ATOMO DI FUOCO – Un breve cenno sul rapporto tra Cristianesimo e Perennialismo – di Luigi Copertino

ATOMO DI FUOCO

Un breve cenno sul rapporto tra Cristianesimo e Perennialismo

In questi giorni di reclusione più o meno forzata da pandemia, ho letto un libro prezioso e bellissimo. Si tratta dell’opera di un amico storico delle religioni. Il libro ha per titolo “Un Atomo di fuoco – Forme e dinamiche culturali d’Occidente: storia delle religioni, ermeneutica, Tradizione” (edizioni Il Cerchio , Rimini, 2019). Il suo autore Marco Toti, borsista di ricerca presso il “Fulbright” e l’Accademia dei Lincei. E’ un  testo inteso ad indagare la relazione tra ermeneutica, storia e tradizione nel contesto degli “studi religiosi” nell’ambito della storia intellettuale contemporanea. Viene esaminato il rapporto tra tradizione religiosa, lessico ascetico e mondo postmoderno con riferimento specifico alla “scuola romana” di storia delle religioni. Il campo nel quale dunque  – muovendosi tra lo storicismo aperto alla fenomenologia di Raffaele Pettazzoni e l’orientamento tradizionale di Cristina Campo come anche tra la nostalgia dell’origine in Cesare Pavese e la sapienza nativo-americana in Frithjof Schoun – spazia, con indiscutibile competenza, il Toti incrocia inevitabilmente il problema del “primordialismo” o “perennialismo”, che dir si voglia, in primis in rapporto al Cristianesimo ed alla civiltà occidentale ma nell’ottica di una “morfologia religiosa” aperta al comparativismo – sia sul versante dell’ascetica che della mistica e dell’escatologia – con l’auspicio di fondo di un “dialogo teoretico” tra le religioni che nulla ha a che fare con l’attuale vulgata degli “incontri ecumenici”.

Quel che di più è apprezzabile nell’opera del Toti è la sua costante attenzione ad  evitare il disallineamento, molto frequente nei “perennialisti”, tra sacramenti cristiani e iniziazione.

Ricordiamoci sempre delle parole che Gesù Cristo rivolse ai suoi primi discepoli: «… poiché non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10, 26-27). Chi nel segreto del suo cuore ha assaporato – la Sapienza è etimologicamente un “assaporare” – la verità di Gesù, che è la Sua Persona viva e carnale, non può che proclamarla dai tetti. Lo stesso passo nel Vangelo secondo Marco (4, 21-23) ha una chiosa molto significativa: «Se uno ha orecchi per intendere, intenda!» che è una sorta di “ritornello” tipico nella predicazione pubblica del Cristo.

Questa chiosa indica che la Verità è aperta a tutti e che tutti possono ascoltarla ma anche – attenzione! –che tra l’ascolto superficiale e l’ascolto interiore, quello vero e salvifico, ce ne passa. Eppure per ascoltare interiormente la Sua Parola di Verità non necessitano particolari qualificazioni né intellettuali né etniche né castali: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt. 11, 25-27).

Il parlare in parabole di Cristo è evidente segno di uno svelare e velare al tempo stesso e, non a caso, Gesù ne spiegava il significato recondito ai soli apostoli in segreto, in disparte dalle folle. Eppure agli apostoli Cristo ha lasciato una chiara consegna ossia la missione alle genti affinché tutti i popoli, per mezzo di Lui che è il Verbo Incarnato, entrino nell’Alleanza stipulata con Abramo. Gli apostoli sono inviati a “predicare dai tetti” ciò che nel segreto è stato loro rivelato per la salvezza del mondo.

Il Cristianesimo, per chi ancora non lo avesse compreso, è un “esoterismo aperto” che rifiuta l’elitarismo gnostico e predestinazionalista che distingue, illegittimamente, tra spirituali, psichici e ilici: i primi, in quanto solo essi dotati di spirito, destinati ipso facto alla salvezza; i secondi, che hanno solo l’anima, soggetti ad un incerto destino escatologico; i terzi, che sono solo corpi animali, condannati irrimediabilmente alla distruzione senza alcuna prospettiva oltremondana. Nel Cristianesimo la salvezza è aperta a tutti a condizione dell’ascolto interiore. Nessuna distinzione tra predestinati alla salvezza e predestinati alla dannazione. Il destino di ciascuno è nelle sue mani perché l’unica differenza la fa l’apertura o meno del cuore allo Spirito. In questo contesto di esoterismo aperto, i sacramenti – l’Eucarestia innanzitutto  – sono senza dubbio una via di accesso iniziatica ma, appunto, via che ti fa accedere ad un cammino che devi comunque percorrere, altrimenti essi rimangono inerti e senza effetto.

René Guénon e molti altri perennialisti – benché tra loro con sfumature diverse – non hanno mai capito questa particolarità, anzi questa unicità, del Cristianesimo perché sono avvezzi ad indebitamente troppo separare, persino in qualche modo opporre, livello esoterico e livello exoterico.

Nel Cristianesimo, invece, il livello interiore ed esoterico – che si esprime anche come mistica – non è mai separato dall’esteriorità sacramentale e rituale. Si prenda, ad esempio, la transustanziazione eucaristica. La sostanza del Pane si trasforma nel Sacro Cuore di Cristo e la sostanza del Vino nel suo Sangue: in tal modo viene comunicata la Vita di Dio agli uomini. Anzi Dio, che è già intimo all’uomo più dell’uomo a sé stesso, per dirla con Agostino d’Ippona, si fa operante nel cuore dell’uomo fino a raggiungere, se trova un cuore aperto e disposto, i livelli più alti della mistica, il livello unitivo che chiamano “matrimonio spirituale”.

Agli uomini spetta il compito di voler accedere e di comprendere in modo oltre-razionale il Mistero velato sotto l’apparenza delle specie eucaristiche ossia di penetrarvi, di intuirlo. Non a caso “in-tuire” è entrare, penetrare. Sulla scia di un perennialista d’eccezione come Attilio Mordini, è inevitabile riconoscere l’evidenza per la quale la Tradizione Perenne, Primordiale, di cui parlano i perennialisti, è Cristo Dio-Uomo. Sicché il Cristianesimo non è riduttivamente uno dei raggi della ruota dell’Unità Trascendente delle Religioni – una posizione intellettualistica, questa, che lo relativizza (si tratta, in fondo, della stessa posizione perorata dalla massoneria esoterica) – ma è l’Asse che regge la ruota mentre le altre tradizioni sono, appunto, quei “Semina Verbi” di cui parlano i Padri della Chiesa.

Marco Toti coglie in pieno questa evidenza del Cristianesimo in particolare a proposito di Andrei Scrima, monaco ed archimandrita romeno, dunque cristiano-ortodosso, esperto di “Filocalia”, laddove nell’esaminare il suo pensiero il nostro si pone la domanda se la tesi del romeno conduce all’equivalenza delle religioni tradizionali oppure alla loro interpretazione come Semi del Verbo. Toti risponde al quesito sottolineando la necessità di ben intendere, onde evitare di farne un elemento di eterodossia che si presterebbe alle facili strumentalizzazioni degli esoteristi della domenica o anche della moda new age, la distinzione tra cristico e cristiano con la sua “asimmetria” tra Logos e Gesù.

Il problema, qui, è nel fatto che mentre è giusto dire che Gesù Cristo è il Logos deve essere verificato se è possibile affermare che il Logos non è solo Gesù o se in quest’ultima affermazione non vi sia un abbaglio ereticale. Perché è innegabile che in essa, presa tout court, vi è un rischio di relativismo irenistico.

La deriva ereticale diventa inevitabile se non si considera con forza la “follia di Dio” il Quale sceglie di far entrare Sé Stesso ossia l’Infinito nel finito. Lui è l’Onnipotente e quindi può farlo, può stabilire che Gesù è il Logos ed il Logos è solo Gesù. Anche se noi uomini non riusciamo a capirlo fino in fondo e ci può sembrare una pretesa apodittica, intollerante verso le altre forme religiose, pretenziosamente assolutistica.

Il Dio cristiano, ad un tempo nascosto e rivelato come afferma l’Esodo nell’ «Io sono Colui che Sono», non è  riducibile a nessuno degli esseri – qui il fondamento della teologia apofatica o negativa –  e nondimeno è il Vivente ossia ha un Volto, un Nome. Egli è Infinito, perché Uno nella Sostanza, ma anche, nella co-eterna essenza, Trino nelle Persone le quali, in quanto relazioni ad intra, non inficiano in Sé stesse l’Infinita Unità ed Unicità della Natura che è la loro stessa Natura. Ecco perché il Dio biblico non “emana” la manifestazione, non è l’Uno che si frammenta nel molteplice. La creazione non è manifestazione e quindi “caduta” nell’oscurità della materia. La creazione partecipa di Dio, è partecipazione all’Essere Infinito irriducibile alle creature. E’ dono che l’Amore Infinito fa alle creature partecipandole del suo Essere personale e tuttavia infinito per natura, nascosto, misterioso. Dio, abbiamo detto, ha un Nome ma è impronunciabile dall’uomo senza che Lui lo riveli. Il tetragramma ebraico, YHWE, sta ad indicare per l’appunto questa impossibilità per l’uomo a pronunciare, ossia a comprendere, raggiungere, Dio se Lui non si svela nella misura all’uomo consentita.

Il punto focale della questione sta nel fatto che la Tradizione abramica – ebraismo, Cristianesimo ed islam – nel panorama universale delle religioni è un unicum che si distingue nettamente dalle tradizioni extra-abramiche. In quella abramica, Dio benedice la creazione che avviene per separazione e distinzione degli elementi cosmici primordiali – «vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» dice Genesi 1,31 – mentre nelle tradizioni extrabibliche proprio la distinzione e la separazione, la frammentazione dell’Uno, sono la “caduta” e quindi la maledizione, la perdizione nell’impurità della materia.

Secondo la Rivelazione abramica, la caduta di Satana è stata provocata dal suo rifiuto, al momento della prova cui Dio sottopose gli angeli viatori, di accettare il Disegno Divino dell’Incarnazione del Verbo che fu mostrato in visione agli angeli. Satana, il più vicino a Dio quale Lucifero ovvero “portatore di luce”, preso dal suo orgoglio “spirituale” rifiutò di adorare il Verbo e protestò di fronte alla prospettiva di un Dio che voleva insozzarsi con la carne, che voleva abbassarsi (la kenosi) per assumere la natura di una creatura dall’angelo disprezzata, per la sua materialità, quale a sé “inferiore”. Da qui la ribellione ad un Dio che abbassandosi non aveva più diritto ad essere adorato: “non serviam”. E’ il tema del cosiddetto “peccato degli angeli” presente nei racconti tradizionali ebraici, nel Corano a proposito del peccato di Iblis e nella fede cattolica come compendiato nel Catechismo (numeri da 391 a 395). Satana non comprese l’Umiltà di Dio, espressione del Suo Amore che è la Sua Essenza, e fece della propria purezza spirituale un elemento di vanità ed orgoglio. Cosa che lo ha perduto per sempre. Contro Satana, nel Genesi e nell’Apocalisse, si erge Maria nella sua eccelsa purezza ed umiltà destinata ad essere Madre di Dio.

Anche circa gli stati intermedi del post-mortem, insieme alle analogie bisogna tener conto delle differenze. Il libro del Toti contiene un intero capitolo dedicato alla comparazione di alcune dottrine escatologiche, in particolare la dottrina cattolica del purgatorio messa a confronto con quella ortodossa delle “dogane”  e con il Bardo Todol del buddismo tibetano. Mentre nel caso del purgatorio cattolico e delle dogane ortodosse possiamo dire che in fondo siamo in presenza di una concezione forse “complementare”, anche se narrata teologicamente in forme apparentemente diverse, non così per quanto attiene al buddhismo tibetano. Con esso le differenze stanno soprattutto nel fatto che le visioni orrifiche o beatifiche sono intese nel buddhismo “idealisticamente” ovvero come proiezioni del sé – perché l’Oriente in genere, come anche le tradizioni eterodosse occidentali, olisticamente non conosce distinzione tra macrocosmo e microcosmo ossia tra Divino e mondo (riassorbendo, a seconda dei casi, il Primo nel mondo o al contrario il secondo nel Primo) – mentre in ambito abramico si tratta della “vivificazione” dei peccati che si “scagliano contro l’anima dannata o purgante” o della “vivificazione” delle opere buone che circondano l’anima beata e un po’ alla volta la portano sempre più in alto verso la Luce, verso la comunione con Dio che, tuttavia, non è fusione di essenza essendo l’Essenza di Dio altra dall’essenza umana pur vivendo l’uomo in Dio.

Sottolineare queste differenze non vuol essere manifestazione di esclusivismo confessionale ma soltanto riconoscimento della citata unicità abramica nel cui contesto non è Dio a voler creare l’inferno ma è l’uomo che lo crea da sé chiudendosi al Suo Amore. In un certo senso l’inferno può essere inteso anche come l’Amore di Dio che il dannato, rifiutandolo, vive al rovescio quale “fuoco sfigurante e doloroso” (la pena del senso) e non come “Fuoco d’Amore”, quello dello Spirito, che arde nel cuore. In altri termini il male non è in Dio né è creato da Dio, come invece finisce per sostenere ad esempio un Guénon ipotizzando gli stati inferiori del reale come una dipanazione estrema della manifestazione/emanazione dell’Uno. In Dio c’è soltanto la previsione della “possibilità”, mai necessaria, che la creatura intelligente e libera, sottoposta alla prova, rifiuti il Suo Amore ed apra l’abisso. Che però non è Lui a voler creare. E’ l’uomo, che è sub-creatore, ad immettere nella creazione, insieme alla morte (che Dio non vuole), l’inferno.

Ma dal momento che nulla è al di fuori di Dio, benché la creazione resti sempre distinta da Lui (altrimenti cadiamo nel panteismo), anche gli stati infernali, come quelli purganti e quelli beatifici, sono nel “perimetro divino”. Ecco perché i mistici cristiani, sulla scorta della Scrittura e della loro esperienza spirituale, affermano che Dio è presente anche nell’inferno.

Nel libro di Toti il filo sottile del complesso ma indubbiamente sussistente rapporto tra Cristianesimo e perennialismo viene dipanato con la massima attenzione a non cadere, camminando sulla corda tesa tra le due sponde, dall’una o dall’altra parte ossia verso la riduzione del Cristianesimo ad un exoterismo teologico razionalista o, al contrario, a dissolverlo in una indistinta e disincarnata “sophia perennis” che non avrebbe bisogno di “sporcarsi” con la carne e la materia.

Luigi Copertino