IL PRINCIPIO RESPONSABILITA’

 

di Roberto PECCHIOLI

Nel corso della lettura dei resoconti della recente conferenza sul clima di Madrid, rallegrata- si fa per dire- dalla presenza di una santa laica, Greta Thunberg-  conclusa con un solenne fallimento a malapena occultato dalle frasi fatte dei comunicati finali, ci siamo più volte imbattuti in un concetto vago, assai sospetto agli occhi di chi, come noi, ha smesso da tempo di credere alla buona fede delle istituzioni.

Si tratta della “responsabilità sociale d’impresa”. Abbiamo svolto una rapida indagine, scoprendo che, una volta di più, si tratta di un’idea di matrice anglosassone. Il termine è stato introdotto nel 1984 da Robert Edward Freeman e descrive l’ambito delle implicazioni etiche nelle strategie d’impresa. Ha una sigla anglofona (CSR, Corporate Social Responsibility) ed è stata oggetto di definizione anche dall’Unione Europea: la responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società.

E’ un travestimento in più, la falsa patina di moralità di un modo di produzione – e dell’idea generale della vita come mercato- che nasconde dietro eleganti fumisterie la falsa coscienza, anzi l’assenza assoluta di coscienza morale. La sigla, criptica e legata al magico gergo degli affari, enfatizza e insieme cela ciò che sembrerebbe ovvio, ovvero il dovere dell’assunzione di responsabilità per le azioni compiute. Questo linguaggio equivoco dimentica l’essenziale: il bene e il male lo fanno le persone di carne ed ossa, e non i gruppi collettivi. I giuristi romani introdussero il concetto di persona giuridica come soluzione per situazioni complicate, ma precisarono immediatamente che si trattava di una fictio iuris, un espediente per governare aspetti specifici di una società complessa.

Nel presente, dobbiamo dare ragione a Giacinto Auriti, il quale, in un prezioso, pressoché introvabile saggio pubblicato in forma di atti di un convegno culturale, definiva le società di capitali, soggetti della nebulosa “responsabilità sociale”, come strumento di dominazione economica sganciato da qualunque etica, un’intelligente artificio per sfuggire i vari aspetti- morali, civili e penali –della responsabilità, dissolvendola nel labirinto delle tecniche giuridiche. Convince tanto più la tesi dello studioso abruzzese, se valutiamo la responsabilità attraverso il prisma deformato dell’ultimo mezzo secolo. Da tempo il pensiero dominante ci ha indotto a credere che le colpe umane devono sempre caricarsi sulle spalle di qualcun altro, che la responsabilità di comportamenti dannosi deve sempre attribuirsi alla società; che gli esseri umani nascono non solo perfettibili ma identici, per cui qualunque conflitto va addossato alle condizioni ambientali.

Una simile filosofia ha preparato con pompa solenne le giustificazioni virtuose dei ceti dominanti, le oligarchie economiche, finanziarie, scientifiche e tecnologiche che, con la complicità attiva delle autorità politiche, hanno condotto il pianeta alla crisi etica, comunitaria, ambientale di cui cominciamo a comprendere portata e conseguenze. A Ulpiano e Gaio non è mai passato per la testa di mettere in dubbio che è la persona fisica, l’uomo concreto, l’unico protagonista dell’etica e del diritto. Parlare di responsabilità di gruppi umani o istituzioni economiche come le imprese/società anonime, è un’invenzione recente, che coincide con il disconoscimento generale della logica.

Ciò che viene dimenticato è che il termine responsabilità ha significati diversi a seconda che si parli di persone fisiche o giuridiche. Quando si attribuisce un’azione a una persona giuridica si sta utilizzando il concetto di responsabilità in un senso traslato che non coincide affatto con il significato primario, riferito alla persona fisica. Il sistema economico e finanziario è bravissimo a giocare con queste differenze per sottrarsi alle conseguenze dei propri atti, il cui scopo è sempre il profitto, con scarso o nullo interesse per le ricadute sugli esseri umani, sulla società e sulla natura. Possiamo definire questa dimenticanza “mentalità socializzante”. Si trascura che la società umana è solo un mezzo per un fine, il bene comune, e, sotto il profilo individuale, lo strumento per la crescita assiologica della persona. La responsabilità del bene e del male cagionato è personale in senso primario; va dunque ripristinata l’opposta prospettiva, ovvero la mentalità personalista.

La differenza sta nell’aggettivo “morale”. In senso proprio, nessun gruppo umano ha responsabilità morale. Si tratta solo dell’attribuzione, più o meno artificiosa, di conseguenze giuridiche alle azioni di collettivi umani come associazioni, imprese, società anonime. Per esse, devono valere le conseguenze, non le intenzioni. Non reus nisi mens rea est, nessuno è colpevole se non lo è la sua mente, fu il principio di Giustiniano, relativo alle persone fisiche. Nicolai Hartmann corresse l’assurdo delle persone collettive di cui parlava Max Scheler, un grave errore di ascendenza russoviana, che servì da copertura intellettuale del totalitarismo, ma può essere altresì il pretesto dell’irresponsabilità e dell’impunità di cui godono le azioni commesse dalle imprese economiche e finanziarie per scopi di profitto o di dominio.

Vale la pena ricordare la notevole prestazione intellettuale di Hans Jonas, pensatore tedesco allievo di Martin Heidegger. Pur non uscendo dalle angustie del materialismo, Jonas resta uno dei pochi filosofi morali del nostro tempo e la sua opera maggiore, Il Principio Responsabilità (1979), pone l’uomo occidentale, accecato dall’idea di progresso, davanti alla scelta decisiva se restare un essere morale o lasciarsi agire dalla tecnica. Jonas ebbe anche il merito di individuare le radici gnostiche della modernità. Il suo punto di partenza è la constatazione che “il fare dell’uomo è oggi in grado di distruggere l’essere del mondo” Proprio il problema ambientale, accennato all’inizio di queste note con riferimento all’ ambigua categoria di responsabilità etica d’impresa, ispirò a Jonas un’intensa riflessione morale e bioetica sulla libertà e responsabilità di ciascun uomo nell’era tecnologica.

Il filo conduttore è la convinzione che nel rapporto alienato con la natura vada ricercata una delle prime cause della crisi della civiltà occidentale. Con l’avvento della potenza tecnologica si creano le condizioni affinché tale conflitto sfoci nell’irreversibile alterazione della condizione umana, attraverso l’ingegneria genetica e la distruzione dell’equilibrio della biosfera. Di qui la necessità di estendere la responsabilità morale a ciascun uomo di oggi e di domani, la cui esistenza è minacciata dall’esito nichilistico della tecnica. Il “principio responsabilità” intende porsi come una riformulazione dell’imperativo categorico di Kant in termini contemporanei: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

Concedendo all’uomo la libertà, afferma Jonas, Dio ha rinunziato alla sua potenza. Un paradosso cui si può replicare ricordando che è l’atteggiamento dell’uomo occidentale moderno, privato del senso del male e della trascendenza, ad aver messo in crisi il suo rapporto con il mondo, rendendolo incapace, per l’egemonia del materialismo predatorio, di cogliere la trama, innanzitutto morale, della relazione con il creato. Va quindi ribadito con forza, dinanzi alle maschere e agli equilibrismi verbali del tipo della “responsabilità sociale d’impresa”, che alla fine sono sempre persone di carne e ossa a prendere le decisioni, anche quelle apparentemente guidate dal determinismo economico e “tecnico”.

Negli statuti delle persone giuridiche è messo in chiaro chi sono i responsabili concreti degli atti compiuti, ma la decisione presa da un gruppo umano non è altro che la volontà di chi ha il coltello dalla parte del manico. Il collettivo come tale, la fictio iuris della persona giuridica, non è responsabile morale di nulla. Responsabili morali sono coloro, o colui, che comanda. E’ un dettaglio assai importante. Se una società causa un danno sanzionato dalla legge, è eticamente ingiusto che paghi l’impresa. Ricevono un danno i dipendenti e gli stessi azionisti; in una civiltà moralmente orientata, il castigo dovrebbe ricadere innanzitutto sul patrimonio e sulla libertà personale di chi ha realmente causato il problema, ovvero i membri del consiglio d’amministrazione.

Se è una società anonima quella che paga, non vi è incentivo a cambiare atteggiamento e, in un mondo nel quale gli unici valori riconosciuti sono valutabili in denaro, persino i risarcimenti possono essere agevolmente contabilizzati e detratti come redditizie spese pubblicitarie. Al contrario, se fossero le persone in carne e ossa a pagare per le loro azioni, con tutte le conseguenze del caso, molte condotte cambierebbero.

La responsabilità morale deve coincidere con la responsabilità personale. La formalizzazione della logica ci insegna che il primo operatore logico, l’affermatore-negatore, comprende due aspetti inseparabili: la conoscenza della verità-falsità e la libertà positiva di optare per il valore della verità o per l’antivalore della menzogna. La definizione di persona è molto chiara: è il soggetto che detiene gli operatori logici. Solo lei possiede il linguaggio, su di lei grava la responsabilità morale. La responsabilità morale e l’imputazione della colpa ricadono interamente sulla persona. Sola da lei procede la bontà o la cattiveria dell’azione umana. Questo è essere liberi in senso positivo. Una società o comunità umana non è libera in senso positivo, non ha la possibilità di fare il bene o il male. Non possiede il linguaggio.

Può accadere che diverse persone siano coautrici dello stesso crimine, ma ognuno è responsabile come se fosse stato l’unico autore. Questo è il vero significato dell’espressione in solidum, introdotta dai giuristi romani. Le imprese o le società non hanno gli operatori logici. E’ loro attribuita la responsabilità del bene e del male solo come finzione giuridica, per uscire dal vicolo cieco, come già detto. La complessità della vita legale ci costringe a considerarle in molte situazioni come se fossero persone, il famoso als ob di Kant. Ma non sono persone, anche se per lo scarso rigore logico prevalente abbiamo dimenticato questo dettaglio elementare. Parlare di responsabilità di un gruppo umano suppone l’attribuzione al termine di un altro significato. Questa alterazione porta con frequenza all’ imprecisione nel definire la finalità del gruppo in questione. L’obiettivo primo di un’attività industriale o commerciale è guadagnare soldi. E’ diritto dovere dell’autorità pubblica, riflesso del bene comune, stabilire i limiti per l’esercizio dell’industria e del commercio.

Prendere in considerazione i due significati della parola responsabilità significa riconoscere il contrasto tra ciò che abbiamo chiamato mentalità personalistica e mentalità socializzante. Si considerino, per esempio, le fondazioni culturali o filantropiche. Quasi tutte le grandi aziende, nonché molti uomini d’affari ne costituiscono una. Ma il mecenatismo, per essere moralmente lodevole, deve venire dal cuore; in realtà, più spesso si tratta di ripulire immagini sporcate da pessimi comportamenti, desiderio di pubblicità, altre volte è un mezzo “etico” per dedurre redditi dalle dichiarazioni tributarie. Al contrario, esistono associazioni promosse da persone fisiche, gente che vive e veste panni, che non hanno secondi fini. La perversione dei sentimenti prodotta dalla perdita generalizzata di principi morali fa sì che qualche volta si senta fastidio per la solidarietà disinteressata. Alla cattiva coscienza dei malvagi dà sempre fastidio l’esistenza della generosità; è una manifestazione del risentimento di cui parlò Max Scheher.

Il bene e il male non lo fanno le società, le imprese, ma le persone. Per questo Hartmann disse che la persona è un creatore in piccolo (Schoepfer im kleinen). Il bene e il male procedono unicamente dalla persona. Questo è il senso primario della parola responsabilità. Torniamo così all’intenzione morale di Hans Jonas, la cura del prossimo e del creato che si fa principio, ed anche, in un altro ambito, all’invettiva di Giacinto Auriti contro la strategia culturale di lungo periodo che ha realizzato “il mostro della strumentalizzazione dei fantasmi nel campo del diritto“, attraverso la generalizzazione delle persone giuridiche di fatto irresponsabili, risultato di una raffinata strategia di dominio condotta dai professionisti dello strozzinaggio e dello sfruttamento.

Spaventa e indigna l’inversione tra bene emale, giusto e sbagliato, la capacità di lupi e sciacalli di rivestirsi di pelle d’agnello ed essere creduti, additando sempre altrove la responsabilità di autentici crimini. Colse nel segno una riflessione di Jonas: “Nessuna scienza ha bisogno di dirci che procedere in ceppi è impossibile. Il solo pensiero di ciò che potrebbe liberare questo vaso di Pandora [l’idea di farsi guidare senza limiti dalla tecnica] fa inorridire. Per quanto mi riguarda, io non temo gli abusi dovuti a malvagi interessi di potere: temo invece coloro che dicono di amare l’umanità e sognano un grandioso miglioramento della specie”. Il principio irresponsabilità.