“Educazione alle Relazioni” è un modo carino per dire “indottrinamento di Stato”

Tempi, lettere al direttore

Un insegnante

Nel giorno in cui le scrivo questa lettera, il ministro dell’istruzione Valditara ha comunicato l’annullamento delle nomine a Paola Concia, suor Anna Monia Alfieri e Paola Zerman al coordinamento del progetto “Educazione alle Relazioni”, un percorso sperimentale di 30 ore extra-curriculari, attivabile su base volontaria, che però ha un contenuto che non mi sembra affatto chiaro.

Con una dinamica divenuta ormai prassi, il dibattito odierno si è già smarrito nella solita selva dell’“Al lupo! Al lupo!” su nomine al coordinamento di un progetto educativo di cui nessuno ha ancora capito davvero niente.

Visto che il contenuto del progetto è tutt’altro che chiaro, si potrebbe però partire dall’unico punto fermo della faccenda: non è obbligatorio, ma “attivabile su base volontaria”. Mica tanto. A seconda del successo del progetto infatti (ma che vuor di’?!), è già valutata la possibilità di renderlo obbligatorio in tutte le scuole superiori. Da qui dunque, una certa urgenza a fare chiarezza.

Ho provato a leggere la direttiva dello scorso 24 novembre, con cui il ministro ha comunicato ufficialmente l’avvio del progetto, ma, ahimè! non ci ho capito niente. Più che un piano educativo, a dire il vero, mi è sembrato un documento aziendale, uno di quelli messi insieme dalla sera alla mattina, con cui di solito gli uffici risorse umane delle succursali cercano di attuare le nuove policy della casa madre (senza averci capito niente). Periodi lunghissimi, zeppi di elenchi, che finiscono in nulla; corollari metodologici e studi di fattibilità; dovizia di cifre sui finanziamenti; ma di contenuto critico e culturale neanche l’ombra.

Sospetto però che tale mancanza sia inevitabile. Per quel poco che ho capito, infatti, tra i desiderata di questo progetto ci sarebbe quello di “rendere edotti sulle conseguenze dei propri comportamenti, al fine di evitare la violenza”. Che è esattamente quello che una vera educazione umana non fa. Non si educa mai, infatti, ad evitare il male, ma, semmai, ad amare il bene. Non si guarda alle ingiustizie della storia per impedire meccanicamente che si ripetano, ma per far crescere l’amore alla giustizia e il desiderio di rimanervi attaccati, anche quando tutti si voltassero da un’altra parte. Come diceva Antonia Arslan, di recente, in un incontro sull’evacuazione coatta del Nagorno Karabakh (eccola una tragedia taciuta e avvenuta solo un mese fa, sotto gli occhi di tutti), «ognuno deve scegliere: i giusti dei genocidi sono quelli che non si voltano dall’altra parte. L’uomo non può dire “questa atrocità non succederà più” perché non è nelle sue forze impedire il male, ma gli spetta, piuttosto, di decidere di non guardare dall’altra parte».

Chi dovrebbe impedirci il male dunque? Un progetto dello Stato? Vogliamo metterci le pinze sulle palpebre per guardare quanto è brutto il male, fino a pervenire a uno stato di nausea perenne? Ma chi la guida la baracca, Kubrick?

Questo non significa che i tempi non siano maturi per un ripensamento critico e sistematico del modo in cui si comunica, attraverso l’educazione, la positività che si vive nella propria esistenza. Siamo certamente di fronte a sfide grandi e decisive, che non possono farci stare mai tranquilli. Mi sono perso qualcosa o questo tema è stato completamente scavalcato e stiamo già litigando su chi debba coordinare il carrozzone? Vale la pena scommettere sulla valorizzazione intrinseca di ciò che a scuola già accade (o può accadere), o ci siamo già arresi all’inevitabilità di soluzioni tecniche estrinseche, che mettano a tutti la coscienza a posto?

Un insegnante

Ecco, finalmente un commento intelligente a questa grottesca vicenda. Cos’è questa smania di creare tavoli, comitati, commissioni, in definitiva “carrozzoni”, per rispondere a ogni emergenza? Cos’è questa idea, come diceva Fabrice Hadjadj, che bisogna sempre affidarsi agli “esperti” per educare i ragazzi ? E, soprattutto, ma chi l’ha detto che fra i compiti dello Stato c’è anche quello di indottrinarci all’affettività?

Avevamo già avuto sentore che questa storia stesse prendendo una piega storta. Non è solo il problema della Concia, il problema numero uno è questa idea che serva un “corso” per imparare l’affettività. Un corso statale per imparare a vivere! E poi lo sappiamo tutti come andrebbe a finire: si inizierebbe col parlare di “relazioni” e si finirebbe con la propaganda lgbt. O, peggio ancora, con le noiosissime prediche sul “rispetto” e la “tolleranza”, le parole totem dietro cui si nasconde l’incapacità di comunicare un senso delle cose e dei rapporti. Ma ci hanno preso per scem