Dalla Spagna alla Germania

Dalla Spagna alla Germania

le imprese di un militante falangista e il diario di prigionia di un soldato italiano

Nella storiografia spesso non si dà il giusto peso alla “memorialistica” in quanto la si considera troppo viziata da approcci sentimentali e soggettivi tali da oscurare il fine, sempre inseguito e mai raggiunto perché in fondo irraggiungibile dell’obiettività o della assoluta neutralità. Proprio perché questo obiettivo di neutralità, pur doverosamente perseguito, non è conseguibile in modo pieno, è necessario prendere in considerazione anche i “memoriali” che altro non sono che testimonianze, spesso dirette, di chi ha vissuto i fatti e li racconta benché dal suo punto di vista. Sta poi allo storico riequilibrare eventuali squilibri narrativi mediante la comparazione con altre coeve e diverse fonti.

L’amico Luciano Garofoli ha, di recente, messo giù un bel lavoro inteso a ricostruire la vicenda paterna emblematica, in qualche modo, della sorte di migliaia di soldati italiani dopo il tragico “armistizio” dell’8 settembre, che in realtà fu una resa senza condizioni seguita ad un tradimento politico. Ma il principale pregio del libro, a merito della creatività dell’autore, sta nell’aver collegato – nonostante il sotteso rischio di una troppa frettolosa comparazione evitato, però, in una prospettiva aperta alla “teologia della storia” – la vicenda del padre a quella di un oppositore della Seconda Repubblica spagnola del 1931.

La storiografia vive necessariamente del continuo adeguamento a nuove scoperte, ad analisi inedite, a ricerche innovative che mutano con il passare del tempo. Anche parlare di revisionismo è in sostanza assurdo in quanto siamo di fronte ad un continuo mutare delle conoscenze in base agli aggiornamenti ed alla scoperta di nuove fonti prima sconosciute.

Il libro qui recensito, sfatando alcune presunte certezze, ci fa partecipi della memoria di due vicende umane che, per quanto piccole nel grande mare magnum della complessità storica del XX secolo, lasciamo trasparire la grandezza “ordinaria” dei protagonisti. Ordinaria perché alla portata di tutti, se posti in certe situazioni storiche.

La narrazione segue un fil rouge che unisce in maniera sottile, ma solida, le due vicende. La prima è la biografia di Adolfo Gómez Ruiz appartenente ad una famiglia le cui origini risalgono al Cid Campeador, insignita del titolo di Grande di Spagna. La seconda invece è tratta dal diario di prigionia di un ufficiale di complemento del Regio Esercito, Vittorio Garofoli, padre dell’autore, che ha scritto, a futura memoria, in forma, appunto, di diario le sue traversie di soldato italiano fatto prigioniero dai tedeschi in Grecia dopo l’8 settembre 1943.

Due personaggi molto diversi, come diversa è la scena della loro vicenda, che tuttavia offrono testimonianze personali dirette.

La ricostruzione della vicenda di Adolfo Gómez Ruiz, personaggio quasi sconosciuto ma di un certo peso nella storia spagnola del tempo, è basata sulla documentazione d’archivio di famiglia utilizzata dal nipote per inquadrare le gesta del nonno nel tempo nel quale si svolsero. Tra questa documentazione c’è anche una serie di fotografie inedite gentilmente concesse dalla signora Maria del Pilar figlia di Adolfo Gómez Ruiz e madre di quel nipote che, con pazienza, ha guidato, per circa due anni, l’amico Luciano nella stesura di questa parte dell’opera.

Nel 1931, con l’uscita di scena, alquanto poco chiara, del re Alfonso XIII, dopo la fine della dittatura, con aspetti a suo modo modernizzanti, di Miguel Primo de Rivera, la Repubblica Spagnola inaugurò un periodo di feroce persecuzione della Spagna cattolica. D’altro canto è noto che, a partire dal XIX secolo, di Spagne ce ne sono due e che esse si sono scontrate più volte in ripetute guerre civili, della quale quella del 1936-39 fu solo l’ultima.

Come hanno dimostrato storici di valore quali Stanley Payne o Vincente Carcel Orti, le violenze antireligiose iniziarono subito, sin dal 1931, con migliaia di chiese e conventi devastati ed un patrimonio artistico irreparabilmente distrutto per sempre, e non soltanto, come vorrebbe la vulgata ufficiale, a seguito dell’Alziamento del 18 luglio 1936. Il quale piuttosto arrivò a seguito del clima di illegalità messo in atto dalla sinistra radicale contro la stessa costituzione repubblicana del 1931, ed in particolare quando nella fase dal ‘34 al ‘35 governò una coalizione moderata di centro-destra che aveva vinto le elezioni.

Lo scambio di battute tra Adolfo Gómez Ruiz, durante l’ennesimo processo davanti ad un Tribunale del Popolo, ed il giudice, che cerca di blandirlo offrendogli un salvacondotto per sé e per la sua famiglia se avesse riconosciuto la legittimità del governo repubblicano, è emblematico della irriducibilità tra le due Spagne

«Ma signor Gómez Ruiz, se le venisse richiesto di giurare fedeltà alla repubblica per avere definitivamente salva la sua esistenza e quella della sua famiglia lei giurerebbe lealtà al legittimo governo spagnolo?»

«No mai e poi mai signor Presidente! La vita è un dono di Dio e non è negoziabile né può essere merce di scambio! E tanto meno con voi che la vita disprezzate e mettete ogni giorno sotto i piedi con azioni infami e menzogne costanti!»

Risposta lapidaria. Adolfo Gómez Ruiz viene condannato a morte.

Tuttavia, anche nei frangenti storici più carichi di odio capita talvolta che il rispetto per l’avversario ed il riconoscimento del suo valore non sia perso del tutto. Alla fine del dibattimento il giudice fa avvicinare l’imputato al suo scanno per dirgli con convinta ammirazione: «Don Adolfo Gómez Ruiz usted es todo un hombre». Segue un brindisi tra i due che, sebbene ciascuno intendendola a modo suo, alzano i calici per la fortuna della Spagna.

Per l’intervento del medesimo giudice, la sentenza non sarà eseguita. Don Adolfo attenderà la fine della guerra civile e la vittoria di Franco. Un giudice capace di umanità, al di là dell’odio politico, non avrebbe purtroppo invece trovato Josè Antonio Primo de Rivera, amico e compagno di battaglie politiche del protagonista del libro. Il fondatore della Falange Espanola de las juntas de Offensiva nacional-sindicalista arrestato sin dal marzo del 1936, con false accuse, sarebbe stato fucilato il 20 novembre dello stesso anno nel carcere di Alicante.

Il movimento – nato dalla fusione tra Falange Espanola dello stesso José Antonio Primo de Rivera, figlio del generale Miguel, le Juntas Castellanas de Actuaciòn Hispànica di Onesimo Redondo Ortega e le Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista (Jons) di Ramiro Ledesma Ramos – rappresentò il tentativo di fondere ispanicità, cattolicità e modernità attraverso la prospettiva di un sindacalismo nazionale che, senza indulgere in nostalgie medioevali, realizzasse una organizzazione sociale alternativa al capitalismo ed al latifondismo agrario attraverso l’autogoverno dei sindacati consolidati ed inquadrati nello Stato Nazional-Sindacalista, simile, ma anche diverso per molti aspetti, al corporativismo fascista.

Francisco Franco, il quale era soltanto un nazional-conservatore, fuse in un’unica struttura partitica falangismo e carlismo, ossia il tradizionalismo cattolico spagnolo, per il malcontento di entrambi i movimenti, che non si sopportavano. A partire poi dagli anni ’50, Franco defalangizzò del tutto questa struttura unionista sollevando i ministri di provenienza falangista per sostituirli con quelli di provenienza Opus Dei e bloccando quel poco di conseguimento del programma sociale della Falange che quei ministri, come José Antonio Jiménez Velasco e José Luis de Arrese, erano riusciti a portare avanti nella prima fase cosiddetta del “franchismo sociale”.

Adolfo Gómez Ruiz apparteneva a questi falangisti che, nonostante l’operazione di vertice franchista intesa a neutralizzare la carica rivoluzionaria e sociale del falangismo originario, operarono all’interno del regime per tentare di salvaguardare le idealità politiche e nazional-sindacali di José Antonio Primo de Rivera. Infatti Adolfo Gómez Ruiz sarebbe diventato Jefe National de la Obra Sindacal “18 de julio”, il Ministero della Sanità spagnola, ed avrebbe dato vita alla struttura fondamentale della Sanità pubblica spagnola ancor oggi valida, aprendo ben 600 cliniche e dotandole dei mezzi più moderni nonché esercitando un controllo minuzioso sulla formazione universitaria dei futuri medici. A questo incarico avrebbe unito anche quello di Asesor National del Frente de Juventudes, l’organizzazione del regime per i giovani.

La seconda parte dell’interessante libro dell’amico Luciano Garofoli, come detto, ha un taglio molto diverso trattandosi del diario di prigionia del padre dell’autore. Queste pagine ci mettono di fronte al nostro dramma nazionale come vissuto da un ufficiale, nato nel 1920, che vede, all’improvviso, dileguarsi tutto il mondo nel quale egli era cresciuto e del quale condivideva i presupposti ideali benché in una maniera originale, non esente anche da una certa critica. Elemento, questo, che non meraviglia affatto chi, forte delle giuste conoscenze storiche, ben sa come la critica fosse esercitata durante il regime fascista e come essa venisse esternata sulle riviste intellettuali e giovanili, dall’“Universale” di Berto Ricci (l’anarchico fascista ghibellino iniziatore al giornalismo del giovane Indro Montanelli) a “Critica Fascista” (alla quale era abbonato anche Antonio Gramsci) fino a “Primato” (fucina di tutti gli intellettuali emersi nel dopoguerra), entrambe dirette dal più colto dei gerarchi ossia Giuseppe Bottai, e molte altre.

Vittorio Garofoli, protagonista della seconda parte del libro, visse con devozione e sincerità, come fecero quasi tutti i suoi coetanei, il clima di mobilitazione popolare in attesa della seconda ondata della rivoluzione che prometteva la svolta anticapitalista del fascismo per un destino che avrebbe dovuto fare dell’Italia una grande potenza rivoluzionaria. Tuttavia per Vittorio Garofoli il primato andava all’italianità più che all’ideologia fascista benché, fino alla guerra, non vi era tra esse sostanzialmente alcuna distinzione. Il binomio Italia/Fascismo si ruppe soltanto a seguito della conduzione disastrosa di una guerra che, in fin dei conti, vide il nostro Paese quale ruota di scorta di una potente Germania la quale, mentre inalberava ideali europei che attraevano in assoluta buona fede migliaia di giovani da tutte le nazioni europee, mirava soltanto alla sua egemonia continentale contendendola a quella, altrettanto odiosa, franco-inglese.

Quando Vittorio giunse prigioniero in Germania su un “comodo” carro bestiame, durante la sua permanenza nel campo di prigionia viene approcciato da un ufficiale italiano che ha deciso di combattere nella Legione Italiana delle Waffen SS. Al collega che lo esorta a fare altrettanto egli risponde in modo tranciante ma dimostrativo dell’avvenuto disallineamento in tanti giovani tra italianità e ideologia: «Non voglio tornare in Italia e sfilare per le strade con una divisa da mercenario. Prima sono un italiano, poi un italiano fascista!»

All’idea di collaborare con la Germania nazista preferisce sopportare il logorio psicofisico dell’internamento, la malnutrizione, la conseguente inevitabile depressione, la reclusione forzata dentro una baracca circondata da reticolati. La presenza al suo fianco di due amici ufficiali, conosciuti sul fronte greco, attutisce un po’ il senso di surmenage che continua a persistere. Nel diario di prigionia di Vittorio ci sono anche momenti intensamente umani come il ricordo doloroso, che lo tormenta ai primi di novembre del ’43, del fratello maggiore morto in un incidente stradale a soli 25 anni oppure la preghiera alla nonna defunta affinché sostenga dal Cielo sua madre alleviandone la pena per la mancanza totale di notizie a suo riguardo. La religiosità semplice ma profonda di Vittorio ha modo di esprimersi in queste avverse circostanze in un modo simile a quelle del Giobbe biblico che continuò ad aver fede nonostante le dure tribolazioni che Dio gli invia per mettere alla prova la sua fedeltà. Infatti, pur non riuscendo a capirne i motivi, Vittorio era tra i pochi del campo di prigionia che non riuscivano né a comunicare con i cari né a ricevere notizie da casa. Non riusciva neanche ad intercettare i pacchi della Croce Rossa a lui destinati, che sparivano nel nulla.

Considerava i “crucchi” teste di ferro piene d’aria. E con ampie ragioni dacché aveva assistito al trattamento dei prigionieri, impediti perfino di poter espletare i loro bisogni corporali perché le porte dei vagoni non venivano aperte. Quelle porte non venivano aperte neanche quando i vagoni, fermi in binari morti delle stazioni della Ruhr, venivano a trovarsi sotto le incursioni dei bombardieri alleati e a temperature decisamente molto rigide. Perciò restò stupito quando, in una stazione polacca, incrociò truppe indiane che indossavano divise tedesche essendosi arruolate volontarie nelle divisioni delle Waffen SS. Se avesse saputo come gli inglesi trattavano i loro sudditi coloniali, ed anche i prigionieri di guerra italiani, il nostro Vittorio avrebbe certamente compreso la scelta di quegli indiani.

Nel diario di Vittorio emerge tutta la triste realtà concentrazionaria che può portare l’uomo al massimo di eroismo o al massimo di abiezione. La spinta alla sopravvivenza faceva in modo che alcuni suoi colleghi prigionieri collaborassero con i tedeschi commerciando con essi e pagando tangenti, in sterline o in corvé, pur di ottenere favori e privilegi dagli stessi.

Tra i ricordi di Vittorio fa capolino, nel diario, quello di una conferenza tenuta da Giovanni Guareschi, prigioniero in un campo vicino, alla vigilia di Natale del 1943 intitolata “C’era una volta il panettone Motta”. L’episodio è riportato anche dallo stesso Guareschi nelle sue memorie quando narra le traversie della prigionia in Polonia.

Tuttavia è proprio nei luoghi più oscuri della sofferenza umana che la Provvidenza si palesa, senza nascondersi. Lydia era una ragazza polacca che lavorava all’interno del campo di Vittorio e, correndo anche qualche rischio, gli faceva piccole corvé, come lavargli la biancheria. Scoperta in questa sua opera di misericordia la ragazza viene accusata di praticare mercato nero ed i poveri vestiti di Vittorio sono sequestrati. Lydia avrebbe confessato a Vittorio il motivo per il quale aiutava lui e gli altri prigionieri. Per la ragazza polacca era come aiutare i suoi cari, alcuni di essi internati ed altri esuli combattenti per la Polonia a fianco degli Alleati. Per capirsi i due ricorrevano al latino che la ragazza aveva imparato in chiesa.

Vittorio, che come visto non aveva accettato di arruolarsi nelle Waffen SS italiane, aderì invece alla RSI. Non è dato capire se in lui si fosse ricucito lo strappo tra italianità e fascismo, causato dalla guerra, oppure se fu una scelta di sopravvivenza. Lasciando il campo viene colto quasi da una sorta di nostalgia per quanto di buono la Provvidenza gli aveva comunque fatto sperimentare in un luogo che sembrava abbandonato da ogni umanità e che invece, appunto provvidenzialmente, era stato per lui una esperienza colma di senso del bene ancora possibile. Mentre i cancelli si rinchiudevano alle sue spalle intravede Lydia ma non riesce a salutarla. Avrebbe portato con sé per sempre il ricordo di quella affettuosa amicizia fino a farne narrazione anche al figlio, l’autore del libro, come se fosse una favola bella.

In Italia, Vittorio è inviato sul fronte di Anzio. Pesa 45 chili, non ce la fa a reggere un fucile nonostante sia soccorso con zabaioni e cibi più proteici. Alla fine della guerra riesce a tornare a casa ed a rivedere l’anziana madre.

In apparenza slegata dal contesto nella parte finale del libro vi è una breve ricostruzione storica della vicenda della gloriosa dell’Alfa Romeo. L’autore spiega questa “intromissione” osservando che la sorte della grande casa automobilistica del Portello è speculare a quella che subita dall’Italia come nazione. Del resto non cogliere le analogie sarebbe impossibile. Gli italiani che lavoravano duro per la grandezza della Patria erano gli stessi, dice Luciano Garofoli, che scendevano in piazza con il tricolore per festeggiare la vittoria di Nuvolari, appunto su un’Alfa Romeo, al Nürburgring dove il Mantovano volante (o come lo definirono i giornali tedeschi “der Taufel”, il diavolo) aveva umiliato e ridicolizzato la sicumera e la tracotanza germanica. Ma come l’Italia ha visto svanire il suo sogno di grandezza, incautamente alleandosi alla Germania per poi finire colonia americana, così anche della nota casa automobilistica italiana si è persa perfino la memoria.

In chiosa al libro, Luciano Garofoli propone una spiegazione delle ragioni dell’attuale decadenza italiana ripercorrendo la vicenda gloriosa dello sviluppo dell’Arma Azzurra, che la grigia ed ottusa burocrazia sabauda volle fosse chiamata Regia Aeronautica. In quella vicenda Luciano Garofoli vede incarnarsi la creatività italiana. Che si manifestò con ampiezza prima della guerra e che, nel dopoguerra, la si sarebbe ritrovata nella, non a caso, breve stagione del decollo industriale italiano per essere poi persa, insieme all’identità nazionale, nel mare magnum della globalizzazione, a causa del venir meno di quelle radici spirituali definitivamente recise dalla sconfitta bellica.

Anche la nascita e l’ascesa del comparto aeronautico italiano, nel periodo fascista, diede lustro e prestigio all’Italia. Dalle imprese aree nel Mediterraneo a quelle transatlantiche di Italo Balbo la nostra nascente aereonautica aveva acquisito visibilità con un ritorno positivo di immagine per lo stesso regime. Ma anche contribuendo alla formazione di una coscienza nazionale nel nostro popolo. Le foto degli S 55 che sorvolano l’Acropoli di Atene furono pubblicate sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.

Migliaia di persone, ad Odessa come a Tolone, a Rio come a Chicago o a New York, si assiepavano ai margini delle zone di atterraggio degli aerei italiani, sventolando fazzoletti, bandierine ed accompagnando con fragorosi applausi gli ammaraggi degli idrovolanti con le insegne del littorio. La parata trionfale degli aviatori italiani lungo la Fifth Avenue, a New York, richiamò una folla pari se non addirittura maggiore di quella che accolse il ritorno vittorioso dei soldati americani alla fine della prima guerra mondiale. Persino nelle città russe le autorità comuniste permettevano alla popolazione di fraternizzare con i piloti di Balbo. L’URSS acquistò gli idrovolanti italiani oltre a molte centrali di direzione di tiro per i cannoni delle navi preferendole a quelle celebratissime della Siemens tedesca.

L’italianità del “soldatino” Vittorio Garofoli si fondava anche su queste gesta aviatorie.

Con la guerra quel senso di identità nazionale venne meno. Renzo De Felice – per lo scandalo dei propagatori della vulgata sulla Resistenza quale “Secondo Risorgimento” – ha parlato dell’8 Settembre come della data infausta della “morte della patria”. Da quella data, infatti, a parte la ridicola riduzione calcistica (anche quella da qualche tempo in disarmo), la nostra identità storica è in una sorta di sospensione, in un limbo patriottico. Lo sviluppo impetuoso del “miracolo economico” del dopoguerra non ha affatto smentito la tesi di De Felice dato che la generazione che quella crescita ha realizzato era la stessa nata e formatasi nel clima fascista, nel clima dell’orgoglio nazionale, dell’anteguerra e che, superata la guerra, ne avrebbe manifestato, per un’ultima volta, forza e vitalità.

Infatti il taglio delle radici, perpetuato l’8 Settembre e la successiva occupazione e colonizzazione occidentale sotto comando statunitense, ratificato dall’adesione alla Nato, si sarebbe ben presto fatto sentire, non appena quella generazione, quella di Vittorio Garofoli, andò, per ragioni anagrafiche, scomparendo. Gli italiani delle generazioni successive non avevano più radici, alla nazione preferivano, a seconda delle scelte politiche, o l’Occidente cosmopolita o l’internazionalismo sovietico dell’Urss. Poi, più tardi, con la globalizzazione è iniziata anche la decadenza economica dell’Italia e quel tanto di ricchezze e benessere che la generazione di Vittorio Garofoli aveva costruito nel dopoguerra, con la forza dell’identità italiana maturata nell’anteguerra, ha iniziato anch’esso a svanire, un po’ alla volta.

Il libro di Luciano Garofoli “Diario di prigionia di un soldato italiano” è disponibile ed ordinabile su internet cliccando su questi due link.

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Luigi Copertino