La democrazia impopolare

La democrazia è diventata impopolare. Lo attesta il crollo della partecipazione al suo rito più sacro, le elezioni. La tendenza riguarda l’intero Occidente, in cui ormai un elettore su due non si reca a votare. Le recentissime elezioni portoghesi hanno fatto eccezione, ma nel paese lusitano la contrapposizione era fortissima, alimentata da scandali di corruzione che hanno travolto il governo socialista.  Negli Usa è rara una partecipazione superiore alla metà degli aventi diritto, nonostante il voto postale e quello elettronico. In  Italia il voto sardo e abruzzese ha registrato tassi di astensione vicini al 50 per cento.

La democrazia rappresentativa non attrae più, anzi non rappresenta, ossia non assolve alla sua funzione. Un numero crescente di persone considera la politica un problema, non una soluzione. Il discredito della classe politica – effettivamente scesa a livelli imbarazzanti- e l’adesione della stragrande maggioranza di partiti e schieramenti al medesimo modello socio economico- liberista, globalista e ostile agli Stati nazionali- rende sempre meno interessante la competizione, vista come semplice lotta per il potere tra gruppi organizzati di esecutori della volontà di chi comanda davvero: burocrazia e lobby europee, cupole economiche, bancarie, finanziarie, tecnologiche transnazionali. Perfino le guerre – che i popoli non vogliono– non suscitano dibattito tra le forze politiche, tutte allineate al pensiero dominante delle élite. E il popolo, che le costituzioni chiamano sovrano ?

Chi scrive ha sentimenti contrastanti. Non ci ha mai convinto il principio democratico, sanzione del “senno dei più”, eterodiretto dal potere del denaro e dalla capacità di pochi di manipolare la cosiddetta opinione pubblica. Non abbiamo mai creduto che il numero di persone che sostengono un’idea o una tesi sia la prova della sua validità; in più, poiché crediamo nell’esistenza della verità, sappiamo che questa non può essere messa ai voti o assoggettata all’umore cangiante dei sondaggi.  Tuttavia, il declino della rappresentanza politica ci preoccupa, giacché aumenta il potere di pochissimi e spegne la voce dei popoli, che non sarà voce di Dio, ma va sempre ascoltata.

L’impopolarità delle procedure democratiche, peraltro, è assai gradita agli stessi che gridano più forte gli slogan “democratici”. Molti anni fa, quando in Italia la partecipazione al voto era ancora altissima, ma si avvertivano le prime crepe nella disaffezione degli elettori, chiedemmo a un esponente politico di livello – persona onesta, preparata e che avrebbe poi ricoperto importanti ruoli istituzionali- di animare iniziative per riportare gli italiani alle urne. La risposta fu raggelante, per il giovane ingenuo di allora: meno gente vota, meglio è. Le nostre idee conteranno di più, disse. Aggiunse che in ogni caso la maggioranza non capisce le vere questioni politiche. Vero, ma allora il vero democratico, se è tale, dovrebbe avere la volontà di spiegarle con franchezza. Aggiungiamo, con Gòmez Dàvila, che l’autentico democratico dovrebbe ammettere di avere torto, se sconfitto alle urne.

Perfino Norberto Bobbio, per decenni sopravvalutato dominatore della cultura italiana, alla fine della sua lunga vita, concluse che la democrazia era soltanto un insieme di procedure. Ovvio, se manca la ricerca del bene comune, se la legge non è che l’espressione contingente degli interessi e delle idee dei dominanti, quel diritto “positivo” di cui l’intellettuale torinese fu il massimo divulgatore. Se la procedura è in crisi, è in crisi anche il principio che la sostiene, l’idea della libera volontà della maggioranza che si fa governo. Come potrebbe essere diversamente, se il potere del denaro svuota la democrazia, se le elezioni vengono vinte da chi ha più quattrini da spendere per orientare gli elettori, cioè convincere manipolandoli ? La rappresentazione democratica diventa spettacolo: vince il/la più attraente, chi meglio “buca lo schermo”. Ma  per bucare lo schermo bisogna arrivarci, ai mezzi di comunicazione. Ecco uno dei punti critici di questa democrazia febbricitante sospesa tra baccano e afasia.

Meno estesa è la partecipazione, più grande è la presa delle lobby, degli interessi creati, di chi decide – sì, decide- chi può partecipare alla grande corsa e chi no. I vincenti della competizione non devono neppure raggiungere la maggioranza aritmetica: vari espedienti nei sistemi elettorali premiano le minoranze più forti a scapito di tutti gli altri. Il sistema maggioritario inglese elegge governi che da un secolo non rappresentano la fatidica metà più uno dei votanti ( già falcidiata dagli assenti).  Il principio di maggioranza è di fatto negato: anche per questo il sistema favorisce la frammentazione politica, che spesso non è divergenza di idee o progetti, ma lotta di opposte ambizioni personali. Per converso, la polverizzazione politica tende ad escludere le nuove idee, i movimenti di formazione più recente, soprattutto se le istanze che rappresentano – e che dunque esistono nella società- sono oppositive, antagoniste.

Sappiamo bene che i lettori fuggono annoiati quando ci si addentra nelle tecnicalità della politica, che paiono irrilevanti ai più, oltreché noiose e complicate. Eppure sono questioni centrali che modificano in profondità l’architettura del potere e influenzano indirettamente le convinzioni correnti, indirizzando i risultati. Se noi volessimo, insieme ad amici e seguaci, partecipare alle elezioni, forti di un programma politico preciso e bene argomentato, dovremmo superare una serie impressionante di ostacoli. Dopo esserci registrati legalmente, saremmo obbligati a raccogliere un numero consistente di firme di cittadini a sostegno della nostra candidatura.

Le sottoscrizioni, secondo legge, devono essere convalidate alla presenza di un soggetto autorizzato ( notaio, cancelliere, ufficiale di stato civile) ) con le ingenti spese relative . Una norma criminogena, elusa ampiamente. In corso d’opera, scopriremo che i nostri competitori si sono esentati dall’operazione. Con varie leggine ed opportuni emendamenti, chi è già presente nelle istituzioni elettive, per una sorta di ius primae noctis politico, non deve sottostare alla norma generale. Il nuovo arrivato, esausto, alla fine ce la: sarà presente sulla scheda elettorale. Tuttavia, se non ha appoggi importanti o ingenti mezzi economici, non avrà accesso- se non marginalmente- ai mezzi di comunicazione. Sarà ignorato, silenziato nelle televisioni, in radio e sui giornali. Non potrà pagare pubblicità, diretta e indiretta, e molto probabilmente otterrà pochissimi voti. Alla faccia dell’uguaglianza, pilastro teorico della democrazia.

Il caso italiano di queste settimane è eloquente: con un semplice emendamento, la raccolta delle firme per le elezioni europee di giugno è stata evitata ad alcuni e imposta ad altri. Democrazia, democrazia, è cosa vostra e non è mia, cantavamo da ragazzi. Democrazia in quantoché comandate voi, era la strofa successiva. Avevamo ragione. Nel caso dell’europarlamento, la regola- assurda, escludente- impone almeno centocinquantamila sottoscrizioni, trentamila per ognuno dei cinque collegi in cui è divisa l’Italia, con il minimo di tremila per ciascuna regione. Problemino: la Valle d’Aosta ha poco più di centomila abitanti, compresi i minorenni e gli stranieri, il Molise trecentomila. Chi può raccogliere tremila firme, se non ricorrendo a varie forme di illegalità, ossia commettendo gravi reati ? C’è di più: un movimento presente alle elezioni parlamentari in tutta Italia deve raccogliere sessantamila firme in tutto. L’europarlamento, evidentemente , vale due volte e mezzo quello italiano, pur non avendo potestà legislativa. Crediamo ancora nella sacra democrazia, se il suo esercizio concreto è negato tanto platealmente? Vi sembra strano che il sistema rappresentativo- ridotto a percorso ad ostacoli che esclude il nuovo e l’antagonista a norma di legge- stia diventando impopolare?

Un’ulteriore riflessione riguarda la verità della “legge ferrea dell’oligarchia”enunciata da Roberto Michels nella Sociologia del partito politico. Tutti i partiti si evolvono da struttura democratica aperta a circolo chiuso dominato da un numero ristretto di dirigenti, tendenti a diventare una categoria professionale e autoreferenziale. Con il tempo, chi occupa cariche apicali si allontana dalle idee della struttura cui aderisce , formando una élite compatta, dotata di spirito di corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a moderare i propri obiettivi: il fine principale diventa la sopravvivenza dell’organizzazione e non la realizzazione del programma ( la persistenza degli aggregati di Vilfredo Pareto). La classe politica- come ogni gruppo di potere-  è una minoranza organizzata capace di vincere su maggioranze disorganizzate. E’ la tesi di Gaetano Mosca, convinto che esista una sola forma reale di governo, l’oligarchia. In ogni società ci sono i governanti ( al suo tempo la classe politica, oggi vassalla della struttura economica, finanziaria e tecnologica) e i governati (il resto della società).  Confusamente, l’opinione pubblica lo ha capito e si rifiuta di partecipare a un gioco con carte truccate.

Questa condotta , in sé naturale, ha una grave controindicazione: i politici- e i loro padroni – lo sanno perfettamente, alimentano la disaffezione e si fregano le mani soddisfatti per la nostra indifferenza e vana ostilità. Conta che il gioco resti nelle loro mani: per questo si chiudono a riccio come casta, indipendentemente dalle idee che affermano di professare. Meno siamo, pensano, più ampia è la fetta di torta che ci tocca. Realisticamente, occorre dunque far valere- come società civile, come individui e gruppi pensanti- la stessa legge dell’oligarchia e costituirci come tale. Se vota la metà di chi ne ha diritto, il mio voto vale doppio: la mia capacità di mobilitazione, di influenza, di lobby, diventa l’elemento che si trasforma in potere.

E’ per questo che ci siamo convinti che occorra formare delle reti di soggetti- individui, associazioni, intellettuali- portatori di principi, esigenze, visioni della vita da fornire come programma  alla classe politica in cambio del nostro appoggio. Sono le minoranze a cambiare il mondo: la maggioranza, come l’intendenza di Napoleone, seguirà. Se non ci riusciremo, potremo soltanto lamentarci, gridare al vento che “ sono tutti uguali”, sconfitti dalle idee che detestiamo, trasformate in leggi, senso comune, “segni dei tempi” per un unico motivo: hanno trovato la minoranza organizzata che le ha imposte.  Nell’immediato, non resta che la falsa alternativa tra il “meno peggio” e il silenzio. Entrambe le scelte sono gradite al sistema. Il banco vince sempre, finché non cambieremo il gioco.

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