Il racconto di un grande scrittore, Giani Stuparich, che non teme Tolstoj

Da Il Foglio:

MARCO ARCHETTI  

“La morte di Antonio Livesay” fa parte del novero dei suoi racconti mai ripubblicati: la storia di un uomo che ha la sensazione di durare ancora poco. Un uomo che, in mezzo agli altri uomini, si sente già estraneo, in partenza, scucito via dalla trama delle cose che continueranno a esistere

i sembra ultimamente che l’umanità pensi di durare per sempre”, scriveva Raffaele La Capria nel libro “La vita salvata”, ultima conversazione con Giovanna Stanzione ricca di splendidi aneddoti. (Il più bello? Quello in cui La Capria racconta di quando, con Parise, giocavano a dividere gli scrittori: da un lato quelli per i quali la cultura era un’aggravante, dall’altro quelli che la usavano davvero per andare al fondo delle cose). E poi, offerta col tono di chi si sentiva giustamente l’ultimo guardiano del faro, la citazione di grandi scrittori italiani degli anni Trenta e Cinquanta che ormai nessuno legge, compresi gli scrittori italiani venuti dopo: ed ecco Comisso, Piovene, Patroni Griffi, Slataper, Tobino, Volponi, Ottieri. E Giani Stuparich.

“La morte di Antonio Livesay” fa parte del novero dei suoi racconti mai ripubblicati – per fortuna ci ha pensato Aracne nel 2015, curatela di Cinzia Gallo. Si tratta di un mazzo di pagine che questo scrittore dal “virile riserbo” (così Renato Bertacchini su Belfagor, marzo 1957) nato austroungarico e morto italiano, europeista convinto e internato in un lager ungherese durante la Prima guerra mondiale, presentò in una raccolta che si chiamava “Racconti” (ah, se l’editoria tornasse lapalissiana per un attimo!) uscita presso Buratti nel 1929. E proprio di morte racconta, e di una sensazione opposta a quella descritta da La Capria: la storia di un uomo che ha la sensazione di durare ancora poco. Un uomo che, in mezzo agli altri uomini, si sente già estraneo, in partenza, scucito via dalla trama delle cose che continueranno a esistere, già fantasma tra le braccia della morte seppur sia ancora in vita, in vita a non sapere per quanto, in vita a ricordare la giovinezza – la carriera pianistica abortita, l’azienda paterna come una crocifissione cui, dopotutto, non ribellarsi, le partite di caccia con gli amici. Perché la verità è una: gran parte della vita è fuggita e non tornerà, è stata solo un frammento.

A un certo punto, nel momento più opprimente di quel 30 luglio col selciato che quasi prende fuoco, Antonio entra in una gelateria. Ha bisogno di fare ciò di cui abbiamo tutti, talvolta, bisogno: soffrire in pace. Soffrire con ordine. Soffrire indisturbato. “Invece non poté pensare”. E il rosa pallido di quel gelato e la penombra riposante del locale “gli fecero traboccare l’anima”. Così dagli occhi di Antonio Liversay cade una lacrima. E un’altra. E un’altra ancora. Antonio si stupisce e si mette a mangiare, cucchiaino dopo cucchiaino, ritmicamente, forsennatamente. Infine crolla. “In quel momento, dalla soglia della morte”, in una gelateria in ci era entrato per star tranquillo, Antonio si agita pensando a tutto ciò che sparirà in lui con la morte, e che in fondo è già sparito: il vigore della giovinezza, “la nuvola rosa dei suoni e delle armonie” di quando suonava, i freschi e ventilati giorni di caccia, l’incantevole piacere dei sensi vivi “cui bisognerà presto dire addio” come a quelle cameriere in grembiule bianco e al tintinnio dei cucchiaini, perché tutto quel che sta accadendo è vita già andata. La visita che il futuro fa al presente uccide già Antonio Livesay, che si abbandona, confuso, a immaginare risarcimenti precipitosi, perché adesso i desideri inesauditi si ripresentano in coro a esigere soddisfazione.

“La morte di Antonio Livesay” è il racconto di un grande scrittore che conosce il suo compito. Uno scrittore che non teme Tolstoj. Che non teme di guardare, dritto negli occhi, Ivan Ill’ic.

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