pubblicata senza censure su “Il Popolo d’Italia”, che i rapporti con il bolscevismo erano mantenuti soltanto da parte dei ricchi finanzieri di provenienza ebraica mentre la maggior parte degli ebrei, in Italia come altrove, erano poveri, sinceri e devoti patrioti e quindi non responsabili di quanto attribuibile alla componente borghese del popolo ebraico. Mussolini accolse benevolmente e con favore le critiche di Bachi fino a precisare in un successivo articolo che l’Italia «non conosce l’antisemitismo e crediamo che non lo conoscerà mai (perché) in Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei, in tutti i campi, dalla religione alla politica, alle armi, all’economia. (…). La nuova Sionne, gli ebrei italiani l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra, che, del resto, molti di essi hanno difeso eroicamente col sangue. Speriamo che gli ebrei italiani continueranno ad essere abbastanza intelligenti, per non suscitare l’antisemitismo nell’unico Paese dove non c’è mai stato». Il riferimento a non suscitare l’antisemitismo era un invito a non fiancheggiare, come altrove andava accadendo, l’utopia comunista e le pulsioni rivoluzionarie innescando una reazione indiscriminata contro tutti gli ebrei, per lo più esenti da responsabilità politiche.

Si potrà osservare che il Mussolini del 1919 non è il Mussolini del 1938. Ed è vero a condizione però di ricordare anche che la bieca legislazione razziale fu piuttosto uno strumento della polemica antiborghese degli anni ’30 ed una necessità diplomatica nel corso della alleanza con la Germania, del tutto evitabile se Francia ed Inghilterra, nella questione etiopica, non fossero state così cieche da gettare l’Italia nelle braccia di Berlino.

Ma, affermato questo, non è possibile stabilire, sul piano storiografico e filosofico, una automatica ed inesorabile equazione fascismo = antisemitismo o razzismo, allo stesso modo nel quale Renzo De Felice ci ha spiegato che è falsa anche l’espressione “nazifascismo” essendo le due ideologie, pur nel novero della stessa tipologia delle “religioni politiche” e quindi dell’immanentizzazione spuria del Sacro, del tutto divergenti, in quanto il fascismo, in questo simile al comunismo, era teso verso un inveramento escatologico “progressista” nel futuro mentre il nazionalsocialismo, al contrario, lavorava per la restaurazione dell’età dell’oro della primordiale purezza ariana, con ritorno “reazionario”, benché modernista, al passato.

Gad Lerner dunque, nella sua maldestra invettiva contro Casapound, ha storicamente glissato. Non sappiamo se per non perfetta conoscenza degli argomenti, ed in tal caso è scusabile, oppure per sostenere una vulgata costruita su narrazioni filosofiche e storiche errate, ed in tal caso è inescusabile. Essendo lo scrivente cattolico, dunque sempre in dovere di misericordia verso le debolezze umane, vuole credere alla prima ipotesi e scusare il noto giornalista.

Proprio il suo essere cattolico comporta per lo scrivente l’inderogabile dovere, nella propria attività divulgativa di cultore di cose storiche e filosofiche, della difesa della verità e delle oneste ricostruzioni storiografiche, contro le visioni falsificate. Senza che questo implichi una adesione ideologica alle culture politiche esaminate, pur avendole attraversate in età giovanile per poi liberamente e francamente ripensarle, disincantarle ed oltrepassarle. Ma al netto di spregevoli infingimenti o inutili stracciamenti di veste come usano fare gli ipocriti.

Luigi Copertino