ORGANICISMO VERSUS INDIVIDUALISMO di Luigi Copertino

ORGANICISMO VERSUS INDIVIDUALISMO 

Le dinamiche di un antico antagonismo negli ultimi due secoli della modernità

Pluralismo e Unità

Nel mio recente libro “Stato e Sindacato” (1) ho affrontato, sotto un profilo filosofico e storico, la questione della continuità tra corporativismo e costituzione repubblicana. Una continuità che è possibile rintracciare, nonostante la frattura dell’evento bellico, perché nel corporativismo si esprimeva una cultura filosofica molto più antica dello stesso fascismo. Una cultura che ha attraversato tutta la modernità in opposizione all’individualismo ed al contrattualismo che della modernità sono l’essenza. Si tratta dell’“organicismo” ovvero di una tradizione di pensiero le cui origini ci riportano all’antichità. L’idea che la comunità politica sia un “corpus” – tanto nella sua articolazione ontologica tripartita verticale quanto in quella cetuale-professionale orizzontale – la ritroviamo in Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino ed in tutte le culture tradizionali ad ogni latitudine ed in ogni epoca. Nell’immagine del “Macro-Antropos” tale cultura tradizionale trovò la sua rappresentazione simbolica che nella Cristianità diventò, molto concretamente, il “Corpo Mistico di Cristo”. D’altro canto questo simbolismo antropico lo ritroviamo anche nel Leviatano di Hobbes ma in un contesto contrattualista e meccanicista che stravolge, allontanandosene, l’originario fondamento sacrale per ridurlo ad una auto-costruzione umana e sostanzialmente ateistica. L’organicismo, che a prima vista sembra una concezione legata al premoderno, ha assunto nella modernità forme inedite, variamente definite “rivoluzionario-conservatrici”, che ne hanno adattato i principi trans-storici, cui esso si richiama, ai contesti politici, sociali, economici e tecnologici della modernità stessa. Nel 1791, durante la Rivoluzione Francese, con la legge Le Chapelier, venivano aboliti i corpi intermedi che nella visione contrattualista della società, propria della dottrina liberale individualista e di quella giacobina della democrazia diretta, erano ritenuti un residuo “feudale” inammissibile nello Stato moderno. In tal modo, la complessità sociale veniva astrattamente ridotta al mero rapporto, senza intermediazioni, Stato-Individuo. Lo scontro fondamentale interno alla modernità si palesava dunque come quello “organicismo contro individualismo”. Tuttavia, quasi a risposta verso l’astrattezza liberale e giacobina, la dinamica stessa dell’industrializzazione andava imponendo un inedito ritorno del pluralismo sociale, in forme evidentemente aggiornate. Il nuovo pluralismo sociale, con la comparsa dei sindacati, quali nuovi corpi intermedi, in luogo delle più antiche ed ormai superate gilde e corporazioni di arti e mestieri, fu la risposta, storica e filosofica, al liberalismo ed al giacobinismo ovvero al contrattualismo individualistico della modernità. Questo nuovo pluralismo si presentò anche come un elemento anarchico che in qualche modo andava ricondotto ad unitarietà. Nasceva in tal modo il problema, che ha travagliato il primo sviluppo moderno, del rapporto tra Unità Politica e Pluralismo Sociale, tra Autorità Politica, in Alto, e Partecipazione Democratica, dal basso.

Organicismo, Istituzionalismo e Socialismo

Tra i filosofi del diritto che maggiormente hanno affrontato questo problema un nome su tutti va ricordato, quello di Santi Romano. Capofila italiano della scuola istituzionalista, egli compendiò la nuova comprensione gius-filosofica del pluralismo sociale nel motto “Ubi societas ibi ius, ubi ius ibi societas”. L’Istituzionalismo è stata una corrente filosofico-giuridica il cui maggior rappresentante fu il francese Maurice Hauriou. Una corrente attigua al positivismo sociale di un altro francese, Léon Duguit.  In polemica con la teoria contrattualista dello Stato quale unica fonte del diritto, l’istituzionalismo esaltava il pluralismo sociale come pluralismo delle fonti giuridiche. Lo Stato è soltanto uno degli ordinamenti giuridici al cui fianco ce ne sono molti altri, sindacali, locali, comunali, associativi. Da qui, poi, il problema della coordinazione ad unità del pluralismo senza tuttavia negarlo o risolverlo in un monismo. L’Istituzionalismo è chiaramente una rielaborazione moderna dell’antica filosofia organicista, scevra però, almeno in parte, dai fondamenti sacrali propri di quest’ultima.

L’organicismo nella sua versione moderna ha profondamente influenzato il socialismo elaborandone una versione cosiddetta “giuridica” o “organica”. Un socialismo organicista, e quindi non marxista, che – nella scia del pensiero di Comte, Saint-Simon, Proudhon, Lassalle, Mazzini, Ferrari, Fichte, Sombart, ed altri ancora – riproponeva il tema antico del corporativismo quale modalità di organizzazione della società. Il corporativismo, opportunamente aggiornato, apparve come la migliore soluzione dei conflitti sociali in un quadro di integrazione organica e, sotto tale profilo con più incisività e forza di quello antico, in uno scenario di redistribuzione delle ricchezze.

Questo recupero socialista della filosofia organicista è stato il risultato di un articolato percorso di pensiero che, lungo l’ottocento, prese le mosse, tra l’altro, dal sindacalismo rivoluzionario per giungere all’esperimento di “terza via” del fascismo. Non a caso, i migliori esponenti del socialismo italiano, si pensi al riformista Bruno Buozzi ma anche al sindacalista cigiellino Giuseppe di Vittorio, che in gioventù era stato sindacalista rivoluzionario nonché collaboratore del “Il Popolo d’Italia” di Mussolini, dopo la caduta del regime, auspicarono non l’abolizione ma la democratizzazione delle strutture sindacali corporative create dal fascismo. Questa democratizzazione delle strutture statuali corporativiste del regime, del resto, era stato anche l’auspicio della cosiddetta “sinistra fascista”, che rappresentava le radici più autentiche del fascismo il quale, prima di scivolare verso destra, come è noto, ebbe origini di sinistra.

Il pensiero organicista post-rivoluzionario, ben prima del suo sviluppo socialista, mostra un’origine teologica e filosofica nel tradizionalismo cattolico-legittimista (Joseph De Maistre, Louis de Bonald, Donoso Cortés) e nel Cattolicesimo intransigente ottocentesco dal quale è nato, a seguito della crisi modernista del primo novecento, il cattolicesimo sociale, sia quello più conservatore dell’Opera dei Congressi , ancora in parte legato al problema sorto con la “questione romana” ed alle tradizionali forme caritative, sia quello già più modernamente sociale dell’Unione di Studi Sociali di Giuseppe Toniolo, sia quello apertamente democratico e modernista di Romolo Murri.

Questa varietà di scuole che si richiamavano all’organicismo spiega il motivo per il quale le interpretazioni del corporativismo furono molteplici, conservatrici, confessionali, socialiste. Ce ne furono, come sviluppo del sansimonismo, anche alcune “tecnocratiche”. Ma un dato ha accomunato tutte le rielaborazioni moderne dell’organicismo – un dato imposto dalla stessa modernità – ossia la presa d’atto della nuova realtà dei sindacati nati con l’industrializzazione. In tutte le sue formulazioni, in età moderna, il corporativismo perse gradualmente ogni riferimento nostalgico ed inattuale alle Arti ed alle Gilde premoderne per assumere, invece, a pieno titolo il sindacalismo moderno come ambiente sociale nel quale ricostruire l’organicismo comunitario. Anche in ambito cattolico si ebbe questa presa di coscienza con il riconoscimento da parte di Leone XIII, nella “Rerum Novarum”, del sindacalismo “anche di soli operai” in luogo delle antiche corporazioni miste padroni-operai. Alla luce di queste trasformazioni sono del tutto comprensibili, ad esempio, i rapporti personali e le concordanze che intercorsero tra un socialista come Ferdinand Lassalle ed il vescovo di Magonza Guglielmo Emanuele von Ketteler che fu uno dei padri del moderno cattolicesimo sociale.

Alfredo Rocco. La statualità restaurata

L’affermarsi, conseguente all’industrializzazione, del nuovo pluralismo sindacale, e quindi la possibilità di una inedita forma di organicismo sociale, innescò il processo di trasformazione del tradizionalismo romantico del primo ottocento nel nazionalismo integrale di fine secolo con la sua forte carica plebiscitaria e populista. Questa trasformazione si manifestò, ad esempio, in Francia con l’Action Française di Charles Maurras e, soprattutto, con uno tra i primi movimenti nazional-populisti di massa ossia il “boulangismo” del generale Georges Boulanger. In Italia il nazionalismo si organizzò nell’Associazione Nazionalista Italiana all’interno della quale sussistevano correnti più conservatrici come quella di Alfredo Rocco (comunque di giovanile provenienza radical-socialista) e più sindacaliste come quella di Enrico Corradini e Filippo Carli (padre del più noto, nel dopoguerra, Guido Carli). Le propensioni del nazionalismo italiano verso il sindacalismo organico e il socialismo nazionale si manifestarono nelle intese tra Enrico Corradini e il principale esponente del sindacalismo rivoluzionario ossia Filippo Corridoni. Rocco, invece, del nazionalismo rappresentò l’elemento “autoritario” e “statualista”. Pur non negando la nuova realtà della dinamica sindacale, comportata dalla modernizzazione, egli la concepiva come strumentale alla restaurazione della Autorità dello Stato e quindi concepiva i sindacati quali organi strumentali dello Stato per dirigere e controllare le forze economiche nonché subordinarle ad una politica di potenza nazionale.

Il corporativismo fascista. Idealità e realtà

L’esito autoritario del corporativismo nella legislazione di Rocco marcò un divario profondo tra la concezione democratica e socialista – ovvero l’spirazione ad una forma di “democrazia sociale organica”, nutrita dal mondo cattolico e dalla sinistra fascista – e la sua realizzazione storica, quale fu conseguita in Italia come anche, nella prima metà del XX secolo, in altri Paesi europei ed extra-europei. Tentativi di far partecipare le rappresentanze dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria erano già stati sperimentati, in Paesi industrialmente avanzati, prima del primo conflitto mondiale. La guerra avrebbe accentuato questa tendenza per via delle esigenze di coordinamento produttivo imposte dal conflitto medesimo. Nell’esperimento italiano del primo dopoguerra prevalse, come detto, una interpretazione di destra del corporativismo, quella appunto di Alfredo Rocco, contro quella di sinistra, rappresentata tra gli altri da Giuseppe Bottai, repubblicano mazziniano e di formazione sindacalista. La Carta del Lavoro del 1927 fu elaborata da Rocco dopo che Bottai, al quale inizialmente Mussolini aveva affidato il compito, non riuscì a mettere in piedi un unico testo condiviso congiuntamente da industriali e sindacati. Rocco formulò un testo certamente più attento alle esigenze degli industriali ma, comunque, aperto anche alle innovazioni sociali. Su questa apertura fece leva, durante il regime, il sindacalismo fascista per spingere l’organizzazione corporativista verso soluzioni più sociali e democratiche, che certamente si sarebbero conseguite se non fosse intervenuta la guerra. Vero è che, come ha osservato Renzo De Felice, la Carta del Lavoro non conteneva declamazioni non rintracciabili, all’epoca, nella politica di tutti gli Stati industrialmente avanzati, anche di quelli a base demoliberale, ma ciò non vale a sminuirne del tutto la portata in quanto, in Italia, quegli orientamenti andavano affermandosi attraverso la cultura e le realizzazioni pratiche che presiedevano all’esperimento, rimasto incompiuto, della terza via fascista, e non mediante altri percorsi. Sicché bisogna riconoscerne l’importanza nella storia nazionale.

Il disegno autoritario di Rocco, tuttavia, svuotò gli organi sindacali e corporativi, proprio mentre essi stavano nascendo, di una genuina rappresentatività dal basso. I sindacati, unici per ciascuna categoria, diventarono, nel regime, enti pubblici inseriti nelle corporazioni, a loro volta organi dello Stato corrispondenti ai settori dell’economia nazionale. Le nomine dall’alto, governative, furono preferite alle elezioni dal basso, con la conseguenza che, molto spesso, chi era nominato non aveva alcun titolo o competenza per rappresentare la categoria sociale di riferimento. Di questo esito si lamentò, per tutto il ventennio, la sinistra fascista (Bottai, Cianetti, Rossoni) che mai abbandonò l’idea di una democrazia sociale del lavoro come era alle origini del fascismo stesso, quello diciannovista.

La Carta del Lavoro e il cesarismo

Se prevalse la linea di Alfredo Rocco, le cui “leggi fascistissime” erano in realtà soltanto nazional-conservatrici, fu anche perché lo stesso Mussolini, mentre il consenso popolare cresceva – esso ebbe il suo apogeo nel 1936, a seguito della conquista dell’Etiopia, per poi iniziare molto gradualmente a declinare –, finì per legarsi ad un progetto “cesaristico” inteso alla realizzazione di uno Stato autoritario (non totalitario) ma – attenzione! – di massa, fondato sul coinvolgimento e la mobilitazione delle masse. Un regime, dunque, molto differente da quelli ottocenteschi di polizia che, invece, tendevano alla esclusione delle masse dalla politica. A questo progetto Mussolini sacrificò le istanze democratiche e di riformismo sociale che pure erano state le sue agli inizi del fascismo tra il 1914-1919. La prima fase della politica economica del regime, mossa dall’obiettivo del raggiungimento del cambio forte, a quota 90, tra lira e sterlina, seguì linee deflattive e di austerità. A fronte dell’alta inflazione conseguente al primo conflitto mondiale, negli anni venti si trattava di risanare il bilancio favorendo l’industria nella sua riconversione postbellica. Questa strategia economica permise all’Italia di trovarsi in condizioni finanziarie migliori quando sopraggiunse la crisi mondiale del 1929 – una crisi da contrazione della domanda alla quale proprio la politica deflattiva praticata in tutto il mondo industrializzato nel primo dopoguerra, portata all’eccesso, aveva profondamente contribuito – rendendo possibile al regime a partire dagli anni ’30, come risposta alla crisi mondiale, di inaugurare una ben diversa politica economica di segno dirigista, con la creazione, o lo sviluppo, dell’IRI, dell’Agip, degli enti di previdenza ed assistenza, che sarebbero non solo ad esso sopravvissuti ma avrebbero trovato continuazione ed estensione nel dopoguerra. Si pensi, ad esempio, al caso di Enrico Mattei e dell’ENI sviluppato a partire della fascista Agip.

Dal sindacalismo rivoluzionario al sindacalismo nazionale

Il fascismo, prima del suo scivolamento verso la destra nazionalista, nacque come una costola “eretica” del socialismo. Una sorta di eresia nazionalista del socialismo nella quale confluì la cosiddetta “sinistra nazionale” di origine mazziniano-risorgimentale e quella sindacalista-rivoluzionaria. Mazziniani, socialisti tricolori e risorgimentali, sindacalisti rivoluzionari, soreliani, dannunziani e fiumani, demo-laburisti e radicali erano le componenti di questa sinistra eretica che stava percorrendo un itinerario di superamento dei dogmi marxisti ma in una direzione diversa da quella della socialdemocrazia riformista. La sinistra nazionale mirava, infatti, ad una democrazia sociale dal carattere fortemente “giacobino” e “baubefiano”, anche con punte anarchiche e bakuniane. L’auspicata democrazia sociale avrebbe dovuto essere, insieme, anche una democrazia nazionale. Anti-statalista, in quanto anti-autoritaria, la “Nuova Italia” demosociale avrebbe dovuto fondarsi su un sindacalismo nazionale inteso in senso democratico e non verticistico.

Uno dei principali esponenti di tale sinistra nazionale fu Sergio Panunzio, sindacalista rivoluzionario di Molfetta ed amico personale di Mussolini. Egli è stato il principale teorico giuridico del sindacalismo teorizzando un sistema di equilibrio tra Autorità Statale e Pluralismo Sindacale che può considerarsi il massimo punto di maturazione dottrinale del sindacalismo rivoluzionario nel suo passaggio verso il sindacalismo nazionale. A differenza di Rocco, ed anche di Giovanni Gentile, Panunzio non intendeva il corporativismo come assorbimento o controllo dei sindacati da parte dello Stato ma come “Stato dei sindacati” nel quale questi ultimi, unici per ciascuna categoria, avrebbero dovuto funzionare, all’interno dello spazio politico dello Stato, come veicoli di trasmissione delle istanze sociali dal basso.

La scuola cattolico-sociale

Nell’ambito della soluzione della Questione Romana e della Conciliazione Stato-Chiesa, l’esperimento corporativo, in atto in Italia negli anni del regime fascista, non lasciò indifferente la scuola cattolico-sociale, che abbiamo visto essere una delle componenti fondamentali del pensiero organicista. Noti cattolici come Amintore Fanfani, Alcide De Gasperi, Aldo Moro furono critici estimatori della politica corporativa del fascismo. Lo stesso Pio XI nella “Quadragesimo Anno” del 1931 formulò un apprezzamento del corporativismo del regime unito, però, ad una severa critica che, in sostanza, riprendeva i temi, formulati dalla scuola cattolico-sociale neotomista nel codice di Malines (1927), della libertà associativa e del pluralismo sociale pur nell’ambito della unitarietà della corporazione (“libero sindacato nella professione corporativisticamente organizzata”). Altri cattolici di spicco che si avvicinarono, in una prospettiva personalista, al corporativismo italiano furono Jacques Maritain e Georges Bernanos, che provenivano entrambi dall’Action Française, ed Emanuel Mounier il quale partecipò nel 1935 ad uno dei grandi convegni sul corporativismo organizzati da Giuseppe Bottai in qualità di ministro delle corporazioni. Fu tramite l’apporto personalista di questi francesi che Amintore Fanfani riformulò, nel dopoguerra, in chiave di corporativismo democratico la propria teorizzazione prebellica del corporativismo. Sulla stessa scia si mosse il giovane Aldo Moro, professore provetto dell’università fascista e vincitore dei “Littoriali delle Cultura”, il cui padre era stato amico e collaboratore, al ministero dell’educazione nazionale, di Giuseppe Bottai. Una linea di sviluppo democratica del corporativismo, questa, che sarebbe stata intrapresa dallo stesso Bottai, convertitosi alla fede cattolica, dopo la fine del fascismo.

Socialismo, Produttivismo e Corporativismo

Mussolini nel 1912 scriveva editoriali sull’“Avanti!” ferocemente antinazionalisti e convintamente internazionalisti. L’evento di Sarajevo fece naufragare la sua utopia – per dirla con terminologia attuale – globalista. Nel 1914 Mussolini scopre la nazione come unica via per una realistica realizzazione del socialismo. Comprese che il socialismo o sarebbe stato “socialismo nazionale” o non sarebbe stato affatto. Il primo conflitto mondiale, infatti, provocò il fallimento della Seconda Internazionale. I partiti socialisti, tranne quello italiano, appoggiarono tutti le rispettive nazioni in guerra. Mussolini non seguì immediatamente gli altri suoi compagni socialisti, come Cesare Battisti, Sergio Panunzio, Filippo Corridoni, che ruppero con la posizione ufficiale del PSI contrario alla guerra. Egli tuttavia, di fronte alla capacità di mobilitazione sociale che il fattore nazionale andava dimostrando nello svolgersi dei tragici eventi in atto, iniziò, tra il luglio e l’ottobre 1914 quando pubblicò sull’“Aventi!” l’articolo, molto favorevolmente apprezzato da Antonio Gramsci, “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante” – che gli costò l’espulsione dal Psi – un sofferto e sincero percorso di revisione politica. Alla fine del quale si convinse che il socialismo non poteva astrarsi dalla questione nazionale per dissolversi in un vacuo internazionalismo umanitario. Fu una revisione effettuata con coscienza e senza spinte di ambizione personale o di arricchimento. Già padre di Edda, nata dal matrimonio con Rachele Guidi, tutto gli suggeriva di rimanere ligio alla linea ufficiale del partito socialista e di conservare il posto, lautamente stipendiato, di direttore dell’“Avanti!”, che ricopriva quale esponente della corrente massimalista dal 1912. Egli, da quella posizione, aveva il Psi in mano. Le circostanze strettamente personali dunque lo spingevano a conservare la posizione conquistata. Ma Mussolini – politicamente cinico e machiavellico, stratega e ambizioso, quanto si vuole – era anche un uomo che non amava barare con la propria coscienza. Ed in quel momento la sua coscienza gli diceva che l’internazionalismo era una chimera e che la guerra nazionale era l’unica possibile strada per la rivoluzione sociale. Per questo pubblicò il famoso editoriale nel quale ripudiava la neutralità assoluta del Psi in favore di una neutralità attiva, quale preludio alla nazionalizzazione del socialismo, che gli costò, insieme all’espulsione dal Psi, la perdita del posto di lavoro come direttore dell’“Avanti!”. Non è affatto vero che egli cedette alle lusinghe degli industriali. I finanziamenti, dopo la rottura con il Psi, per aprire “Il Popolo d’Italia”, quotidiano socialista nel 1914 che diventò quotidiano dei produttori nel 1918, gli vennero, per la maggior parte, dai socialisti francesi interessati a spostare il socialismo italiano su posizioni interventiste a fianco della Francia.

Mussolini era stato molto vicino alla piattaforma produttivista della Cgt, la maggiore centrale sindacale francese, e del partito socialista d’oltralpe. Il produttivismo perorava una alleanza tra tutti i “produttori” contro i parassiti della rendita. In sostanza nel produttivismo tornava un motivo radicato nel socialismo non marxista, ma che lo stesso Marx aveva sposato all’epoca de “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, che consisteva in una piattaforma sociale intesa ad auspicare l’alleanza, finalizzata alla redistribuzione degli utili della produzione, tra borghesia produttrice (quella costituita da imprenditori che dirigono direttamente l’impresa, assimilati pertanto a lavoratori con funzioni direzionali) e lavoratori contro il capitalismo finanziario ed anonimo. Questo tema – oggi molto attuale (economia reale contro economia finanziaria speculativa) –, all’epoca vero e proprio cavallo di battaglia della sinistra eterodossa (ma anche dell’“anticapitalismo di destra” studiato da Giorgio Galli e Luca Gallesi), lo ritroviamo ampiamente nel Mussolini del 1914-1920. Ad esempio nel suo discorso, del 20 marzo 1919, agli operai della fabbrica di Dalmine, nel bergamasco, che avevano indetto uno sciopero autogestito, per non fermare la produzione, issando il tricolore. L’ala sinistra del fascismo nascente era fortemente permeata dal milieu produttivista di tradizione socialista. Il produttivismo sarebbe, poi, riapparso nella codificazione dei 18 punti di Verona ovvero nella carta programmatica della socializzazione, tardivamente, attuata durante la RSI.

La sinistra interventista e la “Nazione Sociale”

Lungo i sentieri del produttivismo, Mussolini sarebbe arrivato alla convinzione che era necessario armonizzare la classe sociale con la nazione, con l’identità nazionale e popolare, per la realizzazione di quella “nazione sociale” già intravista da Mazzini e dal socialismo risorgimentale (Pisacane, Ferrari) e non ancora nata a causa del compromesso liberal-sabaudo con il quale l’unità nazionale era stata conseguita. Questo Mussolini, del 1914-1919, era un Mussolini repubblicano che nella guerra contro le “Autocrazie” mitteleuropee ingaggiata dalle democrazie occidentali, la Francia in particolare, vedeva il compimento delle promesse rivoluzionarie tradite nel secolo precedente. La nazione cui egli guardava non era quella “tradizionalista” e neanche quella dei nazionalisti, che, come nel caso di Charles Maurras, mistificavano nazionalisticamente ed ateisticamente la Tradizione, ma quella democratica e popolare della sinistra nazionale. «La distinzione [del] … fascismo … dal nazionalismo, propriamente detto – scrive Augusto Del Noce –, può essere stabilita facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un’eredità, quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò si può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta idea della tradizione). Il fascismo concepisce invece la nazione non più come un’eredità di valori, ma come un divenire di potenza. A diversità dal nazionalismo, la storia non è concepita come una ‘fedeltà’, ma come una ‘creazione continua’ che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre» (2). Quello dei Fasci di Combattimento del 1919 – scritto da Alceste De Ambris, sindacalista mazziniano e rivoluzionario, co-autore con D’Annunzio della “Carta del Carnaro”, un documento che prefigurava per Fiume uno Stato repubblicano a democrazia sociale  e sindacale fortemente avanzata (non senza immaginifici richiamai ad una sorta di gildismo neo-medioevale) – era un programma ascrivibile all’area del radicalismo di sinistra di tipo riformista che, mentre invocava la tutela dell’industria nazionale, poneva le linee di sviluppo verso avanzate riforme sociali fino a contemplare la partecipazione del lavoro al funzionamento dell’impresa e la ripartizione della ricchezza prodotta tra tutti i componenti dell’impresa in una sorta di prefigurazione del superamento della retribuzione esclusivamente salariale. Temi ripresi, poi, nel 1943 dal già citato Manifesto di Verona, del fascismo repubblicano, sulla socializzazione.

La base sociale di questa sinistra nazionale e, quindi, del fascismo era il ceto medio ovvero la piccola borghesia composta da professionisti, funzionari, tecnici, piccoli imprenditori ed artigiani, piccoli proprietari. Si trattava di una fascia sociale più vicina al proletariato, benché da esso tendesse a distinguersi per egemonizzarne le lotte, che al capitalismo delle élite finanziarie. Mussolini, per primo, nel suo noto fondo su Il Popolo d’Italia, intitolato “Trincerocrazia”, del 15 dicembre 1917, comprese che l’esperienza della guerra stava dando coscienza di sé a questo ceto medio, nel quale egli vedeva la classe del futuro. Invece il PSI non comprese le istanze rivoluzionarie del ceto medio emergente (e non decadente, secondo l’errata interpretazione della storiografia marxista). Nel piccolo borghese in divisa, l’ufficiale di ritorno dalla guerra, i socialisti neutralisti vedevano stupidamente la “reazione” e – incapaci di capire il disagio di chi, appartenente alla fascia superiore ed istruita dei ceti popolari, per quattro anni aveva comandato uomini, condividendone nelle trincee le fatiche, e che ora non accettava di tornare all’anonimato della vita borghese perché, cosciente del suo valore, aspirava al suo spazio politico – rigettarono ogni alleanza politica e sociale con il ceto medio “militarizzato”, spingendolo verso la destra nazionalista. Il PSI non comprese che la piccola borghesia poteva essere l’avanguardia di una rivoluzione sociale e nazionale. Durante il fallimentare biennio rosso (1919-1920) – un moto sociale, provocato dalla crisi economica postbellica, senza alcun possibile sbocco politico ma soltanto anarcoide e caratterizzato da violenze, stupri, assassini, soprattutto contro militari, preti, suore, educande – il PSI, chiuso nella retorica parolaia del mito bolscevico e leninista nonché in un operaismo incapace di comprendere la complessità e l’articolazione sociale composita di una moderna società industriale, e quindi l’impossibilità di una rivoluzione nell’Italia dell’epoca, cavalcò retoricamente la protesta provocando avversione in vasti strati sociali, non solo tra gli industriali e gli agrari, e di conseguenza forti simpatie verso lo squadrismo fascista che, unico, si opponeva, benché da iniziali posizioni di sinistra nazionale, alla violenza socialista ed anarchica. Il carattere anticlassista ed interclassista della piccola borghesia fascista fu invece compreso, in contemporanea agli eventi, dallo storico liberal-socialista Luigi Salvatorelli nel saggio “Nazionalfascismo” apparso nel 1923 a Torino. Dal canto suo, più di recente, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ha dimostrato il rapporto da fratelli siamesi sussistente tra il fascismo di sinistra e l’azionismo liberal-socialista anche evidenziando, oltre le comuni connessioni filosofiche immanentiste, che la base sociale piccolo borghese era la stessa per entrambi i movimenti (3).

La Destra Sociale

Se, dunque, il fascismo mosse verso il corporativismo e l’organicismo comunitario da sinistra, un analogo movimento, come si è già osservato, era in atto, negli stessi anni, da destra, dal versante nazionalista (il 3 dicembre 1910 era stata fondata l’Associazione Nazionalista Italiana), i cui maggiori esponenti, Alfredo Rocco, Enrico Corradini, Filippo Carli, erano ormai in aperta rottura con il liberalismo politico ed il liberismo economico, quello ad esempio di Maffeo Pantaleoni, in favore del protezionismo e del dirigismo autoritario che, inevitabilmente, doveva prendere in considerazione il fenomeno sindacalista per organizzarlo nell’ambito della nazione. Filippo Carli perorava la partecipazione operaia alla gestione delle imprese ed agli utili, per l’alleanza tra capitale e lavoro, ed alle proposte di Carli si era ispirato Tommaso Filippo Marinetti nella sua “Democrazia futurista”. Carli aveva trovato appoggio dalla rivista “Le industrie italiane illustrate” da Alessandro Rossi di Schio, un grande industriale, esponente della corrente protezionista della Confindustria, affascinato dall’idea partecipativa. In qualche modo alla Sinistra Nazionale rispondeva quella che potremmo chiamare una Destra Sociale.

Il sindacato nel regime corporativo

Il risultato di questo incontro politico fu l’architettura corporativa del regime fascista, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni rispetto alle iniziali aspettative, in particolare a quelle della sinistra fascista. Tuttavia, nonostante l’inquadramento corporativo secondo l’impostazione autoritaria di Rocco, che aveva sbarrato la strada a quella demosociale auspicata dalla sinistra fascista, il sindacalismo fascista dimostrò una impensabile vitalità, riuscì ad imporre diverse riforme e ad ottenere per i lavoratori importanti conquiste sociali. Ad iniziare dalla riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 40 ore con la conseguente riassunzione di 220.000 lavoratori licenziati a causa della crisi del 1929. Seguirono gli assegni familiari per compensare le riduzioni salariali sempre provocate dalla crisi, la gestione sindacale del collocamento obbligatorio, l’indennità di disoccupazione e la previdenza sociale, le ferie pagate, la diffusione di casse mutue aziendali, la conservazione del posto di lavoro in caso di malattia, l’avvio della costruzione di uno Stato sociale.

Si iniziò, negli anni ’30, anche a parlare apertamente, nonostante i mugugni della Confindustria, di “salario corporativo” ossia di partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa ed anche alla gestione della stessa. Se non ci fosse stata la guerra il regime si sarebbe incamminato su questa strada partecipativa, che nel dopoguerra trovò diverse realizzazioni ad iniziare dalla “codeterminazione” tedesca. Nel 1943, con il Manifesto di Verona del fascismo repubblicano, la cogestione fu codificata nella carta fondamentale della Repubblica Sociale. Essa sarebbe poi trasmigrata nell’articolo 46 della vigente Costituzione repubblicana. Un articolo irresponsabilmente, per colpa della Confindustria e della Cgil, rimasto inattuato mentre piattaforme partecipative hanno, ma solo di recente, trovato spazio soltanto nella contrattazione collettiva senza, tuttavia, alcun sostegno ed intervento legislativo tale da renderle solide e non precarie.

Il fascismo, nonostante i suoi compromessi con i fiancheggiatori di destra, non fu un tentativo reazionario per fermare l’avanzata delle classi lavoratrici quanto piuttosto un modo di incanalarla sulla via della nazione che sarà apprezzato tanto da Nicolino Bombacci, co-fondatore del Pcd’I, e tragicamente fucilato a Dongo insieme agli altri fascisti repubblicani avendo aderito, in nome della realizzazione del socialismo, a Salò, quanto nel dopoguerra da Togliatti dopo che già nel 1936, sulla rivista parigina “Lo Stato Operaio”, egli aveva fatto appello “ai fratelli in camicia nera” per una intesa tra comunisti e sinistra fascista sulla base del programma sansepolcrista del 1919.

L’efficacia erga omnes

La maggiore conquista normativa del sindacalismo fascista fu l’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva nei rapporti di lavoro. Secondo la teoria classica il contratto ha soltanto una base individualista sicché i contratti collettivi non potrebbero impegnare se non le sole associazioni stipulanti e gli iscritti alle stesse. Quindi non tutti i datori di lavoro ed i lavoratori del ramo cui si riferisce il contratto collettivo. Per la teoria classica, infatti, solo la legge ed il regolamento hanno efficacia generale e il contratto non è legge se non tra le singole parti stipulanti. Questo tipo di esegesi giuridica, cui si uniformava pedissequamente la giurisprudenza, creava non poche difficoltà alla regolazione collettiva dei rapporti di lavoro, fenomeno inevitabile e assolutamente ineludibile con l’industrializzazione. L’unicità del sindacato di Stato, riconosciuto nel sistema corporativo fascista, risolse il problema assimilando, tra le fonti dell’ordinamento giuridico, il contratto collettivo alla legge ed al regolamento. Fu così introdotta la cosiddetta “efficacia erga omnes” dei contratti collettivi, che ritroveremo nell’articolo 39 della carta Costituzionale del 1948.

Il Corporativismo nella Costituzione del 1948 – Amintore Fanfani e Giuseppe Di Vittorio

Amintore Fanfani, docente di storia dell’economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, erede dell’antica tradizione corporativista del cattolicesimo, risalente a Giuseppe Toniolo, ebbe un ruolo fondamentale nella trasmigrazione dei principi del corporativismo nella vigente Costituzione post-fascista. Fanfani – che benché non dossettiano nel dopoguerra fece parte della sinistra democristiana – negli anni ’30 fu autore di importanti saggi sul corporativismo fascista (“Declino del capitalismo e significato del corporativismo” 1934) dal quale non si mostrò lontano nonostante i distinguo in linea con la rivendicazione della libertà associativa dei sindacati propugnata dalla Chiesa. Tuttavia in argomento Fanfani era piuttosto incline a ritenere non del tutto inaccettabile la tesi fascista sull’unicità del sindacato benché fosse garantita ad esso una maggiore autonomia. Una critica non lontana da quella fascista di un Giuseppe Bottai o di un Tullio Cianetti.

In sede di Costituente Fanfani fu tra quelli che maggiormente si sforzò per dare una veste costituzionale e democratica al corporativismo ed alle strutture corporative ereditate dal fascismo. Per Fanfani il corporativismo apparteneva al novero delle teorie sociali “istituzionaliste”, tra le quali egli ricomprendeva tanto quelle antiche aristotelico-tomiste quanto quelle moderne come il neo-volontarismo statunitense (Veblen, Clark, Mc Dougall) a carattere piuttosto tecnocratico. Distinguendole da quelle “naturaliste”, che si riassumono nell’individualismo e nella presunta spontaneità del mercato, Fanfani sottolineava nelle teorie istituzionaliste la consapevolezza della necessità di una direzione e di un controllo sociale dell’economia capitalista affinché essa non degeneri in economia anti-sociale. Tuttavia Fanfani, da cattolico, non eludeva il problema del rischio tecnocratico insito nelle teorie istituzionaliste e quindi anche nel corporativismo moderno. Un rischio che va di pari passo con la mancanza o il rigetto, in certe formulazioni istituzionaliste, della radice etico-religiosa dell’umana convivenza, fondata sul “bene comune” come inteso dal migliore medioevo comunitario, che egli, invece, rivendicava quale essenziale per qualsiasi esperienza organicista la quale non voglia ridursi a mera tecnica di programmazione economica. Per questo sulla scia del personalismo di Maritain e di Mounier egli riformulò il suo originario pensiero corporativista nel senso di un organicismo sociale a base personalista, onde individuare un punto di equilibrio tra la libertà della persona e la sua necessaria relazionalità sociale, comunitaria, in un’ottica etico-politica.

A Fanfani deve essere ascritta l’attuale formulazione dell’articolo 1 della Costituzione. In sede di Costituente egli affrontò un serrato dibattito con Giuseppe Di Vittorio proprio sul riconoscimento giuridico dei sindacati e l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi. Di Vittorio perorava un netto e chiaro accreditamento costituzionale del riconoscimento giuridico del sindacato e dell’efficacia erga omnes mentre Fanfani, consapevole dei problemi dell’esperimento fascista, invitava l’assemblea a riflettere sul fatto che il riconoscimento giuridico del sindacato e l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi presupponevano l’unicità del sindacato medesimo. il quale in un clima democratico entrava in collisione con la libertà associativa ed il pluralismo sindacale.

Articolo 39

La soluzione, caldeggiata da Fanfani, per una mediazione tra riconoscimento giuridico dei sindacati, con conseguente efficacia erga omnes dei contratti collettivi, e pluralismo associativo, trovò formulazione nell’articolo 39 della Costituzione che mentre sancisce la libertà ed il pluralismo sindacale prevede la rappresentanza unitaria in sede contrattuale delle parti stipulanti e, quindi, dei sindacati dei lavoratori e di quelli dei datori di lavoro.

L’articolo 39, in buona sostanza, non ha fatto altro che democratizzare l’architettura istituzionale corporativa del fascismo, attraverso il riconoscimento giuridico dei sindacati quali persone giuridiche di diritto privato, senza controlli statali salvo la democraticità dei rispettivi statuti, e al tempo stesso con l’enunciazione della libertà di associazione sindacale e, quindi, del pluralismo in luogo dell’unicità sindacale. Per rendere efficaci erga omnes i contratti collettivi l’articolo 39 prevede una “rappresentanza unitaria” dei sindacati, su base proporzionale agli iscritti, quale organo deputato a sottoscrivere, con la “rappresentanza unitaria” della controparte, contratti a valenza generale per tutti gli appartenenti alla categoria, iscritti o meno ai sindacati uniti nella rappresentanza unitaria e stipulanti.

L’articolo 39 della Costituzione rinvia ad una legge di attuazione mai sopraggiunta per il timore da parte dei sindacati dei controlli statuali e per il timore, nell’immediato secondo dopoguerra, dei sindacati non comunisti di essere schiacciati, in termini di rappresentatività, da quello comunista. I contratti collettivi attuali sono pertanto di diritto comune, dunque formalmente non vincolanti se non gli stipulanti. Per questo motivo la giurisprudenza è stata costretta a porre rimedio alla mancanza di una legge di attuazione dell’articolo 39 elaborando il criterio giurisprudenziale della “maggior rappresentatività” in base al quale, attualmente, hanno valenza generale i contratti collettivi stipulati dai sindacati presuntivamente di maggiore rappresentatività, in sostanza la triplice Cgil, Cisl, Uil.

La non attuazione dell’articolo 39 si è però rivelata, alla lunga, un danno per i lavoratori, giacché, oggi – nel clima di reazione capitalista ingenerato dalla globalizzazione finanziaria che ha reso volatili i capitali ossia temporanei gli investimenti sul territorio e precari i posti di lavoro ed i diritti dei prestatori d’opera sempre minacciati dal rischio delle delocalizzazioni industriali –, la parte capitalista, oltretutto molto più allettata dai facili ed improduttivi guadagni speculativi in borsa che interessata all’economia reale e produttiva, tende a rifiutare di sedersi al tavolo delle trattative ossia, in altri termini, a riconoscere il carattere collettivo generale dei contratti di lavoro nazionali per sostituirli con contratti individuali o tutt’al più di solo livello aziendale. La mancanza di una legge di attuazione dell’articolo 39 rende possibile al capitale di sentirsi libero da qualsiasi vincolo di solidarietà nazionale e sociale così faticosamente cercato e ad esso imposto lungo il XX secolo, anche grazie all’esperienza corporativo-sindacale del fascismo con le sue ascendenze ideali tanto socialiste organiciste quanto cattolico-sociali.

La “partecipazione”. Una eredità fascista nella Costituzione

Mentre affrontava in Costituente i problemi del rapporto Stato-Sindacati, contemporaneamente Fanfani operò per recuperare in Costituzione il principio partecipativo che era stato un pilastro portante del pensiero organicista sin dai suoi albori, richiamato anche da Pio XI nella “Quadragesimo Anno” del 1931 documento del Magistero del quale il professore aretino si dichiarò sempre debitore. In tal senso, pur senza palesarlo esplicitamente, nell’articolo 46 della Costituzione i padri costituenti trasposero, benché in una formulazione meno radicale, il portato dell’articolo 12 del Manifesto di Verona della RSI sulla partecipazione dei lavoratori agli utili ed alla gestione delle imprese. Anche la previsione all’articolo 99 della Costituzione di un Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) – organo costituzionale, con funzioni consultive, nel quale sono rappresentati le organizzazioni datoriali e sindacali ed altre associazioni professionali – altro non è che una democratizzazione del Corporativismo fascista come istituzionalizzato nel regime attraverso la Camera dei Fasci e delle Corporazioni sostitutiva della Camera dei Deputati.

Questa silenziosa “contaminazione” fascista nella Costituzione ebbe ripercussioni anche tra gli eredi politici del fascismo. Infatti, mentre con la gestione Michelini il partito neofascista del Msi si avvicinava ai liberali ed ai monarchici, per fondare la “Destra Nazionale”, l’ala sinistra e sindacalista missina, quella della corrente “Nazione Sociale” del geo-politologo Ernesto Massi, fieramente rivendicatrice degli ideali socializzatori della Repubblica Sociale, guardava, negli stessi anni del dopoguerra, con estremo interesse al centrosinistra fanfaniano fino a porsi in rotta di collisione con la segreteria Michelini. L’esito di questo conflitto interno fu la conseguente fuoriuscita dal partito della corrente “sociale”. Il Msi, infatti, con Michelini aveva scelto di volgersi alla costruzione di una destra conservatrice che del fascismo richiamava piuttosto il filone dei fiancheggiatori conservatori che invece quello della sinistra sindacalista.

Il recupero dei sindacalisti fascisti

Nell’alveo del sindacalismo fascista, al contrario – anche in tal caso silenziosamente ed in parallelo con quanto il partito di Togliatti faceva accogliendo gli intellettuali di formazione gentiliana della sinistra fascista –, finirono per fare abbondante opera di cooptazione sia il Pci sia la Cgil che, per tutto il periodo immediatamente post bellico, non fecero altro che arruolare fascisti di sinistra e sindacalisti fascisti. Non furono i soli perché lo stesso fecero la Dc e la Cisl tra i settori del sindacato fascista non insensibili al cattolicesimo sociale. Francesco Grossi, cattolico ed ex sindacalista fascista, esperto di edilizia operaia, fu ampiamente consultato da Fanfani per il suo Piano Casa di Edilizia Popolare. Giuseppe Bottai, convertito al Cattolicesimo, attraverso la sua nuova rivista ABC propugnò nel dopoguerra un corporativismo democratico, avvicinandosi alle posizioni cattoliche. Un altro ex sindacalista fascista Riccardo Del Giudice, che nel periodo prebellico aveva iniziato la stesura di un’opera enciclopedica sul lavoro in Italia cui aveva chiamato a partecipare Federico Chabod, Ernesto Sestan e lo stesso Fanfani, si avvicinò al cattolicesimo sociale.

Conclusione

Nella prima parte del XX secolo ma con ampie ramificazioni temporali fino a perlomeno gli anni ’90 – quando la globalizzazione ha travolto, con lo Stato nazionale, anche gli assetti faticosamente costruiti nel secondo dopoguerra in continuità con l’eredità corporativa degli anni ’30 – è possibile per gli storici verificare la costante persistenza di una idea guida che presiede allo sviluppo politico, sociale ed economico della modernità, non solo in Italia e non solo in altri Paesi che hanno attraversato una esperienza di tipo più o meno fascista. Una presenza ideale che ha le sue radici molto indietro nel tempo, almeno nella ottocentesca reazione, tanto di destra quanto di sinistra, all’individualismo. Infatti a partire dalla Rivoluzione Francese, sulla scia del contrattualismo sociale di Hobbes, Locke e Rousseau (nonostante le neopagane tendenze già romantiche ed in qualche modo “neo-organiciste”, in salsa periclea, ateniesizzante e romano-repubblicanizzante, di quest’ultimo), l’individualismo aveva trovato la sua consacrazione negli “immortali principi”. Ma a tale consacrazione aveva dato immediata risposta, pur nelle sue diverse accezioni filosofiche e politiche, l’Organicismo.

Se, nei secoli moderni, ed in particolare negli ultimi due, l’Organicismo ha conteso, quasi sempre con successo, l’egemonia all’individualismo, è nel secolo appena iniziato, il XXI, che quest’ultimo sembra, invece, avere notevoli chance di predominio. La liquefazione post-moderna dei vincoli e dei rapporti sociali, anche nella forma della solidarietà meccanica propria alla modernità, va dissolvendo ogni senso di identità ed appartenenza della persona con l’esito finale di dissolvere la persona stessa, per sua natura mai irrelata ed in-appartenente, nel flusso impersonale di una rete sinallagmatica che la digitalizzazione planetaria ha steso su tutto il mondo, assetto finalmente compiuto della tendenza totalitaria che soggiace all’individualismo e al contrattualismo. Il fatale trapasso – annunciato nelle convention di Davos dai tecnocrati del World Economic Forum – dell’umano nel transumano bio-tecnologico, informe e senza identità di cultura come di genere, con il correlato sogno prometeico di una immortalità artificiale, ottenuta mediante la cyborgerizzazione ossia l’interconnessione biotech tra uomo e macchina digitale, evidenzia l’abisso terminale nel quale l’essere umano sta sprofondando e che soltanto un Organicismo radicato nella Sapienza tradizionale potrebbe evitargli. Ma ci vorrebbe un miracolo o un intervento della Provvidenza per impedire il trionfo dell’trans-anti-umano che avanza ormai senza più resistenze, neanche spirituali.

NOTE

  1. L. Copertino “Stato e Sindacato – dal Corporativismo fascista alla Costituzione antifascista – Divergenze e convergenze”, Il Cerchio, Rimini, 2022.
  2. A. Del Noce “L’epoca della secolarizzazione”, Giuffré, Milano, 1970, p. 118.
  3. A. Del Noce “Il suicidio della Rivoluzione”, Rusconi, Milano, 1978.